28 febbraio 2018
Ritratti e dediche
Pietro Del Zanna, caro Alexander Langer
Caro Alexander Langer, a 50 anni dal ’68 abbiamo ancora bisogno di te per uscire dalle sue secche.
sono più di 2 anni che vorrei provare a scrivere alcune cose perché speravo che la folata di memoria del ventennale della tua morte (2015) non si spegnesse o si assopisse fino al prossimo trentennale. Ho sempre rimandato per mancanza di tempo o pigrizia, o non so che.
Forse le parole non erano maturate. Lo faccio adesso, alla vigilia delle peggiori elezioni politiche che io ricordi.
Effettivamente la memoria in questi anni non si è spenta. Come braci latenti, è lì, che riemerge di volta in volta, senza però riaccendere il fuoco di cui ci sarebbe bisogno.
Ho 2 rimpianti: non aver onorato, per motivi di lavoro, l’invito ricevuto, su indicazione di Barbara Spinelli, dal Parlamento Europeo per ricordarti nella bella iniziativa del 3 Giugno 2015i ; non aver onorato, sempre per i soliti motivi, l’impegno preso con l’amico Severino Saccardi di scrivere un contributo sull’Europa e tu, nel bel volume della rivista Testimonianze - su cui ti capitava di scrivere- n°502-503 “Declino o rinascita? L’Europa al bivio” ii.
Non voglio aggiungere ricordi e celebrazione, ce ne sono stati fortunatamente molti, ma provare a riflettere sull’attualità del tuo pensiero, della tua azione e della tua vita.
Annalisa Corrado, a cui Marco Boato ha riconosciuto di aver preso “la staffetta in mano per le nuove generazioni”, nelle celebrazioni del ventennale della tua morte alla camera dei deputati, si augurava che fosse arrivato il momento in cui arriva l’alba che il profeta vede, dal promontorio, aveva sperato con largo anticipo.iii
Me lo auguro anche io. Come mi auguro che questa tornata elettorale sia uno spartiacque tra una politica, al capolinea, ed una nuova che tenta da anni, con fallimenti continui, di disegnarsi.
Mi martella una domanda: Perché in tanti, dai punti più disparati del panorama politico (e non), ti ricordano “costruttore di ponti” con tanta forza e lucidità e ciascuno rimane sulla propria riva, parlando sempre la medesima lingua, utilizzando sempre lo stesso vocabolario, ripetendo sempre i medesimi errori?
Perché nelle assemblee dei processi che si volevano o si vogliono aggregativi, ponti tra mondi diversi (da “Sinistra e Libertà” ad “Ecologisti e Civici”, da “Cambiare si può” ad “Altra Europa con Tsipras”, da “Human factor” a Possibile, da “Campo progressista” ad “Articolo 1” dall’appello Montanari-Falcone a Liberi e Uguali a Potere al Popolo….a chissà quanti ne seguiranno e quanti ne ho dimenticati) scatta immediato l’applauso, o quanto meno il plauso, ogni volta che viene fatto il tuo nome (addirittura ci sono sedi, circoli, o giornate di lavoro a te dedicate) e tutti questi processi sono finiti e/o finiscono con una maggiore nebulizzazione della situazione di partenza?
Io penso che sia perché delle tue parole più lungimiranti e importanti ciascuno ne dimentica (o sottovaluta) una buona parte. Eppure davvero il tuo pensiero e la tua azione sono stati profetici ed oggi sono di una attualità sconcertante. Vedere il Papa utilizzare il tuo vocabolario fa un certo effetto.
Mi ha sempre colpito come venga ricordato il tuo essere “umano”, “il più impolitico tra i politici”, il tuo impegno “civile” e dimenticato, quasi nascosto il tuo essere “politico”. Eppure eri fondamentalmente un politico. Ed è della tua levatura politica che oggi c’è drammaticamente bisogno.
Non riusciamo ad unirci verso quell’unica strada percorribile per “un futuro amico”, delimitata, sintetizzando al massimo, dai due assi portanti della conversione ecologica da un lato e della convivenza dall’altro, da te disegnata nella pratica e nella teoria.
