Fondazione Alexander Langer Stiftung ETS
Via Bottai, 5, 39100 Bolzano (BZ), Italia

30 novembre 2020

anna bravo

Anna Bravo e Anna Maria Bruzzone: In guerra senz'armi, Laterza 1995

1. Vecchio e nuovo nelle guerre
Negli ultimi decenni, un numero sempre maggiore di paesi ha aperto le forze
armate alle donne; è forse il simbolo più vistoso della crisi che ha
investito nel mondo occidentale il sistema di divisione dei ruoli secondo il
genere sessuale. Ma quando, nel gennaio '91, una delle trentamila donne
soldato impegnate nella guerra del Golfo viene catturata dagli iracheni,
stampa e televisioni reagiscono in tutto il mondo con emozione e stupore.
Quella prigionia inquieta, evoca sofferenze e pericoli aggiuntivi, in primo
luogo quello dello stupro, fantasma perenne dell'immaginario maschile ma
anche eventualità concreta, come la gravidanza che potrebbe derivarne.
Nonostante il grande rilievo dato dai media alla presenza femminile nel
Golfo, sembra che solo in quel momento si scopra che ha implicazioni
intollerabili: un carcere nemico non è posto per una donna. Eppure cadere
prigionieri è una delle conseguenze più ovvie del fare la guerra, ed e'
già successo a molte - basta pensare alle deportate politiche e alle
combattenti dei movimenti di liberazione antinazisti.
L'allarme di fronte alla prigionia di una giovane donna assomiglia per certi
aspetti alla reazione con cui durante le due guerre mondiali si guarda ai
nuovi lavori femminili. E' il fenomeno cui si richiamano prioritariamente le
tesi che vedono nelle guerre un potente acceleratore della modernizzazione;
e con buoni argomenti.
Nella prima, le donne entrano a milioni in settori prima loro preclusi,
innanzi tutto nell'industria bellica, a milioni afferrano le opportunità
inedite proposte dall'amministrazione pubblica, dai servizi, dalle stesse
forze armate, lavorando sia sul territorio metropolitano con compiti di
assistenza e sussistenza, sia al fronte come infermiere, guidatrici di
ambulanze, ausiliarie militari.
E' una rottura drastica e repentina della divisione sessuale del lavoro che
con modalità diverse riguarda tutti i paesi belligeranti e porta non solo
gruppi, ma masse di donne fuori da ruoli e settori classificati come
femminili, rendendole per la prima volta visibili con questa ampiezza in un
ambito non domestico. Meraviglia e preoccupazione sono forti, specialmente
in realtà come quella italiana, dove la tradizione culturale e religiosa
vede nel lavoro fuori casa una minaccia alla purezza femminile e
all'integrità' del nucleo familiare.
Insieme alla mancanza di precedenti, ad acuire l'inquietudine è la crisi
complessiva che si innesca con la prima guerra, il crollo di un intero
mondo, dei suoi simboli, delle sue chiavi di interpretazione del reale.
Ma appunto per questo è significativo che nella seconda si abbiano reazioni
simili: sulla stampa tornano, come fosse la prima volta, le immagini di
postine, tranviere, operaie dell'industria pesante, e tornano gli
interrogativi sulle loro capacità, i fantasmi di incidenti dovuti alla loro
inadeguatezza ai nuovi impieghi. Lo stereotipo che vuole le donne
incompatibili con gli spazi e le mansioni di volta in volta definiti
maschili si dimostra tenace.
Si reggono su questa continuità alcuni tratti delle politiche del lavoro
che, pur in presenza di differenze radicali su altri piani, si tramandano
dalla prima alla seconda guerra: salari spesso migliori di quelli dei
settori "femminili", ma quasi sempre lontani da quelli maschili; governi e
imprese riluttanti a creare nidi, asili per la prima infanzia e camere di
allattamento per le madri, e attenti a presentarli come misure temporanee;
carattere a termine di molti nuovi lavori, cui le donne sono chiamate con
una esplicita funzione di rimpiazzo dei maschi assenti, in alcuni casi
addirittura sostitute ad personam. E' l'aspetto basilare.
Rilevarlo non equivale a minimizzare gli aspetti di rottura, ne’a sostenere
che finita l'emergenza le cose tornano uguali a se stesse. Al contrario.
Proprio questa gestione del lavoro femminile indica che non si tratta solo
di attuare strategie economiche, ma di ammortizzare una sfida, di tenere o
di rimettere le donne al loro posto. Varia il modo di farlo e variano le
reazioni sociali e istituzionali.
