17 giugno 1990
Alto Adige Südtirol
Dal Sud Tirolo all'Europa
Nel trovarmi a Bergamo in quest'occasione, vorrei ricordare una cosa molto curiosa: io venni a Bergamo tantissimi anni fa, credo nel 1965. Fu una delle mie prime uscite fuori casa sulla questione sud-tirolese. A quel tempo esisteva in città un piccolo giornale - Sele-Bergamo - diretto da Sandro Zambetti.
Oltre ad occuparsi di critica cinematografica, il giornale si occupava con molta attenzione anche di problemi sociali e politici, ed aveva dedicato la sua attenzione anche alla questione sud-tirolese, in un periodo in cui ciò non era così facile né era di moda.
Era l'epoca in cui da noi in Sud-Tirolo c'erano ancora attentati. Era insomma una situazione abbastanza diversa da come si presenta oggi. Ed è perciò che mi fa un certo effetto tornare a Bergamo per parlare ancora della stessa questione.
Visto che si parte dal Sud-Tirolo per esplorare il mondo, e dato il carattere credo abbastanza informale della serata, vorrei prima tentare di raccontare un po' come a me e ad altri della mia generazione la questione sud-tirolese si è presentata vivendoci dentro e come questa si è poi rivelata un osservatorio dal quale io continuo - non so se per quella presunzione in base alla quale ognuno ritiene la propria realtà l'ombelico del mondo - a riuscire a capire ancora utilmente molte cose compreso, ad esempio, il Sudafrica.
La scorsa settimana ho avuto la grande emozione di passare diverso tempo con Nelson Mandela, durante la sua visita al Parlamento Europeo, accolto dai gruppi politici solidali con la lotta anti-apartheid. Abbiamo cenato insieme e poi, il giorno dopo, abbiamo avuto un incontro. Insomma, ho avuto modo di vederlo da vicino e di parlargli a lungo. Curiosamente mi ha fatto tornare in mente molte delle cose che ho imparato dall'esperienza sud-tirolese, ad esempio sulle questioni relative ai diritti dei singoli, sui diritti dei gruppi, su cosa succede quando una minoranza, fino a quel momento dominante, capisce che non lo sarà più e dovrà in qualche modo cedere il potere, e come reagisce. Ho capito tra l'altro che quello che da noi in Sud-Tirolo è stato rappresentato dal MSI, in Sudafrica ce l'avranno in forma più violenta.
A scuola di identità
Tento allora di raccontare la mia storia per aiutarvi a comprendere in forma più immediata la questione di cui stiamo parlando. Io vengo da una famiglia di madrelingua tedesca, sono cresciuto in un paese a stragrande maggioranza tedesco che si chiama Sterzing, in italiano Vipiteno, che qualcuno di voi forse conosce per ragioni turistiche. Negli anni della mia infanzia, per me era scontato che in paese non esistesse la scuola media in lingua tedesca. Ne esisteva una in lingua italiana, il che significava che chi come me voleva poi frequentare anche la scuola superiore in lingua tedesca doveva per forza andare a scuola in città. Ciò, pur essendo il nostro paese per circa tre quarti popolato da persone di lingua tedesca. Sterzing aveva il liceo italiano per i figli degli ufficiali, ma, dopo le elementari, non c'era nessun'altra scuola in lingua tedesca.
Per andare a scuola a Bolzano, in ogni caso, era altrettanto ovvio allora che io ed i miei coetanei, ragazzi di 10-11 anni, dovessimo assolutamente conoscere l'italiano. Per poter chiedere, ad esempio, il biglietto oppure per affrontare il viaggio in treno, perché anche se sulla carta già allora era garantito il diritto al bilinguismo, questo non era assolutamente praticato.
