31 marzo 2001
anna bravo
Anna Bravo, intervista: Insegnare a scuola la storia del 900
"Una citta'": Partiamo dalla difficolta' a parlare dell'ultimo Novecento a
scuola. E' possibile senza rischiare di "fare politica" o di "essere
ideologici"?
- Eugenio Gruppi: Non c'e' dubbio che tra gli insegnanti questo ha provocato
varie perplessita' e resistenze, sia perche' - si dice - la storia antica e
medievale non viene piu' fatta bene, perche' in due anni devono far tutto,
sia perche' e' difficile fare storia su vicende cosi' vicine senza essere
troppo condizionati ideologicamente.
Quindi puo' essere interessante sapere se voi, facendo questo manuale, avete
avvertito difficolta' di questo tipo. Se, per esempio, avete avuto dei
problemi ad affrontare alcuni temi del '900, particolarmente controversi,
tipo il totalitarismo sovietico, oppure se, per quanto riguarda l'Italia, si
possa arrivare perfino agli ultimissimi anni, al travagliato passaggio dalla
prima alla seconda Repubblica. Ho notato che nell'ultimo capitolo voi,
secondo me molto giustamente, fate un tentativo di aprire degli scenari, di
indicare delle prospettive piu' che non, appunto, pronunciarvi direttamente
sull'attualita'.
- Anna Bravo: Intanto la questione degli ultimi anni: a me sembra insensato
che si pretenda di fare storia sui fatti dell'altro ieri, per di piu' in
poco spazio e con pochi libri seri da mettere a disposizione degli studenti;
i manuali dovrebbero finire agli anni '80, pero' li' non c'e' possibilita'
di trattativa, sono i programmi ufficiali e chi fa un manuale deve comunque
introdurre anche quei periodi.
Quello che abbiamo cercato di fare e' proprio quello che dice Eugenio: dare
piu' spazio sia agli scenari sia ai fenomeni che si presume abbiano piu'
respiro, che si riallacciano all'indietro e promettono di andare avanti,
tipo i movimenti nati con Seattle (senza idealizzarli, ma intanto
continuano), oppure l'immigrazione, i problemi demografici, le religiosita'
varie che si stanno espandendo, a cui abbiamo dedicato un capitolo intero.
Riguardo alla difficolta' che si crea per i secoli passati, sono d'accordo:
e' molto discutibile la scelta di restringere l'800 a dei nodi problematici
o di sacrificare tanto Medioevo e tanta Eta' Moderna, perche', per esempio,
alcuni grandi cambiamenti che riguardano le donne vengono da li', sono di
fine '700 - inizio '800, e allora si rischia di non capire piu' nulla.
Sullo spazio da dare al totalitarismo sovietico: noi abbiamo dedicato molte
pagine non solo alla teoria, ma alla costruzione dell'apparato repressivo,
allo sterminio dei kulaki, al Gulag, alla tragedia dell'industrializzazione
forzata; non so se siamo riuscite ad avere un approccio non ideologico, ci
abbiamo provato usando fonti garantite per la loro serieta'. Posso dire che
abbiamo rifiutato una valutazione dei crimini del comunismo "attraverso
l'intenzione", cioe', per dirla brutalmente: il nazismo aveva intenzioni
criminali fin dall'inizio, il comunismo aveva originariamente intenzioni
buone, poi e' degenerato. Ho paura di questo criterio di valutazione, non
perche' le intenzioni non fossero diverse, ma perche' questo non mi sembra
sufficiente per guardare con occhio diverso le due esperienze, con piu'
"comprensione" per il comunismo. So che possiamo essere accusate di mania
comparativistica, a me pero' sembra che sia mania quella opposta, che
scomunica la comparazione, una vera fobia. Se vuoi fare storia devi per
forza comparare, che vuol dire cercare sia le somiglianze sia le differenze,
devi cercare le connessioni; solo dopo si puo' dire se la comparazione e'
utile o fuorviante.
*
- "Una citta'": L'impressione che si ha sfogliando i manuali e' che prevalga
l'idea che non poteva andare diversamente, che la sequenza degli eventi e'
ineluttabile...