"La conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se apparirà socialmente desiderabile” e “Tentativo di decalogo per la convivenza inter-etnica” sono i tuoi ultimi scritti più articolati.
D’altro canto il tuo lucido percorso è pieno di “sconfitte”. Da quando, nella migliore tradizione della sinistra, che si perpetua ancora, per unificare verdi, dp e radicali, si aggiunse la lista dei Verdi Arcobaleno alle elezioni europee del 1989 (con tua proposta di digiuno e di un “Concilio verde Europa” per superare le divergenze), al disastro della ex Juguslavia che tanto ti ha assorbito negli ultimi tuoi anni.
Allora che fare?
Forse sarebbe utile andare oltre le celebrazioni e rileggere ed ascoltare le tue parole. Sono veramente tanti gli stimoli e le proposte concrete che ci potrebbero fare emergere da questa sensazione di solitudine e disperazione che oggi, almeno sul piano politico, accomuna un gran numero di persone e che porta molti di noi a non sapere cosa votare, o a pensare di votare controvoglia e senza il minimo di convinzione.
Senza la pretesa di essere esaustivo provo a dare un minimo di “ordine” ai principali temi che tu presentavi ogni volta con delicatezza e forza, senza essere compreso spesso nemmeno dai tuoi compagni di strada.
Sinistra e progressismo o conversione ecologica?
Il primo tema, quello che tu chiamavi con disinvoltura “la grande causa”, che non doveva e poteva essere racchiusa in alcun “loculo verde”, in nessuna sigla politica, è senz’altro “La conversione ecologica”.
Oggi so che posso scrivere queste parole ed essere compreso abbastanza. Ma non è sempre stato così. Anzi direi che è una conquista recente e non ancora compiuta. Ricordo che preparando una iniziativa dei Verdi della provincia di Siena (2005) scrissi nella bozza di manifesto: “Per la conversione ecologica della Provincia di Siena”, ma non passò la supervisione dell’allora presidente provinciale Marino Artusa e diventò “Per lo sviluppo sostenibile della Provincia di Siena”. Ricordo ancora che già ai primi incontri interni ad una minoranza di Verdi, da dove sarebbe nata la proposta per una “Costituente Ecologista”, a Bertinoro nel Luglio 2009, Marco Boato, tuo amico e divulgatore del tuo pensiero, nel suo intervento derise il pensiero della decrescita, riferendosi a Pallante o Latouche (poco importa), dicendo che non si poteva presentare al pubblico con la crisi in atto. Ma i teorici della decrescita non fanno altro che sviluppare il concetto di “conversione ecologica”, per altro con una parola meno appropriata (infatti, sempre affiancata da aggettivi qualificativi che ne mitighino la percezione negativa: felice, serena ecc.).
A sinistra abbiamo Guido Viale che ha sviluppato il discorso.iv Oggi lo “sdoganamento” definitivo arriva da Papa Francesco e la sua enciclica “Laudato Si’”.v
Ma ancora nella percezione comune non ci siamo. Si insiste, quando lo si fa, sulla riconversione ecologica dell’economia - e non è poco - ma parlare semplicemente di “Conversione ecologica” non viene spontaneo, risulta stonato ad una cultura malata di secoli di progressismo e di una visione politica basata solo sull’antagonismo e la lotta di classe tra i passeggeri del treno lanciato sui binari dello “sviluppo”.
“Preferisco usare questa espressione (conversione ecologica, ndr), piuttosto che termini come rivoluzione, riforma o ristrutturazione, in quanto meno ipotecata ed in quanto contiene anche una dimensione di pentimento, di svolta, di un volgersi verso una più profonda consapevolezza e verso una riparazione del danno arrecato. Inoltre nel concetto di "conversione" è meglio implicita anche una nota di coinvolgimento personale, la necessità di un cambiamento personale ed esistenziale.”viA.Langer 1989
Qui c’è tutto. Il passaggio di paradigma epocale che la sinistra non riesce a compiere. Non più la rivoluzione, il proletariato che rovescia la classe padronale, il cambiamento ottenuto solo col conflitto di classe, o col riformismo, col governo A invece che con B, ma un cambiamento forse più lento, ma più profondo e duraturo, che coinvolga ciascuno nella propria individualità e nella propria quotidianità.