Durante la prima guerra, nella avanzata Torino la gente comune non trova
niente da ridire se un vecchio o un ex cameriere si trasformano in operai,
ma infierisce contro le donne accusate di aver preso un posto dove qualcun
altro avrebbe potuto imboscarsi (1). Nel dopoguerra alla rapidissima
espulsione dalle fabbriche si accompagnano ovunque attacchi scomposti contro
la "donna nuova" che a partire da inizio secolo si è affacciata sulla scena
culturale e lavorativa (2).
Alla fine della seconda guerra, la smobilitazione è più contenuta e minore
l'ostilità' verso figure femminili inedite. Non si tratta solo di un quadro
politico diverso, ma della maggiore capacità di difendersi: nell'estate del
'45 le operaie torinesi reagiscono alla prospettiva di un'indennità' di
contingenza minore di quella maschile invadendo l'Unione industriali e
imponendo la medesima cifra per donne e uomini capifamiglia (3). Che
all'epoca il fatto resti isolato non lo rende meno importante come segnale
di mutamento, in particolare della crescita di politicizzazione che
nell'Italia del '43-'45 tocca anche le donne.
Ma il quadro è molto meno lineare di quello proposto dalle interpretazioni
delle guerre come pietre miliari che porterebbero a passi avanti
irreversibili verso la modernità.
Per il lavoro di mercato, ne’l'una ne’l'altra delle due guerre mondiali
inducono a un riesame concettuale e a un riassetto stabile della divisione
sessuale del lavoro; più modestamente, provocano uno spostamento
provvisorio dei suoi confini, imposto da un cambiamento dei ruoli maschili
(dalla sfera produttiva alla sfera militare) anziché da una ridiscussione
di quelli femminili (4).
Per quel che riguarda la conquista dei diritti politici, epilogo classico
delle guerre e delle lotte di liberazione nazionale, bisogna interrogarsi
innanzi tutto sulle sue radici: il voto nel '18 alle donne britanniche, per
esempio, è frutto dell'impegno pluridecennale delle suffragiste non meno
che della necessità di dare riconoscimento alla mobilitazione femminile nel
fronte interno, e un discorso simile vale per il voto riconosciuto alle
italiane e alle francesi alla fine della seconda guerra mondiale. Bisogna
interrogarsi anche sui limiti di quelle conquiste - l'acquisizione di uguali
diritti formali può non intaccare affatto la marginalità politica - e
sulla loro possibile reversibilità: in Algeria, con il codice elettorale
del 1987, non integralista, si è tentato di dare agli uomini la
possibilità di votare a nome delle donne.
Nel nuovo c'e' molto del vecchio. Vale per il lavoro in settori maschili,
come per l'ingresso delle donne nei movimenti di liberazione e nelle truppe
regolari. Vale per le guerre del passato ma anche per la contemporaneità,
sia di guerra sia di pace, nei limiti in cui e' possibile oggi distinguere
fra il tempo dell'una e dell'altra.
La vicenda degli Stati Uniti insegna. Nell'apertura dell'esercito alle donne
ha certo pesato la lotta delle organizzazioni femminili/femministe liberal
per la parità in tutti i campi. Ma sono stati determinanti due obiettivi di
politica militare messi a punto negli anni Settanta: controbilanciare la
presenza crescente di giovani neri sventando la prospettiva di un esercito
troppo di colore; sostenere il volontariato, prevenendo tensioni popolari
ricalcate su quelle contro la guerra del Vietnam e diffondendo un'immagine
del servizio militare come mestiere, e mestiere non più "sporco" di altri
(5). Non e' un caso che la divisione sessuale del lavoro si sia prolungata
all'interno delle forze armate e al fronte, mentre, non diversamente che
nelle guerre mondiali, al mutamento dei ruoli lavorativi extrafamiliari
delle donne non ha corrisposto alcuna ristrutturazione stabile dei compiti e
delle responsabilità nello spazio domestico. Durante la guerra del Golfo,
la cura dei bambini e della casa delle combattenti e' ricaduta per lo più
su altre donne, molto di rado su uomini, e in ogni modo come fatto
temporaneo ed eccezionale.
Nei processi di trasformazione la compresenza di vecchio e nuovo e' la
regola. Ma in questo caso si tratta di un carattere fondante: e' nello
spazio domestico che risiede il primo terreno di organizzazione della
disparità. Se il nuovo si ferma alla sua soglia, i mutamenti economici e
lavorativi rischiano di non intaccare nella sostanza i rapporti di genere;
le conquiste politiche di essere vanificate. E' difficile preservare uno
spazio politico se non si può mettere contemporaneamente in questione
quello culturale e simbolico.