- Anna Bravo: Una delle nostre preoccupazioni principali e' stata far capire
che le cose non dovevano andare per forza come sono andate. C'e' ancora in
giro un senso comune determinista che produce effetti mortiferi. I manuali
fino ad alcuni anni fa titolavano: "Le cause della prima guerra mondiale",
non le origini, sempre le cause: in questo modo le responsabilita'
collettive, istituzionali, personali, scompaiono, tutto sarebbe parte di un
ingranaggio, l'individuo sarebbe agito dall'ambiente, dalla societa'; tutte
le azioni umane si spiegherebbero in termini di meccanismi sovrapersonali,
che tolgono completamente lo spazio per la liberta' e la responsabilita'
personale. Ecco, volevamo fare un manuale di storia, per quel poco che puo'
servire, che mostrasse in primo luogo come a situazioni analoghe le persone,
le istituzioni, i governi, reagiscono in modo diverso; in secondo luogo, che
il peso delle scelte personali e' importante, a volte decisivo. Se si
sostiene che in determinate condizioni oggettive non puo' che prodursi quel
certo evento, in un rapporto di causa-effetto, non si capisce perche' uno
dovrebbe muovere un solo dito. E' un modo di pensare e di raccontare
orribile: se non hai cura di far vedere, soprattutto alle persone giovani,
gli spazi per l'iniziativa personale che erano disponibili in una data fase,
poi oggi cosa gli chiedi di fare? Niente!
E invece persino durante il nazismo in Germania c'e' chi consente o tollera,
ma c'e' anche chi invece si oppone, "sventa", salva.
- Eugenio Gruppi: Si', si tratta di far cogliere la complessita' dei fatti.
Non e' mai possibile una spiegazione monocausale, sulla base di un unico
fattore. Questa prevalenza della causalita' e' particolarmente rischiosa con
gli studenti per due motivi: perche' hanno bisogno di certezze e quindi si
attaccano volentieri alla causa, perdendo cosi' di vista la complessita' dei
fattori e la possibile varieta' delle reazioni, delle scelte in quelle
situazioni o in situazioni analoghe; dall'altro lato, il rischio e' di
ridurre lo studio della storia al ricordo ossificato di una serie di fatti
piu' importanti, il che li portera' a una difficolta' grave quando questi
fatti dovranno in qualche modo interpretarli, capirli.
Questo poi si lega a un discorso piu' generale di approccio critico, anche,
almeno per i fatti piu' importanti: far vedere come lo stesso fatto puo'
essere spiegato con ottiche molto diverse, a seconda del tipo di analisi che
lo storico propone, il che non significa che allora una vale l'altra, ma
appunto che ci sono una serie di criteri in base ai quali possiamo
orientarci. C'e' il rischio che quello che leggono sul manuale lo prendano
per la storia, cioe' l'unica storia possibile. Che su queste cose si
litighi, si continui a litigare, si continuino a proporre interpretazioni
diverse e' una cosa comprensibile anche a ragazzi di sedici, diciassette
anni.
- Anna Bravo: Sono d'accordo, occorrono degli assi tematici e cronologici
che diano la percezione di come le cose cambino o non cambino, vadano avanti
oppure indietro, senno' si rischia di ridurre la storia a tante
individualita' che fluttuano nel vago. Credo che nel manuale abbiamo messo
in luce questi assi, almeno lo spero, perche' io a volte tendo ad esagerare
nel sottolineare l'aspetto della soggettivita', ma lo faccio anche perche' i
discorsi deterministici finiscono per cancellare quelli che hanno perso, per
far sembrare che non abbiano fatto storia...
*
- Eugenio Gruppi: Sempre legato a questo problema, di far capire che si
parla di vicende successe a persone reali e non a personaggi storici, il
fatto che voi abbiate scelto un taglio che si puo' definire narrativo credo
sia stata una scelta giusta, perche' ci sono manuali che per la
preoccupazione, anche condivisibile, del rigore scientifico, propongono
appunto, un'analisi talmente specialistica che, secondo me, da' proprio
l'impressione che la storia non parli di persone reali, di esseri viventi
seppure nel passato.
