Letter from NY
March 2025
Aprendo Google Maps negli Stati Uniti, una novità salta subito all’occhio: il Golfo del Messico non appare più con il suo nome storico, ma viene ora denominato Golfo dell’America. Google ha rapidamente adottato la decisione del Presidente Trump di modificare la nomenclatura, un annuncio fatto nel suo discorso di insediamento e formalizzato lo stesso giorno tramite ordine esecutivo.
Per comprendere appieno ciò che sta accadendo negli Stati Uniti, è essenziale capire cosa siano e come operino gli ordini esecutivi (executive orders), strumenti assenti nelle democrazie europee. Un ordine esecutivo è un provvedimento firmato dal Presidente degli Stati Uniti d'America che indirizza le politiche esecutive delle agenzie del governo federale. Un ordine esecutivo non viene discusso e non viene votato, è una dichiarazione fatta dal presidente che diventa di fatto legge.
Nei primi venti giorni del suo mandato, Trump ha già firmato oltre sessanta ordini esecutivi. Questo spiega la rapidità dei cambiamenti politici che si stanno susseguendo negli Stati Uniti. Il Presidente sta usando questo potere spropositato per mantenere le sue promesse elettorali e sta di fatto stravolgendo il sistema governativo federale, prendendo svolte sempre più autoritarie.
Dopo la creazione del “Dipartimento di Efficienza Governativa” affidato a Elon Musk, con un ordine esecutivo Trump ha permesso a Musk e a tutti i suoi dipendenti l’accesso ai dati personali dei cittadini Americani custoditi dalla Treasury, il Dipartimento del Tesoro. Si tratta di dati altamente sensibili, quali codici fiscali e informazioni sui benefici previdenziali. Nonostante il nome di “dipartimento”, la nuova agenzia diretta da Musk non è legalmente un dipartimento federale. Non è chiaro, quindi, quali regole Musk sia tenuto a seguire, o se ci siano strutture per garantire che una tale centralizzazione di informazione e potere non venga usata a scopi di sorveglianza e manipolazione per interessi politici e privati.
Fa anche preoccupare l’ordine esecutivo che sancisce la terminazione di tutti i programmi e le agenzie che sostengono “DEI”, ovvero diversità, equità, e inclusione, così come quelli che sostengono “environmental justice”, ovvero giustizia ambientale. Il testo dell’ordine esecutivo denuncia questi programmi come uno spreco di risorse e li chiama, ironicamente, discriminatori. Un altro ordine esecutivo ha imposto il congelamento della spesa federale per dare tempo di individuare quali programmi e agenzie promuovono assistenza all’estero, organizzazioni non-governative, DEI, “woke gender ideology”, traducibile come ideologia di genere progressista, e il Green New Deal. Una volta individuati, a questi programmi e agenzie verrà terminato ogni tipo di sostegno finanziario federale.
Le ripercussioni di questi ordini esecutivi, al momento, si stanno facendo sentire in forma di grande incertezza. La mia università, nota in America per il suo orientamento progressista, si sta dedicando ad un lavoro di “ripulitura” della propria immagine nella speranza che questo le permetta di mantenere i finanziamenti federali, da cui è dipendente in larga misura. Ai club studenteschi è stato imposto di rimuovere dai propri siti e social media ogni riferimento a diversità, equità o inclusione. Non è inoltre più possibile consultare online la lista dei corsi, in modo da nascondere al pubblico generale titoli come “Antonio Gramsci’s Prison Notebooks” oppure “Indigenous Ethnomusicologies”, chiaramente troppo “radicali” per il nuovo governo di Trump.
Mentre l’amministrazione universitaria cerca di mantenere un profilo basso, la comunità studentesca sta rispondendo con crescente mobilitazione. L’insediamento di Trump ha accelerato la formazione della tanto attesa coalizione tra i principali movimenti studenteschi di sinistra presenti sul campus: Students for Justice in Palestine (SJP), che sostiene la causa palestinese; Students-Labor Dialogue, impegnato nella tutela dei lavoratori dell’università; e Sunrise Movement, promotore di giustizia razziale e sostenibilità ambientale. Un giornalino indipendente, distribuito in spazi comuni e mense universitarie, informa sulle iniziative della coalizione e incoraggia la partecipazione studentesca.
L’amministrazione Trump, come previsto, sta prendendo provvedimenti contro SJP, il movimento studentesco in solidarietà con la Palestina. Un ordine esecutivo annuncia che tutti gli studenti internazionali, se coinvolti in attività antisemite o “pro-Hamas”, andranno incontro ad una cancellazione del visto e alla “deportazione” immediata, usando le parole di Trump. L’ordine esecutivo annuncia, peraltro, che tutte le agenzie federali sono tenute a “monitorare” gli studenti internazionali coinvolti in manifestazioni pro-Palestina.
Le accuse di antisemitismo rivolte a SJP non sono una novità. Già durante l’ondata degli “encampment” del maggio del 2024, in cui diversi gruppi studenteschi occuparono le loro università in ribellione al genocidio di Gaza, la retorica dell’antisemitismo fu impiegata per giustificare espulsioni e arresti di studenti coinvolti in manifestazioni pacifiche.
Tuttavia, da mia esperienza diretta, le accuse ai danni di SJP di antisemitismo, oltre che false, sono soprattutto ridicole. Nella mia università, della cinquantina di membri coinvolti regolarmente nell’organizzazione, ne conosco solo sei o sette che non sono ebrei. In passato SJP ha organizzato Shabbat di comunità, spesso in collaborazione con l’organizzazione degli studenti musulmani. Non sono l’unica persona ad aver appreso le mie prime parole in ebraico alle riunioni SJP.
L’amministrazione Trump sta agendo con rapidità, segnando l’inizio di un’epoca caratterizzata da crescente incertezza e da una concentrazione del potere nelle mani di pochi oligarchi miliardari. Bisogna vedere quale sarà la risposta della società civile: adattarsi per limitare i danni come la mia amministrazione universitaria, oppure resistere, rischiando ritorsioni di natura e portata ancora sconosciuta, come ha scelto di fare il nostro corpo studentesco.