In quegli anni io, che ero cresciuto in una famiglia molto tollerante e assolutamente non impegnata nell'odio etnico, in un paese dove non c'erano grandi tensioni etniche, arrivando alla scuola media di Bolzano - eravamo nel '56-'57, gli anni in cui nel mondo succedevano i fatti dell'Ungheria e la crisi di Suez - vidi ad esempio per la prima volta cortei di scalmanati che agitavano bandiere tricolori... Erano i fascisti del tempo che sostenevano l'Ungheria. Io non capivo perché i fascisti sostenessero l'Ungheria, però mi accorgevo che questi, per sostenere l'Ungheria, passando davanti alla sede del giornale Dolomiten non perdevano comunque l'occasione per dire anche, "sud-tirolesi a morte", o cose del genere.
Ero sconcertato dal constatare che, se questi erano amici dell'Ungheria, certo nostri amici non erano. Eppure io mi sentivo, al contrario, molto simpatizzante dell'Ungheria e non capivo come anche loro potessero sostenerla. Un altro esempio. I primi scioperi scolastici - una cosa allora del tutto impensabile - erano indetti dai fascisti per l'Ungheria e credo anche per Trieste (almeno ho un vago ricordo di Trieste).
Ovviamente le scuole italiane non erano le nostre scuole. Gli istituti erano anche fisicamente distanti, per cui non c'erano scontri, non conoscevamo la paura. A Bolzano però conobbi la realtà di una città etnicamente divisa, dove il senso dell'appartenenza mi si faceva molto più nitido di quanto non lo fosse stato al mio paese, che pure era un piccolo paese di quattromila abitanti con una popolazione per tre quarti di lingua tedesca. Il contrario di quanto succedeva a Bolzano, dove circa tre quarti della popolazione era italiana e solo un quarto tedesca.
Io abitavo in un quartiere tutto italiano presso una famiglia di parenti, in una situazione curiosa perché il mio parente lavorava alla Montecatini ed era praticamente l'unico dipendente di lingua tedesca. Mi venni a trovare quindi in un mare di italiani. Ad esempio, la mattina sull'autobus per andare a scuola, oltre a me, c'era un solo bambino di lingua tedesca. Lì ho capito cosa voleva dire essere minoranza. Per di più erano gli anni in cui cominciava il terrorismo, intendendo per terrorismo gli attentati allora compiuti dagli irredentisti, autonomisti, secessionisti, comunque li si voglia battezzare. Poco dopo ci sarebbe stata la manifestazione del '57 che ebbe come slogan, "Loss von Trent", "Via da Trento" cioè, slogan che indicava il riferimento dal quale ci si voleva staccare, mentre non era chiaro invece a che cosa si poteva approdare.
Nel frattempo, il conflitto etnico, anche a causa dell'incomprensione e del guardarsi in cagnesco tra le comunità, era molto cresciuto, tanto che io stesso vivevo un forte conflitto di lealtà, appartenendo appunto ad una famiglia che non odiava gli italiani. Più tardi ho anche capito meglio il perché. I miei genitori sono sempre stati antinazisti, anzi furono perseguitati dal nazismo, per cui erano stati aiutati a volte anche da italiani, ovviamente da italiani non fascisti o anti-fascisti. Perciò l'equazione in base alla quale tutti i tedeschi dovevano essere nazisti e tutti gli italiani dovevano essere fascisti, in casa nostra già non funzionava più.
Avevo, quindi, il privilegio di una situazione un po' atipica, eppure il conflitto di lealtà lo vivevo tanto fortemente da rendermi conto che a scuola tutti gli altri odiavano gli italiani e che a quel punto non sapevo se dovessi odiarli anch'io, pur non comprendendo esattamente il perché. Come minimo, comunque - mi dicevo - perché avevano occupato la nostra terra.
Ero talmente sconcertato che a un certo momento chiesi ai miei genitori un aiuto per uscire da questo conflitto di lealtà verso la famiglia. Una famiglia che riceveva ospiti italiani in casa, con genitori che ad esempio ci tenevano che noi imparassimo l'italiano, mentre l'ambiente circostante era ostile agli italiani.