- Anna Bravo: Io spero sempre che se tu descrivi narrativamente la vita di
persone vissute nel passato, ci sia un processo di avvicinamento, di
immedesimazione, che puo' scattare anche verso esperienze sentite come molto
diverse, e allora prende la forma della curiosita'; ho grande rispetto del
ragionamento e del sentimento analogico, che sono una componente primaria
della comparazione. Poi si deve arrivare anche a distanziarsi, e' ovvio, e
il docente ha tutti gli strumenti per indirizzare la comprensione, e anche
cosi' si arriva a una solidita' culturale. Ma se non c'e' il momento
dell'immedesimazione, i giovani, e non solo loro, si stufano subito.
*
- Eugenio Gruppi: Voi sottolineate in un modo diverso rispetto a tutti gli
altri manuali il ruolo delle donne nella storia. Questo e' anche un modo per
spingere gli studenti a interrogarsi sul rapporto tra la conoscenza storica
e la loro capacita' di giudicare la vita quotidiana, a partire proprio dalla
situazione in cui si trovano loro. Come ben sappiamo, il problema del
rapporto fra i sessi, in una classe mista poi, viene fuori tutti i momenti.
Quindi avere un'idea della dimensione storica del problema diventa
importante, anche appassionante. Per esempio, facendo la rivoluzione
francese io sottolineo il fatto che quando la' si parla di suffragio
universale si parla sempre e solo di maschi, perche' i giacobini non si
sognano nemmeno di pensare alle donne e la povera de Gouges viene subito
fatta fuori. Questo per dire che ci sono, appunto, alcune tematiche di fondo
su cui il manuale puo' aiutare ad attualizzare una questione, un fatto o un
fenomeno storico.
Bisogna anche guardarsi dalla tentazione di stabilire delle relazioni
improprie, molto raffazzonate, tra il passato e il presente: tu devi
riuscire a sfruttare tutte le relazioni possibili cercando di dare, nello
stesso tempo, un minimo di dignita' storiografica. Bisogna rendere i ragazzi
consapevoli che c'e' un nesso anche fra avvenimenti lontani e problematiche
attuali e che, pero', questo nesso non e' cosi' immediato, bisogna saper
contestualizzare le situazioni differenti.
- Anna Bravo: Riguardo all'osservazione di Eugenio sull'utilita' di dare
spazio alle diverse interpretazioni storiografiche, credo che sia importante
spiegare "chi dice cosa", chi c'e' dietro le interpretazioni, quale e' la
soggettivita' di chi scrive. Faccio un esempio che riguarda proprio le
donne: le interpretazione opposte sul rapporto fra rivoluzione industriale e
comportamenti sessuali.
Ci sono dei dati che dicono che tra fine '700 e fine '800 i tassi di
illegittimita' e le gravidanze prematrimoniali crescono moltissimo. Uno
storico canadese, Edward Shorter, lo interpreta come l'effetto di una
"rivoluzione sessuale": secondo lui sono le giovani operaie, ex contadine
inurbate, che si emancipano e saltano allegramente da un letto all'altro.
Questo storico chi e'? E' un signore rispettabile, maschio, progressista,
che ha stampata nella sua testa l'ideologia che la liberta' delle donne
coincide con la loro disponibilita' sessuale. Arrivano altre due studiose,
Joan Scott e Louise Tilly, guardano gli stessi dati e dicono tutt'altro:
spiegano che queste donne che andavano a lavorare in citta', a parte che
facevano quasi sempre le domestiche e non le operaie, in realta' restano
incinte perche' continuano a comportarsi come usava nelle campagne, dove si
faceva all'amore prima del matrimonio, ma poi, se l'uomo avesse mollato la
ragazza, interveniva una rete di protezione e di controllo (la famiglia, la
chiesa, la comunita') per costringerlo a sposarla. Le ragazze anche in
citta' fanno all'amore aspettandosi e sperando di essere sposate, ma nel
nuovo contesto sono molto piu' vulnerabili perche' le vecchie reti di
protezione in citta' non esistono, e gli uomini possono abbastanza
tranquillamente fare a meno di sposarle. L'illegittimita' per Scott e Tilly
non e' per niente un segno di liberazione sessuale, e' il frutto di
matrimoni mancati, che si sperava avvenissero e non avvengono. E questo chi
lo dice? Lo dicono due storiche, due donne che, fra l'altro, hanno anche
conosciuto la fase della cosiddetta rivoluzione sessuale degli anni '60 e
'70, in cui, di nuovo, la liberta' delle donne veniva misurata sulla loro
disponibilita' sessuale, mentre invece poteva esserci piu' liberta' nel dire
di no.