Serge Latouche dice giustamente che il primo passo da fare è “decolonizzare l’immaginario”.vii E’ un lavoro faticoso e lungo, ma nel quale dovremmo tutti impegnarci un po’ di più se vogliamo uscire da questa situazione.
Allora proviamo a sostituire almeno un’immagine che ci ha accompagnato negli ultimi due secoli. Abbiamo tutti, ma proprio tutti, interiorizzato il nostro modello di sviluppo ed economico come una locomotiva, un treno lanciato verso le magnifiche sorti del futuro. C’è un passato più o meno buio alle spalle ed una storia di progresso verso il più e il meglio che ci attende. E’ talmente interiorizzata questa immagine, che ogni volta che si presenta una crisi, lungi dal considerarla un campanello di allarme, viene letta come un tunnel. Quante volte abbiamo sentito i nostri governanti rassicurarci: la crisi non è alle spalle, ma “si comincia a vedere la luce in fondo al tunnel”. E’ un’immagine interiorizzata sia dalla destra che dalla sinistra. Per quest’ultima il problema è chi guida la locomotiva, e, giustamente, come distribuire le risorse a tutti i passeggeri del treno.
Ma l’immagine non può più essere questa. La situazione è più complessa. Da mezzo secolo almeno è iniziata e si è sempre più diffusa una nuova consapevolezza che ha a che vedere con la fragilità del pianeta che ci ospita (tutti: proletari e capitalisti, uomini e donne, bianchi e neri ecc. ecc.) e delle ferite inferte dal nostro modello di sviluppo al delicato equilibrio ecologico. Il treno non basta più a descrivere questa situazione. E’ molto più attinente l’immagine di una nave con una falla su un fianco che imbarca acqua. Forse è meno allettante, può risultare più tragica, ma questo è. Il livello di tragicità dipende e dipenderà dal tempo che impiegheremo a prendere consapevolezza della situazione ed a modificare i nostri comportamenti abituali. C’è chi dice che sia già troppo tardi e chi nega l’evidenza (come Trump). Non voglio fare il catastrofista e nemmeno l’ottimista cieco. Il fatto è che occorre rallentare la marcia della nave, gettare in mare l’acqua imbarcata e riparare la falla. Ed è un compito che coinvolge tutti.
Ma allora cos’è questa “Conversione ecologica”?
E’ l’acquisizione del concetto di “limite”. E’ la fine dell’idea di uno sviluppo illimitato e della concezione della storia e della vita come di una freccia unidirezionale illimitata.
Se procedendo in una certa direzione ci accorgiamo di andare a sbattere contro un muro, o a precipitare in un burrone, la cosa più razionale, non la più buonista, romantica ecc. è quella di rallentare o fermarsi e procedere in una direzione diversa, se non retrocedere.
Dire queste semplici banalità, che ciascuno di noi a livello privato e personale pratica continuamente, in politica è un tabù.
Non finiscono mai quelli che per superare le contraddizioni della sinistra attuale propongono il “progressismo” od una “nuova sinistra” come minimo comun denominatore da cui ripartire.
Su questo punto non vi sono margini di ambiguità ed interpretazione del tuo pensiero:
“Una riedizione della coalizione progressista o di altri consimili cartelli non riuscirà a convincere la maggioranza degli italiani a conferirle un incarico di governo. Ci vuole una formazione meno partitica, meno ideologica, meno verticistica e meno targata "di sinistra". Ciò non significa che bisogna correre dietro ai valori ed alle finzioni della maggioranza berlusconiana, anzi. Occorre un forte progetto etico, politico e culturale, senza integralismi ed egemonie, con la costruzione di un programma ed una leadership a partire dal territorio e dai cittadini impegnati, non dai salotti televisivi o dalle stanze dei partiti. Bisogna far intravvedere l'alternativa di una società più equa e più sobria, compatibile con i limiti della biosfera e con la giustizia, anche tra i popoli. Da molte parti si trovano oggi riserve etiche da mobilitare che non devono restare confinate nelle 'chiese', e tantomeno nelle sagrestie di schieramenti ed ideologie. Ma forse bisogna superare l'equivoco del 'progressismo': l'illusione del 'progresso' e dello 'sviluppo' alla fin fine viene assai meglio agitata da Berlusconi.”viii Questo scrivevi all’allora PDS nel 1994.