Il gioco del "noi e loro"
È stato così che ho capito molto presto alcune cose che ho poi ritrovato tantissime volte nella vita. Di queste, voglio rimarcarne alcune. Scelgo quelle che hanno un senso, un'utilità ai fini del nostro discorso. E prima di tutto una: di sicuro ho imparato immediatamente, senza che nessuno me lo dovesse insegnare cosa volesse dire l'identità etnica, linguistica, nazionale. Non mi voglio adesso impegnare sul termine: la definirò poi etno-linguistica, anche se possiamo accomunarla ad uno spettro di altre definizioni di identità: quella etnica, quella nazionale, quella che qualcuno vuol chiamare anche razziale, o chissà cosa. A queste, per definire un arco di identità molto forti, aggiungerei anche quella religiosa. Un senso del "noi", dell'appartenenza comunitaria, e quindi anche della delimitazione verso gli altri molto forte, che nel nostro caso, come praticamente in tutti gli altri casi quando si è di fronte ad una comunità in qualche modo rivale, contemplava anche un certo senso di conflitto con l'altro.
Da noi, allora, il senso della distinzione era facile da verificarsi, perché a quel tempo, grosso modo, la comunità tirolese di lingua tedesca era svantaggiata mentre quella italiana era avvantaggiata. Ciò non voleva dire che tutti i poveri fossero di lingua tedesca e tutti i ricchi di lingua italiana. Non era assolutamente vero. Però, si poteva dire che la modernizzazione passava attraverso il gruppo italiano e la parte chiamiamola arretrata (però con radici più profonde), era quella tirolese.
Tra noi bambini ogni tanto si faceva un gioco: cercavamo di distinguere ad occhio chi era di lingua tedesca e chi di lingua italiana. Era un gioco che poi si verificava andando a salutare il tipo e così si aveva la conferma: non sbagliavamo praticamente mai. Allora era facile distinguere. Oggi, ad esempio, un simile gioco non sarebbe più pensabile perché gli individui si assomigliano molto di più: nel vestiario, nel modo di camminare, nel modo di presentarsi, per quello che uno può notare insomma camminando per strada.
Oggi è tutto molto cambiato, persino il colore dei capelli non è per niente indicativo. Quel gioco che per noi allora era una tranquilla riconferma delle nostre ovvietà, e se si vuole dei nostri pregiudizi etnici, oggi non funzionerebbe più. Le comunità si sono sociologicamente, economicamente e persino nel costume talmente avvicinate che, salvo casi estremi - non dico proprio il cappello da schutzen o viceversa da bersaglieri come a volte si caratterizzano figurativamente le due comunità - situazioni comunque relativamente marginali dall'una e dall'altra parte, gli altri si assomigliano almeno a prima vista, anche se poi ciò non significa che siano diventati uguali.
Un'altra cosa che abbiamo imparato molto presto oltre al senso del "noi" e quindi ad una solidarietà del "noi" molto distinta dagli altri, è stata la positività della propria diversità, cioè la volontà di mantenere la propria identità, la propria differenza. A quel tempo, ad esempio, tra noi (parlo di ragazzi di 13-14 anni) la parola "assimilazione" aveva un senso e una connotazione assolutamente precisa e negativa: l'assimilazione non era desiderata.
Vi porterò l'esempio della mia famiglia. I miei genitori, entrambi nati e cresciuti sotto l'Austria, avevano fatto fatica ad imparare l'italiano. Mia madre fu italianizzata presto, nel senso che, quando si ritrovò da questa parte del confine, aveva 14 anni ed andava ancora a scuola. Il fascismo italianizzò le scuole, quindi lei da un anno all'altro si ritrovò improvvisamente in una scuola italiana nella quale dovette imparare l'italiano in qualche modo.