Questo esempio l'ho scelto anche perche' ti induce a non fermarti davanti a
un dato, ma a indagare, a interrogarti. Per esempio, Shorter dice che
guadagnare un salario era decisivo per l'emancipazione; e si ferma li'.
Scott e Tilly vanno avanti e scoprono che le ragazze questo famoso salario
lo mandavano spesso alla famiglia di origine, in campagna, e dunque non era
cosi' emancipativo in quella fase; lo sara' dopo. Ecco un caso dove si vede
che i mutamenti nei vari settori possono avere tempi diversi, per le
abitudini sessuali sono stati tempi piu' lunghi; e' anche un caso che
introduce, mi sembra senza forzature, un tema che ha una rilevanza per la
mentalita' di oggi. Certo la lettura di Scott e Tilly ridimensiona
l'immagine di avanguardia del nuovo che Shorter assegna alle giovani
operaie, ma liberta' puo' anche essere la resistenza ad adattarsi alle
logiche nuove della societa' industriale, anche se quella resistenza puo'
avere conseguenze negative...
*
- "Una citta'": A proposito di interpretazioni controverse tu fai anche
l'esempio del nazismo presentato come regime natalista...
- Anna Bravo: Si', in vari manuali e anche in testi di divulgazione il
nazismo e' presentato come un regime pro-natalista. Andando invece a vedere
la vita delle donne, si scopre che tutte le provvidenze pro-maternita' sono
date alle cosiddette "ariane", preferibilmente sane e sposate. Gia' nel '33
c'e' una legge e una politica demografica che puntano a impedire o
disincentivare la natalita' di quella parte della popolazione tedesca che
non viene giudicata adatta a diventare razza dominante, e cioe' le persone
malate di mente, quelle che hanno malattie ereditarie, ma anche quelle che
non sono ben "inquadrate" socialmente. Gli eugenisti tedeschi fissano
proprio le quote: la percentuale di tedeschi "sani" va incrementata del 30%,
cioe' le madri "pregiate" dovrebbero avere 4 figli; la parte "scadente", che
sarebbe il 20% della popolazione, almeno un milione e mezzo di persone, non
deve riprodursi. E lo si mette in pratica con le sterilizzazioni
"eugenetiche" e gli aborti forzati. Le donne ebree sono il prototipo delle
donne "non pregiate".
Allora, se si dice che il nazismo e' "pro-natalista", si accredita
l'autoimmagine del nazismo stesso; i nazisti si consideravano pronatalisti
perche' favorivano le nascite auspicabili; ma erano ferocemente
anti-natalisti per una grossa percentuale di donne, e non solo ebree.
Se si usa la categoria "genere", si puo' arrivare a correggere assi portanti
delle interpretazioni, questo del nazismo e' uno dei casi piu' vistosi di
capovolgimento. D'altra parte, la stessa nascita del nazismo non si capisce
fuori da un'ottica di genere, perche' e' vero che le donne erano complici,
responsabili anche loro, ma e' altrettanto vero che il partito aveva una
composizione in grandissima parte maschile. Ci sono tante ragioni, ma credo
conti molto il fatto che gli uomini di classe media e classe operaia, negli
anni della crisi, dal '29 in avanti, anni di disoccupazione e miseria
spaventose in Germania, non riuscivano piu' a mantenere la famiglia. Magari
guadagnava la moglie andando a servizio, ma il maschio capofamiglia aveva
perso quelle sicurezze e quei ruoli che fanno l'immagine dell'uomo
rispettabile, che porta il pane a casa. E quando comincia a dilagare la
sensazione che non puoi risolvere il problema a livello persona
e, che per
quanto ti sbatterai la famiglia non riuscirai a mantenerla, o, se sei
giovane, che non potrai sposarti, sarai piu' portato a sostenere un partito
che promette di risolvere la situazione a livello generale; tanto piu' che,
allora, socialisti e comunisti si combattevano tra loro, i moderati non si
contrapponevano affatto a Hitler, quindi non e' che ci fossero alternative
chiare. Anche la violenza diffusa in quegli anni e' sintomo di questa crisi
maschile. E' un aspetto questo che Simone Weil aveva capito benissimo gia'
nel '33, gli altri no.