Eppure la presenza femminile ha innescato conflitti solo in parte previsti e
prevedibili. Due esempi fra molti: nell'esercito americano le donne hanno
aperto il contenzioso delle differenti opportunità di carriera e delle
molestie sessuali; durante la guerra del Golfo, altre hanno fatto leva sulla
carica innovativa legata alla figura delle combattenti per mettere in
discussione la propria, come le saudite che hanno manifestato alla guida di
automobili contro il divieto di farlo imposto dall'interpretazione nazionale
della legge coranica.
E' un fatto tanto più importante se si pensa che in tutta l'area
mediorientale le guerre hanno sfrenatamente rafforzato l'enfasi sulla
maternità come valore e come servizio principale che le donne devono
rendere alla nazione; lo stesso avviene nella ex Jugoslavia, dove la
maternità e' diventata strumento e bersaglio delle strategie di pulizia
etnica. In questi casi c'e' davvero da augurarsi che i cambiamenti siano
instabili; e c'e' da chiedersi se il dibattito sulla irreversibilità o meno
delle trasformazioni non sia troppo vincolato alla storia dell'occidente e
alla nostra vecchia concezione del cambiamento come invariabilmente
progressivo. Applicarla alle vicende delle donne, dove non e' affatto chiaro
cosa rappresenti un miglioramento e cosa un peggioramento, e non lo e'
affatto come misurarli (6), sarebbe una leggerezza.
A noi pare che raramente una maggiore libertà femminile sia stata il
sottoprodotto di processi che ne' la perseguivano ne' la prevedevano. Questi
possono contribuire ad allargare la zona neutra in cui donne e uomini
operano in termini relativamente interscambiabili; possono dilatare lo
spazio d'azione e i compiti femminili, renderli più visibili, metterli in
valore - ma come fatto a termine. Difficilmente ridefiniscono i ruoli
maschili spostandoli verso la domesticità e la cura.
Se si guarda alla storia del novecento, l'impressione e' che per quanto
riguarda i rapporti di genere i risultati più importanti siano legati al
tempo di pace, o quantomeno a forme di lotta poco militarizzate. L'esempio
più vicino nel tempo viene dalla prima fase dell'Intifada, in cui l'impegno
per l'autonomia sociale e produttiva apre spazi e sollecita iniziative delle
donne; mentre il predominio dell'aspetto armato a partire dal '90-'91, con
l'avvitamento nella spirale strage-reazione-repressione-vendetta-nuova
strage, ha tolto loro visibilità, respiro, forse consapevolezza (7).
*
2.  Donne e uomini
Fare del nuovo una parentesi anziché un punto di partenza e' stata la
strategia generale per contenere gli effetti disordinanti delle guerre.
Almeno potenzialmente, le trasformazioni minacciano infatti sia i rapporti
di genere sia le costruzioni simboliche del maschile e del femminile, a
partire da quella che associa le donne al privato e gli uomini alla sfera
pubblica del lavoro e della politica.
Nel caso delle donne soldato, si direbbe che le preoccupazioni nascano dal
loro distacco dalla casa non meno che dal loro contatto con il nemico. Nira
Yuval-Davis (8) ricorda l'intervista radiofonica di un padre inglese che,
dovendo occuparsi di due bambini piccoli dopo la partenza della moglie per
il Golfo, confessava il suo sgomento per la mole di lavoro e formulava la
calda speranza che lei rientrasse al più presto e se ne facesse nuovamente
carico. Forse una donna capace di combattere e insieme disponibile a tornare
alla domesticità può essere la versione postmoderna dell'emancipata,
sempre titolare di un doppio lavoro, anche se il secondo e' in questo caso
radicalmente diverso da quello produttivo.
Altrettanto persistente si e' dimostrato lo stereotipo che identifica la
guerra con il maschile e la pace con il femminile. Al punto che, passate le
emergenze che l'hanno contraddetto, ha finito spesso per riaffermarsi, sia
pure in versione aggiornata: sì alle donne soldato, per esempio, ma
protette dalla contiguità con il nemico e assegnate a settori e funzioni
che non creino ansie di tutela, rivalità e controllo negli uomini.