Mio padre, invece, aveva già finito le scuole ed ha quindi dovuto imparare l'italiano da adulto, facendo una maggior fatica. Entrambi i genitori, però, di tanto in tanto usavano (abitudine forse presa al tempo del fascismo o della guerra) un qualche intercalare italiano, ad esempio "pazienza" oppure "che ci vuoi fare". In quei casi io, davanti ai miei amici che magari venivano a trovarmi in casa, ero in grande imbarazzo perché sentivo questi motti italiani come indizio di cedimento e di assimilazione. Ricordo addirittura quel che dissi una volta ad un amico prima che venisse a trovarmi, per spiegargli tali stranezze della mia famiglia: "NON MERAVIGLIATEVI, NON DEVI PENSARE MALE, DA NOI CI SI SALUTA CON CIAO". Lo sentivo davvero come un elemento di cedimento del fronte etnico.
Se voi pensate che questo sentimento era vivo in un ragazzino di 12-13 anni che a casa non era stato educato alla contrapposizione etnica, credo che possiate facilmente immaginare di che cosa doveva essere intrisa la società in cui vivevamo, quello che assorbivamo senza che nessuno ci aizzasse, ci istigasse, ci predicasse delle cose particolari.
Non transfughi, ma disertori del fronte etnico
In quell'epoca aveva un grande significato il fatto che Dolomiten, il quotidiano di lingua tedesca ancor oggi esistente, pubblicasse ogni sabato dei contributi sulla storia delle nostre "disgrazie": in particolare la prima guerra mondiale, l'annessione all'Italia, il tradimento italiano, le violenze perpetrate dal fascismo, l'espansionismo fascista, le brutalità fasciste, le persone mandate al confino. Del nazismo si parlava poco o mai, ma del fascismo si parlava molto, del fascismo inteso come fascismo italiano.
Anche questo contribuiva molto alla formazione della nostra identità collettiva. In particolare si coltivava il senso della memoria e quindi la capacità di distinguere la ragione e il torto; i torti subiti naturalmente, mentre ovviamente l'occhio non veniva particolarmente allenato a distinguere quelli che magari si erano inflitti. Tutto ciò però dava una forte impronta alla nostra formazione.
Ho perciò imparato - ritrovandolo poi spesso nella vita - cosa vuol dire avere una forte identità etnica o etno-linguistica, o nazionale, o in qualsiasi altro modo la si voglia definire, in particolare nel contesto di una situazione di attrito o comunque di conflitto.
Essendo molto disturbato da tale conflitto, per alcuni anni ho cercato individualmente e nel gruppo dei miei amici una via d'uscita. E quella che cercammo e trovammo allora, noi diciottenni a fine liceo o a fine istituto tecnico, continuo a ritenerla (suonerà magari immodesto) la migliore che si possa trovare.
In che consisteva la nostra via di uscita?
In quel periodo gli attentati si erano andati intensificando, erano gli anni tra il '61 e il '64, gli anni cioè nei quali ci furono anche morti. Il conflitto e anche l'odio erano perciò andati crescendo, con sud-tirolesi che venivano arrestati, torturati e uccisi dalla polizia. Una situazione non nella stessa dimensione quantitativa dell'Irlanda del Nord, ma certo con una forte intensità. C'era ad esempio il coprifuoco: dalle 10 di sera alle 6 del mattino non ci si poteva avvicinare più di 200 metri a centrali elettriche, impianti ferroviari, edifici pubblici, ecc. e spesso succedeva che, se qualcuno si avvicinava, i soldati sparavano (spesso tra l'altro anche fra di loro oppure su gente ignara).
Insomma fu un periodo nel quale vi furono svariate decine di morti, molti dei quali accidentali. E quindi il risentimento, l'odio, l'incomprensione tra le comunità erano diventati molto forti. Inoltre, il principale torto rinfacciato agli italiani era la continua immigrazione. Lo Stato, infatti, costruiva ancora case popolari e quindi arrivavano nuovi italiani. Noi seguivamo praticamente come su una tabellina quella che veniva allora chiamata "la marcia della morte", cioè la sommersione etnica, per cui verificavamo giorno dopo giorno se eravamo ancora maggioranza in casa nostra o se lo erano già diventati gli altri.
Bolzano era il simbolo di come nel giro di 30 anni ci si era ridotti da padroni a minoranza. In poche parole, il conflitto politico, la lotta per l'autonomia e viceversa, sull'altro versante, la repressione e la risposta dello Stato erano molto presenti.