*
- "Una citta'": C'e' anche il rischio di una sacralizzazione degli eventi
storici. Certi eventi, in particolare quelli considerati fondativi, vengono
spesso trasfigurati, mitizzati. Ne hai parlato a proposito dell'immagine
della resistenza, simboleggiata nel maschio giovane in armi, ma questo
aspetto marziale maschile e' molto presente anche nella storiografia in
generale. Tutto questo, oltre che essere profondamente sbagliato, certamente
non aiuta a "far lavorare" i ragazzi...
- Anna Bravo: Se parliamo di eventi fondativi, che tu parta da Caino e
Abele, o dalla fondazione di Roma o dalla Rivoluzione Francese, stiamo
considerando sempre fatti di violenza fisica, poi armata, poi militare, che
stanno dentro il circuito simbolico del maschile. Io non ricordo uno stato
che abbia alle radici qualcosa di associabile al femminile; solo l'India, e
solo in parte. Magari in alcuni casi una radice diversa c'e', ma la
rappresentazione ufficiale e' ancora sempre di quell'altro tipo: battaglie,
guerre; lo schema e' sempre quello della violenza che fonda o rifonda,
riscatta... Per questo abbiamo tentato di far vedere come usare il genere
significhi molte cose legate fra loro: decostruire storicamente la
mascolinita' e la femminilita', fare la storia delle relazioni uomo-donna, e
anche rileggere la politica, i discorsi del potere, le ideologie.
Nel manuale ho scelto l'esempio della Danimarca, su cui ci sono visioni
opposte a seconda dell'orizzonte simbolico di chi guarda: indicato come
esempio di passivita', quello danese e' invece uno dei popoli che si
comporta meglio nella seconda guerra mondiale.
*
- "Una citta'": Puoi spiegarcelo?
- Anna Bravo: La Danimarca e' uno dei paesi che non rispondono sul piano
militare all'occupazione nazista; del resto c'e' una enorme sproporzione di
forze, e il suo governo, pur protestando, resta in carica e accetta di
"collaborare". Una scelta giudicata cosi' male che era invalsa l'espressione
"sdraiato come un danese", e non per caso era un'evidente metafora sessuale:
"sdraiato", come una donna, perche' non ha preso le armi e non ha
combattuto. Ma le cose sono molto piu' complicate. La Germania aveva firmato
un memorandum dove prometteva di non mettere in discussione l'indipendenza
politica danese. Ebbene, il governo lo prende alla lettera, e ogni volta che
i tedeschi fanno qualche richiesta, adotta una strategia di dilazione e di
diversione, sempre richiamandosi a qualche punto del memorandum. Nel '42
quando i nazisti vogliono introdurre leggi razziste, il governo ribatte che
cosi' si violerebbe il memorandum, perche' la Costituzione danese statuisce
l'uguaglianza di tutti i cittadini e qualsiasi attacco agli ebrei danesi e'
un'ingerenza negli affari interni. I danesi sapevano bene che quella
promessa non era una cosa seria, pero' fingevano che lo fosse, giocando su
questo fino al limite. Hannah Arendt ne La banalita' del male dice che c'era
un tale rifiuto da parte della popolazione e delle istituzioni di accettare
leggi razziste, di fare discriminazioni, che persino le autorita' naziste in
Danimarca ne erano "contagiate", che anche i piu' feroci si "ammorbidivano";
e infatti Hitler deve cambiare piu' volte i comandanti.