E cosa facciamo oggi, a 23 anni di distanza dalle tue parole? Coloro che vorrebbero rappresentare “il nuovo” (mettendo per un attimo da parte il M5S) insistono, in una coazione a ripetere senza fine, a costruire movimenti (si fa per dire) progressisti e di sinistra: Campo Progressista, Movimento dei progressisti, Sinistra e Libertà, Sinistra Italiana, appelli per riunire la sinistra ecc. ecc. Fino ad arrivare ad oggi quando, paradossalmente, assisteremo alle prossime elezioni dove nessun partito o lista ha nel proprio simbolo la parola “sinistra” (Partito Democratico, Liberi & Uguali, Potere al Popolo), ma senza aver compreso fino in fondo perché questa parola è usurata, non è più di richiamo.
Tu, già alla nascita del movimento verde avevi intuito il passaggio epocale a cui andavamo incontro e paragonavi il rapporto tra ecologia politica e sinistra a quello tra nuovo e antico testamento. Nel 1985 scrivevi: “Insomma, ci sono oggi più cose tra cielo e terra di quante non se ne riescono ad afferrare con categorie politiche che già in passato faticavano a rendere l'idea ed oggi sono manifestamente in crisi. (…) In particolare l'insistenza della sinistra sulla costituzione di uno schieramento per l'alternativa di governo come premessa di ogni processo di rinnovamento e di cambiamento sociale ha finito per premiare sostanzialmente lo schieramento avversario: la sinistra non è riuscita (…) a costituire intorno a sé un sistema di alleanze sociali capace di conquistare la maggioranza (sociale, non solo politica), e solo nel periodo dei grandi movimenti di massa sono maturate quelle aggressioni di consensi e di tessuti nuovi che hanno portato allo scossone elettorale del 1975-76, e che oggi non a caso si stanno sbriciolando.
Oggi la crisi, anzi la mancanza di ogni grande progetto a sinistra e la perdita pressoché completa di legittimazione dell'utopia socialista non favorisce certo la prospettiva di una nuova aggregazione imperniata sulla sinistra, anche se la decadenza e la corruzione del "capitalismo realizzato" può contribuire a determinare certi effimeri successi elettorali (...) In altra occasione mi è capitato di paragonare il rapporto tra il "verde" ed il "rosso" (termini semplificativi, ovviamente) al rapporto che i cristiani vedono tra il Nuovo e l'Antico testamento, tra cristianesimo ed ebraismo. Anche ai primi cristiani, consapevoli di essere portatori di una carica innovativa radicale, qualcuno dalle loro stesse file chiedeva di vestire i panni della legge d'Israele e di rispettare la tradizione dei suoi profeti, e di situare la nuova predicazione sostanzialmente all'interno del mondo ebraico, pretendendo dai nuovi adepti (pagani) del Vangelo anche la circoncisione e la frequentazione del codice israelitico. "Non si può essere cristiani senza essere ebrei", decretavano questi custodi della tradizione. Se il cristianesimo non avesse superato quell'angusta impostazione, si sarebbe ridotto a diventare uno dei filoni (forse una delle sette) della tradizione israelita e ne avrebbe probabilmente seguito le sorti, compresa la distruzione del tempio e la diaspora.
Accettando invece di operare in campo aperto, tra i gentili, senza pretenderne la conversione all'ebraismo, il cristianesimo - pur non buttando alle ortiche il Vecchio testamento ed i suoi insegnamenti - è diventato quel fermento (positivo o negativo che lo si giudichi) epocale che si sa.”ix
Se la conversione ecologica, la convivenza, i diritti civili ed i diritti umani rimarranno rinchiuse/i nel recinto della sinistra non si darà agibilità politica a quel fermento epocale già in atto in tutto il pianeta. Solo senza pretendere il passaggio obbligato a sinistra di tutto questo movimento –pur non buttando alle ortiche la storia della sinistra- potremo dare vita ad una nuova stagione politica.