La soluzione che così decidemmo di sperimentare tra alcuni amici (che, tra l'altro, sono rim
sti ancora quasi tutti amici tra di loro, e lavorano ancora insieme perché quell'esperienza fu molto forte), fu tentare di dire: se noi, come noi crediamo, vogliamo che la gente riesca a vivere insieme, allora dobbiamo sperimentare sostanzialmente cosa vuol dire la convivenza interetnica.
E l'abbiamo sperimentata costituendo un piccolo gruppo che non aveva nessun nome, non aveva nessuna particolare tendenza, non era un gruppo politico (poi a quel tempo in fatto di politica riuscivamo a distinguere solo italiani e tedeschi, non ne sapevamo molto di più).
Tra le prime cose che per esempio capimmo da questa esperienza, fu che non serviva a nessuno se all'interno di questo gruppo qualcuno fosse diventato un transfuga, se cioè qualcuno da tirolese si fosse fatto in qualche modo italiano per venir maggiormente incontro agli altri, o viceversa da italiano (cosa allora più improbabile, oggi è un po' diverso) si fosse fatto tirolese. Era molto importante non essere transfughi, ma piuttosto essere disertori del fronte etnico. Questo sì. Chiamarsi cioè fuori dalla compattezza del fronte conflittuale, non partecipare alle iniziative, alle mobilitazioni, alle emozioni del fronte etnico, dell'uno e dell'altro.
Arrivammo allora alla conclusione che questo ci sarebbe stato più facile se intanto avessimo cominciato con il capire ciascuno la lingua dell'altro. Motivo per il quale abbiamo fatto grandi sforzi di bilinguismo, almeno passivo: cioè che ognuno potesse parlare nella propria lingua ed essere comunque capito dagli altri. Poi abbiamo fatto un grande sforzo, persino un po' patetico per la nostra età, di studiare la storia, perché ci rendevamo conto che ognuno di noi aveva uno stereotipo in forte misura unilaterale, se non totalmente falsato, dell'altro.
Ognuno di noi, cioè, conosceva solo gli orrori subiti dalla sua parte e non quelli inflitti, ognuno sapeva i torti ricevuti e non quelli che aveva imposto agli altri. Perciò ci mettemmo proprio a studiare. Ognuno si studiava qualcosa, poi ce lo raccontavamo, ci facevamo le domande, capivamo quali cose gli uni sapevano e non venivano dette, e così via.
Chi ha saltato il muro dell'inimicizia
C'è poi un'altra cosa importante che ho imparato da questa esperienza e che ho visto riconfermata in tutte le situazioni analoghe che ho poi conosciuto: oggi, quando mi trovo di fronte ad un conflitto interetnico, la prima cosa di cui vado in cerca è vedere se esiste un qualche gruppo che riesce a riunire al proprio interno persone dell'uno e dell'altro schieramento. Questa per me resta tuttora una cartina di tornasole.
Che poi questo gruppo sia religioso, politico, artistico, culturale, importa relativamente poco. Dall'Irlanda al Sudafrica, dalla Transil-vania alla Lituania, la prima cosa che mi chiedo se trovo a confrontarmi con una situazione conflittuale, è: "c'è qualcuno che è riuscito a saltare il muro dell'inimicizia? Esiste qualcuno che anche in piccolo gruppo riesce a sperimentare, quindi anche a dirsi le cose?"
Pensate al conflitto greco-turco: un conflitto atavico, in cui vengono mobilitate l'intera minaccia dell'Oriente e l'intera difesa dell' Occidente. Pensate al conflitto con gli slavi: in città come Klagenfurt o Trieste, è del tutto irragionevole ritenere oggi che in quelle città si sentano minacciati dalla componente slava rispettivamente l'elemento tedesco o italiano. Gli sloveni, infatti, in entrambe le città sono una piccola minoranza, praticamente emarginata senza alcun peso e potere. Eppure, in entrambe si vive ancora come se ci si dovesse difendere dagli Unni, come se si avessero di fronte i Mongoli, un'invasione insomma dell'Oriente, dell'Asia, della barbarie o non so che altro.