C'e' da stupirsi, ma non troppo. Più che a dar conto di quanto donne e
uomini fanno, una costruzione simbolica serve a convalidare un assetto di
norme e di immagini mentali: in questo caso, un assetto costitutivo della
divisione dei ruoli fra donne e uomini e del rapporto individuo/Stato.
A dispetto degli enormi cambiamenti nei rapporti fra i generi e nella
soggettività femminile, da più parti si insiste tuttora nell'aspettarsi,
quasi nell'esigere dalle donne in quanto tali, particolari competenze e
assunzioni di responsabilità in tema di pace (9). Fra le molte che se ne
sono fatte carico, alcune hanno agito appunto in nome di una radicale
estraneità di genere alla guerra; e le donne in nero, cui si deve se in
questi anni il dissenso femminile e' stato portato nelle strade e davanti a
sedi diplomatiche e militari, hanno scelto deliberatamente i simboli
classici del lutto e della testimonianza silenziosa. Ma il rischio, ha
notato Lea Melandri, e' "di riprodurre una parte gia' assegnata: quella di
una fisicita' senza parole, che si e' voluta immobile nel tempo, a custodire
gli eventi dell'esperienza umana che la storia ha escluso da se': la nascita
e la morte" (10). Quasi una riedizione del tradizionale pianto materno di
fronte alle rovine della guerra.
Storicamente, sembra persino ovvio ricordarlo, la separazione non e' invece
mai stata netta. Nonostante le molte manifestazioni antibelliciste cui hanno
dato vita, nella loro maggioranza le donne hanno lavorato sostenendo la
guerra, ne hanno tollerato la violenza per rassegnazione, ma anche per
convinzione, spesso sotto le insegne della maternita'. A volte hanno preso
le armi; sempre hanno offerto un retroterra materiale e morale a figli,
mariti, fratelli, compagni; sempre hanno riparato ai guasti della guerra, o
si sono sforzate di farlo.
Non e' solo effetto dell'identificazione con il destino maschile o della
propaganda - sebbene nessun governo abbia mostrato di ignorare che per
impadronirsi dei corpi e dei cuori dei soldati bisogna prima conquistare,
quanto meno neutralizzare, le donne. Il punto e' che, in mezzo a sofferenze
e rinunce, dalla guerra nascono nuove forme di autoaffermazione: maternita'
e lavoro femminile sono promossi a componente decisiva dello sforzo
nazionale, la funzione simbolica della donna viene esaltata come contraltare
piu' che mai prezioso al mondo della violenza. Ne nasce anche, almeno per
alcune, la possibilita' di guadagni economici, di avventure e vantaggi
personali. Di piu': singole donne possono trovarsi, per scelta, necessita' o
caso, a trasmettere informazioni e fare sabotaggi, a guidare un'azione
armata, salvare e uccidere, torturare e proteggere; e a potenziare con il
proprio esempio le fantasie aggressive o eroico-romantiche di altre, vissute
abitualmente per la interposta persona dell'uomo. A dispetto di recenti
speranze e di antiche retoriche, nessun dono di nascita e nessuna eredita'
storica hanno finora immunizzato le donne dall'orgoglio di condividere
esperienze fondate su categorie da cui nella normalita' sono state escluse
come gloria, onore, virtu' civile; ne' hanno loro impedito di combattere con
vecchie e nuove armi (11).
Vuol dire allora che scegliere la pace puo' dimostrarsi, anziche' l'adesione
irriflessa a uno stereotipo, una sua interpretazione creativa, e questo
libro vorrebbe indicarne alcune espressioni. Vuol dire anche chiedersi se le
combattenti in armi manifestino o meno diversita' riconoscibili nel modo di
vivere la guerra, per esempio una resistenza all'astrazione del pensiero
militarista e alla riduzione del nemico a alieno, mostro, non uomo. In
mancanza di certezze, si puo' almeno ribadire che le motivazioni e le
esperienze formano un mosaico cosi' complicato da non sopportare
generalizzazioni.
Ma e' cosi' per la stessa esperienza maschile. Assegnarla in toto alla
guerra e' altrettanto meccanico che identificare donne e pace. Solo una
parte degli uomini fa il soldato, di questi solo una parte combatte; e non
tutti sono affetti dal virus militarista. Diversamente, come spiegare il
bisogno della leva obbligatoria, come spiegare le renitenze di massa, gli
innumerevoli processi - centinaia di migliaia nell'Italia del '15-'18 - per
diserzione, rifiuto di obbedienza, abbandono del posto?