Urgenza della Conversione Ecologica
Che c’è un’ emergenza è sotto gli occhi di tutti. Ai nostri tempi (sic, devo dire così) iniziavamo i nostri discorsi politici elencando le “catastrofi” ambientali di allora (alghe nell’Adriatico, disastro Farmoplant-Montedison, ecc.). Ma ben presto ci siamo accorti che non è con la paura che si mobilitano le forze migliori per una reazione (per questo, cara Annalisa Corrado, la campagna Primadeldiluviox, pur animata dalle migliori intenzioni, porta un nome sbagliato). Oggi potremmo farlo con una sequela infinita di catastrofi ambientali. Ma la conversione ecologica potrà affermarsi soltanto se riusciremo a presentarla in una forma socialmente desiderabilexi, non con le minacce e le paure. Occorre far vedere che funziona. Che facendo A invece di B, non solo si fa bene all’ambiente, ma si fa bene e si sta meglio noi, anche nell’immediato. Con la conversione ecologica, per esempio, si possono creare, e si stanno creando, milioni di posti di lavoro in grado di riassorbire gli espulsi dal ciclo economico in crisi, quanto i nuovi arrivati, espulsi dalle loro terre.xii
Eppure la situazione è davvero drammatica. Mi tornano a mente e ripeto sempre due esempi riportati da Laster R. Brown nel suo “Piano B.3.0” (libro tradotto da Dario Tamburrano, con prefazione di Beppe Grillo):
“Sei secoli fa gli islandesi realizzarono in tempo che l’eccessivo sfruttamento dei pascoli erbosi sugli altopiani stava causando una grave perdita di terreno. Gli allevatori si accordarono tra loro per calcolare quante pecore gli altopiani potessero sostenere e poi distribuirono le quote tra di loro così da preservare i loro pascoli. Esempio diametralmente opposto la civiltà sumera che nel IV millennio a.C. aveva sopravanzato ogni altra società precedente. Il suo ingegnoso sistema di irrigazione aveva permesso l’aumento della produzione agricola. Il controllo del sistema irriguo richiedeva una sofisticata organizzazione sociale. I Sumeri fondarono le prime città e la prima lingua scritta. Ma c’era un difetto di “sostenibilità ambientale” nel progetto del sistema irriguo. Con l’andare del tempo, l’accumulo di sali minerali sui terreni portò ad una diminuzione del rendimento agricolo. A quel punto i Sumeri passarono alla coltivazione dell’orzo, una cultura che tollerava meglio la salinità. Questa scelta posticipò il declino della civiltà sumera, che curò il sintomo e non la causa della riduzione dei raccolti. Come crollò l’approvvigionamento di cibo declinò la civiltà.”xiii
Gli islandesi dimostrarono una “capacità politica” in grado di individuare e gestire il problema, cosa che non furono in grado di fare i Sumeri.
La mia percezione è che si sia in una situazione molto più simile a quella dei Sumeri che a quella dei pastori islandesi. Le nostre soluzioni ai problemi complessi spesso, troppo spesso, sono semplici, per non dire stupide, come quella di seminare l’orzo invece del grano.
Occorre un cambiamento molto più profondo e radicale, basato su una visione d’insieme corretta. Gli strumenti ce li abbiamo, la tecnologia ci può essere di aiuto, la capacità potremmo avercela.
Convivenza
Il secondo scritto più articolato e quanto mai lungimirante che ci hai lasciato riguarda il fenomeno, scelto o subito, della convivenza tra diversi, con cui siamo e saremo sempre più costretti a fare i conti.
“La compresenza pluri-etnica sarà la norma più che l'eccezione; l'alternativa è tra esclusivismo etnico e convivenza”xiv, così dicevi nel 1994, elencando poi una serie di punti per provare ad imparare a convivere tra diversi.
Oggi questa diventa la vera linea di demarcazione tra visioni di un possibile futuro.