Oppure, ancora, pensiamo ad altri conflitti altrettanto atavici, con alle spalle più o meno secoli di storia e più o meno grandi cumuli di morti da una parte e dall'altra della barricata. L'Irlanda del Nord, ad esempio.
Ebbene, l'esperienza del gruppo interetnico - o se volete del gruppo-pilota che accetta di sperimentare su di sé le possibilità ed i limiti, i problemi della convivenza interetnica - per me rimane una cosa assolutamente determinante.
Un altro aspetto tra i tanti di quell'esperienza giovanile l'ho compreso molti anni dopo, ed è più complesso. Io - come altri della mia generazione - per un lungo tempo, dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta, ho in qualche modo pensato che davvero il conflitto etnico - qualunque conflitto etnico, ma il nostro sud-tirolese in particolare - fosse fondamentalmente una maschera per nascondere, mistificare qualcos'altro, e cioè quello che per noi doveva essere il conflitto di classe, il conflitto sociale.
Ci siamo quindi sforzati a lungo di costruire un'ipotesi di convivenza, non dico basandoci sulla negazione del conflitto etnico (a questo noi proprio grazie alla nostra esperienza non siamo mai arrivati, a differenza di gruppi ideologici), ma sforzandoci di scoprire in qualche modo interessi comuni: interessi sociali comuni, interessi ecologici comuni, interessi culturali comuni... Insomma, sforzandoci comunque di scoprire le cose comuni e di muoverci di conseguenza secondo una linea basata sul seguente ragionamento: "il popolo sarebbe unito, ma i potenti lo vogliono dividere".
Il nostro schema interpretativo, in poche parole, si poteva riassumere così: " quando avremo finalmente rimosso il problema politico, legato all'alternativa autonomia sì-autonomia no, quando avremo la riforma dell'autonomia e il conflitto etnico sarà stato così rimosso, finalmente ci si potrà occupare dei veri problemi, intendendo per veri problemi la casa, il lavoro, la salute, l'educazione, l'agricoltura, e via dicendo...". In altre parole il conflitto etnico veniva un po' ideologicamente interpretato da noi - eravamo, ovviamente, anche noi figli di quegli anni - come una forma di falsa coscienza generalizzata.
Il richiamo dell'identità etnica
Adesso dopo molti anni ed ormai diversi decenni di esperienza nel campo, mi sono sempre più convinto che l'identità etnica, etnolinguistica, nazionale e religiosa fa parte degli elementi più forti, più determinanti ed insopprimibili, almeno nella nostra cultura, nelle nostre culture. Non so se questo sia così anche in Africa o in Asia (non oserei assolutamente pronunciarmi in proposito), ma nelle nostre culture lo è di certo. E mi sembra di vederne una riprova, guardando all'attuale evidente crisi del sistema comunista dell'Est Europa.
In questo momento, le uniche opzioni forti che almeno nell'immediato emergono e che si sono mantenute vive, dopo 40 anni di loro negazione teorica e pratica e di oppressione, sono quelle religiose e nazionali oppure etniche. Vale a dire, i valori forti, le identità forti, i richiami forti ora emergenti nell'Europa orientale e centrale si rifanno a quegli ambiti. C'è poco da dire. Persino la superfetazione partitica in corso fa appello ad esse. Fino ad esplosioni incontrollate: dall'odio dei bulgari contro i turchi, dei rumeni contro gli ungheresi, di entrambi contro i tedeschi e viceversa, degli slovacchi contro i cechi, dei lituani contro i russi (in realtà, anche contro i polacchi, ma intanto è meglio non manifestarlo in una situazione in cui entrambi comunque devono cercare di contrastare il "nemico" comune).