Poi nel '43, quando i tedeschi cominciano con gli arresti, tutto il paese,
comprese le istituzioni, si mobilita per portare segretamente in Svezia i
"suoi" ebrei, che si salveranno in gran parte; e sono invece parecchi i
poliziotti danesi che finiscono nei Lager perche' avevano rifiutato o
sventato l'arresto di ebrei. E' stata la piu' grande azione di salvataggio
di tutta la storia della persecuzione antiebraica.
Sarebbe stato questo il popolo "sdraiato"? E' invece un popolo capace di
fare una cosa che sembrava impossibile, e infatti non era mai stata pensata,
un'azione nuova, "imprevista". Hannah Arendt opera un vero rovesciamento di
giudizio sull'atteggiamento danese, a volte quasi enfatizza troppo, sembra
come innamorata, e lo sono anch'io. Il fatto e' che se ti sposti dal vecchio
retroterra simbolico, ti accorgi che tutto cambia, e magari cambia in un
minuto, non ci vogliono anni, anzi se capita capita subito; e vengono in
primo piano valori come la fierezza della vita, il coraggio morale, le
virtu' quotidiane e le virtu' eroiche di Todorov, e scopri un popolo che si
oppose al razzismo in modo creativo e operativo, salvando le persone; e
questo popolo diventa un'avanguardia di quella parte della lotta al nazismo
che e' consistita nello strappargli il maggior numero delle sue prede.
Perche' non si puo' misurare il contributo di un popolo o di un gruppo
politico alla lotta antinazista solo sul numero di quelli e quelle che sono
morti combattendo con le armi. Gli eserciti, e spesso anche i movimenti di
resistenza, si preoccuparono poco di salvare gli ebrei, la loro salvezza e
quella degli altri deportati era vista piu' come un risultato della guerra
vittoriosa che non come un obiettivo.
Non so quanto in Danimarca fondino la propria identita' nazionale su quei
fatti; se fosse cosi' sarebbe uno dei pochi casi in cui un tratto
caratterizzante di un popolo non e' legato alla figura dei giovani maschi in
armi...
*
- Eugenio Gruppi: Dei giovani d'oggi si puo' certamente dire che sono molto
refrattari ad approcci retorici o mitizzanti, per cui, per esempio, e' molto
piu' efficace un discorso che sappia operare questa ricollocazione, che
riesca a far capire loro cosa voleva dire vivere in quel momento, che,
certo, non e' la stessa cosa del vivere di adesso. Quando si riesce ad
attivare questo sforzo di capire la distanza temporale e nello stesso tempo,
pero', la realta' nazionale, la cosa funziona. Il problema e' che non sempre
e' facile farlo. Questi aspetti direi che sono quelli che interessano di
piu': ad esempio quando si tratta la prima guerra mondiale, piu' che sugli
aspetti strettamente bellici, interessa molto la guerra di trincea, cosa
significava vivere nelle trincee... anche perche', poi, si capisce il salto
di qualita' nel modo di concepire il conflitto.
- Anna Bravo: Fra l'altro la mitizzazione e' narrativamente povera, e' una
brutta copia del mito. Ci sono molti libri sulla resistenza che sono
convenzionali ed eroicizzanti, che non rendono onore ai protagonisti; e'
comprensibile che poi le persone di 15-18 anni non li leggano... Forse
leggono di piu' altri libri - penso a Fenoglio o Meneghello - piu' legati
alla vita quotidiana, libri che fanno posto ai dubbi delle persone, alle
incongruenze, alle cadute di tensione - e anche alla felicita'. Per quel che
riguarda la grande guerra, puoi descrivere tutto lo scenario politico e
militare, pero' poi gli devi dire cosa succedeva alla gente nelle trincee,
devi fare questa "immersione" nell'esperienza soggettiva; chi legge deve
poter vedere se e come un dato concetto gli serve a capire quell'esperienza.
Per fortuna che sulla grande guerra ci sono anche cose talmente belle! Basta
leggere la lettera di qualche soldato...