Con l'ecologia più o meno tutti si sciacquano la bocca, ma qui si entra in un terreno minato. Cavalcare la comprensibile e a volte legittima paura del “diverso” è ormai lo sport preferito di politici cinici e senza scrupoli. La Lega e il centrodestra vi costruiscono la loro fortuna elettorale. Il M5S non si esprime esplicitamente e quando lo fa insegue la Lega. La sinistra, o quel che ne resta, si divide tra chi accetta la sfida in modo generoso, adoperandosi a promuovere iniziative di accoglienza e convivenza, chi liquida il fenomeno migratorio come conseguenza funzionale al capitalismo per sfruttare mano d’opera a basso costo, rimandando la soluzione del problema alla sconfitta del capitalismo, e chi, in nome della sicurezza, promuove accordi con paesi limitrofi, disponibili, in cambio di denaro, a fare il lavoro sporco di “selezione” degli ingressi. Anche lo stesso movimento ecologista si divide su questo tema.
Eppure chi promette sicurezza costruendo muri, recinti, barriere militari, mente, a meno di non acconsentire -come sta avvenendo- a disastri umanitari che riempiranno - se ci saranno-le future pagine dei libri di Storia.
Il fenomeno è complesso e duraturo.
Anche qui non serve portare dati e numeri “rassicuranti” per tranquillizzare la paura dilagante del diverso. Davanti ad un sentimento di diffidenza naturale, che vive in ciascuno di noi a poco serve raffrontare le nostre percentuali di immigrati con quelle di Germania o Stati Uniti. Occorre un lavoro assai più paziente e profondo.
Scrivevi, sempre nel 1995: “(…) la tendenza alla xenofobia, all'ostilità verso gli estranei, al rifiuto del nuovo arrivato, del diverso, di colui che complica e magari disturba l'equilibrio relazionale e di potere esistente, è generalizzata. Non mi stupirei se avesse radici non solo culturali, ma anche biologiche. Basti pensare all'esperienza di ognuno di noi quando in uno scompartimento ferroviario o in un posticino di mare o di montagna dove ci siamo sistemati comodi, magari con i nostri cari, arriva qualcuno che vuole prendere posto, interloquire, accendere la sua radio o sigaretta, sistemarsi a suo modo e - orrore! - far arrivare anche i suoi cari, senz'altro più rumorosi, puzzolenti ed indigesti dei nostri. E più affollato sarà il mondo, più mobili i suoi abitanti e più forti le ragioni che spingono alla migrazione, più frequentemente lo xenos ci apparirà non come ospite, ma proprio come straniero indesiderato. Epperò - tutta la storia culturale dell'uomo non è forse una storia di raffinamento e dominazione di istinti primordiali? Di faticoso superamento dell'omicidio, dello stupro, della predazione, della supremazia armata del più forte, della violenza in tutte le sue forme - insomma, un tentativo di far vincere la ragione sulla forza? Una storia di ricerca e costruzione di senso nella vita dei singoli e delle collettività, che per l'appunto non si esaurisca nel darwinismo biologico?xv
Riusciremo a fare un passo avanti solo costruendo esperienze di convivenza che “funzionano”, che plachino la nostra diffidenza, che facciano scoprire le potenzialità reciproche che possono nascere nell’incontro. Un lavoro che va progettato con cura. Ogni improvvisazione rischia di generare ulteriori danni.
Un conto è accogliere, valorizzando l’ospite che arriva con progetti specifici, formativi e lavorativi (come accade a Riace o a Sant'Alessio in Aspromonte), altro conto costruire “parcheggi umani” magari accanto a scuole, o in zone che già subiscono la crisi economica, alimentando il clima di xenofobia per una ipotetica guerra tra gli ultimi per i sussidi.
Ma ancora una volta, su un piano teorico più generale, è Guido Viale che coglie l’enorme opportunità, “l’enorme dono”, che i flussi migratori potrebbero portarci proprio per una conversione ecologica complessiva del nostro modello di sviluppo: “L’ospite deve essere messo in grado di valorizzare, e di fare in modo che vengano apprezzate, la cultura, l’energia, l’esperienza, ma anche il dolore di cui è portatore: perché la comprensione del dolore, sia nostro che altrui, aiuta tutti ad affrontare meglio le circostanze della vita.