Mi sembra perciò di poter concludere a proposito della nostra esperienza, che tutti gli sforzi che davvero con pazienza, abnegazione ed applicazione, io ed altri amici abbiamo fatto per autoconvincerci e convincere altri che il conflitto etnico era manifestazione di falsa coscienza, oggi non ci convincono più. Alla prova e alla resa dei conti, non ci soddisfa insomma una spiegazione che legga il conflitto etnico e l'identità etnica (non è automatico che l'identità etnica debba portare al conflitto etnico, ma una forte identità - in particolare se a contatto ravvicinato con un'altra forte identità - è facile che porti al conflitto), semplicemente nei termini di una funzione, di un indotto del conflitto sociale o economico.
Non solo, ma con il senno di poi, cioè con quello di oggi, mi sembra di poter dire - non mi spingo fino ad una formulazione teorica - che i conflitti e le solidarietà etniche abbiano il più forte potere coinvolgente che sin qui io abbia conosciuto, almeno nelle nostre culture europee e del bacino del Mediterraneo. E quando dico "etniche" intendo mettere sempre tra parentesi linguistiche, nazionali e religiose.
Cosa voglio dire? Il padrone può maltrattare un operaio ma non avremo mai dagli altri operai una indignazione e solidarietà contro il padrone altrettanto forti di quelle che si registrano quando un turco maltratta un greco, o viceversa. Il richiamo di solidarietà, l'appello e la capacità di mobilitazione, il potere esplosivo insito in un conflitto etnico per la forte carica emotiva, per la facile ed immediata comunicazione che genera, per la evocazione simbolica che contiene - dobbiamo ammetterlo realisticamente - fanno dei conflitti etnici, per dirla senza fronzoli, una enorme polveriera.
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Le due soluzioni radicali
Fin qui il primo flash in qualche modo autobiografico. Ora vi propongo una seconda questione, questa più teorica, con una chiave di lettura che non vuole comunque erigersi a sistema e che poi, una volta usata, chi vuole può gettare anche via. Il conflitto etnico che mi pare pervada fortemente le nostre civiltà (tanto per usare un termine sufficientemente generico) e che mi pare che sia destinato ad aumentare ammette in linea teorica due vie d’uscita.
La prima. L’assimilazione, cioè l‘assorbimento del di- verso. Questa soluzione in genere la può proporre il più forte (che non vuole dire necessariamente il più numeroso, ma può voler dire il più forte economicamente, il più forte politicamente, a volte anche il più forte culturalmente).
E un possibile modello teorico, al quale anche gli stati si sono ispirati per un lungo tempo, e di fatto si ispirano ancor oggi largamente. L’assimilazione come riduzione della diversità, come riduzione della sua incidenza e por- tata, e quindi come tentativo di eliminare i conflitti derivanti da diversità, cercando di ridurla a conformità.
Non c’è dubbio che anche in Europa, dove pure si è ormai formalmente ripudiata l’assimilazione delle minoranze e dei diversi come strumento politico e culturale, in realtà questa pratica è ancor oggi largamente dominante. In particolare, nei confronti delle etnie e lingue minoritarie, soprattutto quelle senza stato. Penso ai baschi, ai gaelici, ai gallesi, ai curdi - la cui situazione è una delle più spaventose – agli armeni, in particolare quelli fuori dall’Unione Sovietica. Oppure penso a po- poli «piccoli», come le comunità eccitane, gli alsaziani, i lapponi. E l’elenco che si potrebbe fare sarebbe pur- troppo enorme.
L’assimilazione, dunque, è ancora uno degli schemi pre- dominanti per la soluzione del conflitto etnico. Essa si attua attraverso la scuola, con una politica migratoria (cioè di sommersione etnica), con una politica di disintegrazione della contiguità territoriale, cercando di ridurre a macchie sempre più isolate le comunità di lingua. E la stessa cosa si potrebbe dire nel caso delle religioni minoritarie o diverse.