*
- "Una citta'": Anche la capacita' di comparazione e' importante per poter
lavorare sulla storia. L'esempio che hai fatto e' illuminante. A proposito
della Shoah, tema di cui non si puo' non parlare in un manuale del '900,
c'e' chi pensa che comparare comporti il rischio di relativizzare, di
sminuire, di desacralizzare. Voi come avete fatto?
- Anna Bravo: Basterebbe capire che si comparano cose differenti. E invece
da alcuni la comparazione viene considerata revisionismo. Ma se un evento,
parlo della Shoah, viene considerato fuori dalla storia, come pensano alcuni
ed alcune, si rischia di spostarlo su un piano metafisico, non si capisce
piu' come si possa affrontarlo con le categorie della storia. C'e' una
contraddizione fortissima sulla Shoah: se parli della presenza di forme
simili rischi di intaccare l'unicita' di alcuni suoi aspetti; se insisti sul
suo carattere irripetibile finisci per indebolire la sua funzione di
denuncia: se e' irripetibile, non contano piu' le cose che puo' insegnarci.
Tra poco in Italia uscira' un libro intitolato Le donne nell'Olocausto, che
e' stato criticato da alcuni storici americani perche' secondo loro non solo
non bisogna comparare, ma neanche disaggregare l'universo delle vittime; la
sofferenza sarebbe la stessa per tutti, e una ricerca sulla Shoah che lavori
sulle esperienze maschili e femminili sarebbe inopportuna e addirittura
impossibile. E' assurdo, perche' se e' vero che il razzismo prevale sul
sessismo, e' anche vero che non lo si capisce senza guardare al sessismo.
Credo che ci sia poi un altro motivo, non esplicitato: se ti metti a
studiare le donne, vedi che in Germania nei primi anni, dopo le primissime
misure razziste, e anche all'est nella fase iniziale dell'occupazione, c'era
tutto un lavorio soprattutto femminile per far continuare la vita, facendo
lavori di ogni tipo, comprando alla borsa nera e nei ghetti facendo
contrabbando, aggiustandosi a cucinare con pochissimo, cercando di avere
notizie dei parenti arrestati e prodigandosi in mille modi perche' li
rilasciassero, talvolta anche riuscendovi e, prima ancora, c'era lo sforzo
di rendere l'atmosfera domestica vivibile, di tenere su il morale di tutti.
Secondo me questi storici temono che parlare di questi aspetti dia l'idea di
una vita in qualche modo praticabile, e temono che si finisca per
confrontare il comportamento delle donne ebree con quello delle donne di
tutta Europa, scoprendo che spesso facevano cose simili, sia pure in
condizioni enormemente meno tragiche.
Temono che questo banalizzi la Shoah, e non si rendono conto che casomai e'
vero il contrario: sapere che le donne italiane facevano alcuni gesti e
azioni simili a quelli delle donne ebree e' una cosa che da' valore alle
italiane, alle tante signore Adele o Lucia che correvano al Comando SS:
"Voglio mio marito, voglio mio marito!", piangendo e urlando, e a volte
glielo restituivano; e non toglie nulla a quello che facevano le donne
ebree, anzi... Negli anni '50 fra i giovani israeliani c'era chi diceva che
gli ebrei dell'est erano andati a morire "come pecore al macello". Una cosa
infame. Anche la', c'era uno Stato che inizialmente si voleva fondare solo
sulle minoranze combattenti, sulle rivolte nei ghetti... Ma se questi
giovani avessero saputo che cosa si inventavano le donne, ma anche certi
uomini, per riuscire a sopravvivere, altro che parlare di "pecore".