Ma deve anche portare con sé lavoro, reddito, diritti, salute. E non certo perché crea un po’ di lavoro per quei pochi che oggi vengono impiegati nella gestione dell’”accoglienza”; questo è un falso “beneficio” che costringe all’inattività e confina nell’inutilità l’ospite e che spesso induce nell’ospitante speculazione e sfruttamento delle altrui disgrazie. La dote che l’ospite, lo straniero, il profugo, deve essere messo in grado di portare con sé è un grande piano europeo di conversione ecologica, di lavori pubblici, di potenziamento dei servizi, di promozione dell’agricoltura biologica: un piano capace di garantire lavoro e sicurezza sia a lui che a tutti i cittadini dei paesi dell’Unione che sono disoccupati, o in povertà, o costretti a lavori precari e umilianti, o senza casa.”xvi
L’avvio di un processo virtuoso porterà e già porta, con le rimesse dei migranti stessi, all’invio di risorse economiche ed uno scambio culturale con i paesi di origine. Insomma permetterà di aiutarli davvero a casa loro e diminuire in prospettiva drasticamente i flussi migratori.
Già, “aiutarli a casa loro”, queste parole ipocrite oggi blaterate da tutti per non assumersi la responsabilità dell’accoglienza, quando tu nel 1988 mettevi in piedi la campagna “Nord-Sud . Debito, biosfera e sopravvivenza dei popoli”. Una campagna nata “da un fruttuoso intreccio tra ambientalisti, volontariato delle ONG, sindacalisti e movimenti di solidarietà ai popoli indigeni o con il Sud, che era partita dalla considerazione che il pagamento del debito del Sud poteva avvenire solo a spese della natura, e che ciò sarebbe stato assai dannoso anche per il Nord (…)” che ha contribuito a cambiare radicalmente l’idea stessa di cooperazione “allo sviluppo” e che stava giungendo ad“un approccio più generale, dove le "economie di vita" - le numerose incarnazioni dell'arte di arrangiarsi, della semplicità, della convivialità - apparivano una possibile alternativa all'inseguimento spasmodico di false ricchezze per sfuggire a false povertà. E sempre più ci si convinceva che l'aiuto essenziale che si può dare al giusto sviluppo del Sud sia una drastica museruola che dovremo imporre al nostro super-sviluppo del Nord. Che cioè l'aiuto ad un giusto e sostenibile sviluppo oggi sia, per certi versi, più necessario al nord, dove consumatori e produttori, risparmiatori e utenti hanno nelle loro mani le chiavi della giustizia e della sostenibilità ecologica delle condizioni di vita sul pianeta”xvii
Una campagna fatta morire, con la chiusura del misero rubinetto finanziario, dalla stupidità politica della Federazione delle liste verdi di allora .
Come?
Caro Alex, tu dicevi che occorre fermare questa “corsa autodistruttiva” e che non sapevi se fosse stato meglio impegnarsi per moderarla, bloccarla, o sganciarsi quanto più possibile da certe dinamiche cercando di costruire nella pratica alternative funzionanti parallele (propendevi per questa terza ipotesi sapendo che tutte e tre per un certo periodo si sarebbero sovrapposte). Questa terza oggi è ben rappresentata dal movimento Transition town : “La Transizione è un movimento culturale impegnato nel traghettare la nostra società industrializzata dall’attuale modello economico profondamente basato su una vasta disponibilità di petrolio a basso costo e sulla logica di consumo delle risorse a un nuovo modello sostenibile non dipendente dal petrolio e caratterizzato da un alto livello di resilienza. Analizzando più a fondo i metodi e i percorsi che la Transizione propone, si apre un universo che va ben oltre questa prima definizione e fa della Transizione una meravigliosa e articolatissima macchina di ricostruzione del sistema di rapporti tra gli uomini e gli uomini e tra gli uomini e il pianeta che abitano”xviii .
Ma è indubbio che occorra un lavoro sinergico tra tutti i piani. E’ importante battersi per fermare le trivelle in Adriatico (bloccare), com’è indubbia l’importanza di una politica che favorisca la creazione, e non metta infiniti bastoni tra le ruote di ordine amministrativo e burocratico, a chi prova a costruire realtà sociali ed economiche sganciate dalla “corsa all