Da parte mia non la ritengo una buona soluzione, ed in ogni caso non auspicabile. Non solo perché ho imparato quanto preziosa possa essere una propria identità, ma anche perché credo che effettivamente l’assimilazione sia una soluzione di assoluto impoverimento, da fin troppo tempo praticata e subita, e rappresenti comunque una non soluzione. Garantisce forse l’ordine pubblico nel breve periodo, ma mi pare non garantisca né ricchezza culturale né uno sviluppo equilibrato, nel senso che è un po’ come la monocoltura in economia: assicura un tipo di adatta- mento all’ambiente a discapito di tutti gli altri.
L’altra soluzione teoricamente pensabile è l’espulsione del diverso, cioè la garanzia dell’omogeneità ottenuta attraverso le più svariate forme di estromissione del diverso.
Noi abbiamo avuto alcune esperienze storiche molto pesanti. Per esempio molti di voi forse sanno che negli anni Venti è stato fatto un gigantesco scambio di popolazione traTurchia e Grecia.I greci dell’Asia minore vennero tra- sportati sulla penisola ellenica e i turchi delle isole sulla penisola dell’Asia minore. In questo modo, attraverso uno scambio di popolazioni, fu possibile tracciare delle frontiere nette.
La stessa popolazione sud-tirolese è stata oggetto di uno scambio (anche se poi solo parzialmente effettuato). Hitler e Mussolini ad un certo punto si misero d’accordo: a Mussolini sarebbe rimasto il territorio, ad Hitler sarebbe andata la gente, sempre utile per guerre e per essere mandata in terre di nuova conquista a fare «i tedeschi di frontiera».
Purtroppo uno degli esempi più eclatanti di espulsioni credo sia la politica adottata da Israele nei confronti dei palestinesi e nelle terre occupate. Ma di esempi ne abbiamo purtroppo tantissimi. In realtà le espulsioni ancor oggi sono molto più frequenti di quanto non si pensi. Nel conflitto in atto nelle regioni caucasiche e transcaucasiche - in particolare quello tra armeni e azeri - molte volte l’espulsione, il far piazza pulita, il delimitare netta- mente le rispettive aree, sembra essere l’unica politica per salvarsi la vita.
Politica che viene proposta e a volte praticata anche dal basso, nel senso che ad esempio la gente del Nagorno Karabakh, l’enclave armena in territorio azero, oggi afferma: «annetteteci ad una qualsiasi repubblica cristiana, non importa quale, ma almeno cristiana, perché con questi musulmani dell’Azerbaigian noi non possiamo stare».
La politica delle estromissioni ha poi avuto esempi clamorosi alla fine della seconda guerra mondiale, quando le popolazioni di stirpe tedesca che erano state prima in parte solidali con la politica di Hitler e in parte un suo strumento, furono estromesse in massa da paesi come la Cecoslovacchia, l’Ungheria, la stessa Unione Sovietica, la Romania e così via.
Questo tipo di azione comporta un tale carico di violenza e di ingiustizia che mi pare non possa costituire neppure essa una soluzione accettabile.
Le due soluzioni radicali di cui abbiamo sin qui parlato, con il corredo delle loro varianti intermedie, le definirei improntate all’esclusivismo etnico. E quando uso questa categoria, ho già detto, voglio usare una chiave, non un sistema. Per esclusivismo etnico intendo una linea di condotta (spesso anche teorizzata) che sostanzialmente si basa sulla convinzione che sullo stesso territorio non possano coesistere diversità perché ciò genera solo conflitti, e che sia quindi meglio che su ogni territorio ci sia una sola presenza etnica, magari ben delimitata, per di- fendere così la possibilità di viverci bene.
Politiche di integrazione e politiche di separazione
Le due soluzioni radicali dell’esclusivismo etnico - assimilazione o espulsione - possono arrivare fino all'annientamento fisico. Non voglio neppure spingermi a parlare di ciò, ma è un’ulteriore conseguenza se si segue fino in fondo questa linea. Esistono però due varianti più moderate delle due soluzioni estreme ricordate: sul versante dell’assimilazione sono le politiche dette «di integrazione», e sul versante dell’espulsione, quelle dette «di separazione».
Integrazione è una di qu