Anche negli Stati Uniti ci sono delle rigidezze... i crimini nazisti e le
sofferenze delle loro vittime non si potrebbero comparare in assoluto, e
questo e' vero per i campi della morte, che in realta' non erano campi,
erano fabbriche istantanee di cadaveri. Ma non vale inevitabilmente per
tutto: Lager e Gulag si possono comparare senza banalizzazioni, e anche
rispetto alla deportazione politica nei Lager nazisti, quella degli ebrei
deve essere distinta, non necessariamente separata. Mi interessa molto la
posizione degli studiosi che dicono che il confronto fra Auschwitz e altri
crimini non solo non parifica Auschwitz agli altri, non solo non lo
banalizza, ma puo' anzi aiutarci a non riconciliarci con altri eventi
intollerabili. Abbiamo dedicato un intero capitolo alla Shoah perche' e' il
massimo spartiacque del secolo, e perche' le connessioni sono tante che il
rischio di essere grossolani c'e' sempre, e peggio che mai se si riduce lo
spazio.
*
- "Una citta'": Mi sembra di capire che uno dei rischi piu' gravi per te sia
quello di non vedere piu' le sfumature, le tonalita' all'apparenza minori,
che il rischio sia di estremizzare. Effettivamente se io penso a quello che
sapevo dell'Algeria (dico l'Algeria perche' ultimamente ce ne siamo occupati
di nuovo dopo che da giovanissimi tutti ci eravamo entusiasmati per la
rivoluzione) un po' inorridisco...
- Anna Bravo: Ti riferisci al fatto che uccisero dei moderati... Questa e'
una delle tragedie di tanti movimenti di liberazione nazionale, che spesso
mettono subito ai margini o addirittura spazzano via i connazionali
moderati. Noi trent'anni fa non lo sapevamo, ma in Algeria come si afferma e
si compatta l'Fnl? Ci sono tante ragioni, quella di fondo e' che la Francia
faceva stragi e torturava, ma conta anche il fatto che i moderati non
c'erano piu', o non contavano piu' niente; erano stati il bersaglio sia dei
francesi sia dei rivoluzionari algerini. Questo e' un copione che sembra
ripetersi regolarmente nella storia: i primi da far fuori sono i moderati
del proprio schieramento. Adesso in Macedonia la maggior parte della
popolazione, chiamiamola "maggioranza moderata", vuole vedere riconosciuti i
suoi diritti, non vuole il precipitare nello scontro armato, ma poi arrivano
questi che sparano e chissa' che cosa non succedera'.
Ma lo stesso e' stato in Rwanda, in Kossovo, dove i collaboratori di Rugova
furono fatti fuori sia dai serbi che dall'Uck, perche' erano fra i pochi che
potevano opporsi alla barbarizzazione e alla militarizzazione. La linea
delle forze radicali e' stata quella di spazzare via i moderati, di far
mancare l'interlocutore, il possibile mediatore.
Purtroppo noi abbiamo per anni e anni considerato i moderati come un
elemento negativo: "Sei un moderato?!" era un offesa, quasi... Se dovessi
rifare adesso questo manuale, farei un capitolo sui modelli di rivoluzione
per comparare nei diversi casi il ruolo dei radicali e dei moderati... e
rinuncerei a un pezzo sulla Grande guerra per spiegare meglio come si sono
svolte le crisi precedenti, quella marocchina, le guerre balcaniche, cosa e'
stato fatto per arginarle e non arrivare a una guerra generale. Qualsiasi
altra cosa abbia giocato, li' c'e' stata evidentemente anche una componente
di moderazione, di maggiore responsabilita': come, perche'? Rimpiango di non
aver approfondito, lo faro'...
Guarda, il problema dei "moderati" riguarda anche il problema delle tregue
durante la resistenza. Fino a dieci anni fa parlarne sembrava una cosa
inopportuna, perche' le tregue, secondo molti, non erano praticamente
esistite, oppure erano state fatte in funzione anti-comunista, dai
badogliani, che si mettevano d'accordo con tedeschi e fascisti per
indebolire i comunisti. Il che spesso era vero, pero' era vero anche che in
certi casi le tregue erano state fatte perche' una fabbrica era piena di
merce e non si poteva farla uscire dal territorio, e gli operai sarebbero
stati mandati a casa e la gente avrebbe fatto ancora piu' la fame. Spesso
era per dare un po' di respiro all'economia, alla societa', e in
quell'ottica una tregua era una cosa positiva, fatta per "salvare il
salvabile", per contenere il danno.
Non si e' dato abbastanza valore a questi tentativi, per dece