Come hanno rilevato per primi alcuni studi ormai classici sulla grande
guerra, a intaccare il bellicismo e' la stessa fisionomia che puo' assumere
la conflittualita' moderna, con il suo tempo interminabile, il suo carattere
di meccanismo selvaggio, la dimensione di massa della morte. Nel '14-'18 per
molti volontari di classe media scoprire che la guerra e' una copia
mostruosa della vita industrializzata mette la parola fine a qualsiasi
illusione romantica; a molti operai e contadini la condizione di soldato
appariva gia' in partenza un insieme di mansioni pesanti, sporche e
mortalmente pericolose comandate da un caposquadra in divisa (12).
L'immagine della guerra come trionfo della mascolinita' ne viene incrinata a
fondo.
Che alla guerra si leghino il piacere della distruzione e lo stupore
complice di fronte a manifestazioni di potenza terribili e' un dato di fatto
(13). Ma sono molti i comportamenti che lo contraddicono, ispirandosi invece
al modello del guerriero compassionevole, capace di contenere la violenza,
di non infierire sul nemico, di riconoscere il valore piu' alto non
nell'uccidere, ma nel morire per gli altri.
Raramente gli altri sono la nazione o i civili. Piu' la guerra mostra il suo
volto, piu' la fedelta' del soldato si concentra sui compagni, e
precisamente su quelli fra loro che gli sono vicini: si combatte per non
lasciarli soli, per aiutarli, se possibile per salvarli. Delle otto medaglie
ottenute da un reparto di marines nel 1944, sei riguardavano uomini che si
erano buttati a coprire le granate con il proprio corpo per proteggere i
compagni dallo scoppio; cosi' tutti e cinque i marines neri decorati di
medaglia d'onore in Vietnam (14). E' il culmine di una solidarieta' che puo'
venire da modelli precedenti, ma che per lo piu' nasce dall'interno stesso
della guerra, dove la sofferenza e il rischio patiti a lungo e fianco a
fianco uniscono come forse mai nella vita civile. I tanti episodi di
fraternizzazione indicano che questo senso di comunanza ha spesso scavalcato
gli schieramenti contrapposti.
Non solo: per un singolare paradosso, e' il soldato, non l'uomo di pace, a
imparare per primo a farsi carico del suo simile, sostituendo alla "virtu'
eroica" del combattimento quella che Todorov definisce virtu' quotidiana
della cura (15). Significa misurarsi con l'arte di ascoltare e di parlare,
di palesare uno stato d'animo o di nasconderlo se si sa che puo' ferire o
abbattere; significa badare al corpo dell'altro, toccarlo, medicarlo,
tenerlo vicino. La guerra e' forse l'unica occasione in cui giovani maschi
sperimentano fra loro un lavoro di cura simile a quello svolto dalle donne,
o riservato a figure professionali come medici, infermieri, psicologi.
Non e' un dato incompatibile con il bellicismo, spesso ne e' anzi una
componente; ma puo' portare anche alla sua negazione. Ne fa fede
l'ambivalenza con cui lo guardano i comandanti militari, ora facendo della
solidarieta' di plotone un mito (16), ora temendola come risorsa per
comportamenti antagonisti.
Che questo aspetto delle relazioni tra uomini sia stato incapsulato nella
cifra dell'emergenza e nella categoria di cameratismo non ha niente di
strano. La cura e' cosi' rigidamente associata alle donne che per definire
il comportamento dell'uomo sollecito non si trovano altro che termini come
materno o femminile. E se nel primo caso puo' agire il fascino dell'analogia
eroicistica fra il sacrificio del soldato e quello della madre,
un'identificazione con il femminile come "piccola" manutenzione della vita
parrebbe devirilizzante, e dunque dannosa per la restaurazione dei rapporti
di genere. Anche l'esperienza maschile della cura e' stata cosi' archiviata
come fatto a termine, mentre il suo potenziale di critica alla polarita' fra
immagini del maschile e del femminile restava inesplorato.
Ma oggi, primavera duemila, ci sembra che alcuni aspetti del rapporto
donne/uomini/guerra siano investiti pesantemente dall'effetto combinato
delle trasformazioni tecnologiche e dei nuovi modelli di conflitto via via
emersi dopo il crollo del muro di Berlino, in particolare quello
sperimentato durante la guerra Nato/Serbia del marzo-giugno 1999. In questo
caso, terra e cielo sono stati teatro di due guerre diverse. Sul territorio,
uno scontro di tipo tradizionale fra l'Uck, (Esercito di liberazione del
Kosovo) e le truppe serbe, che hanno sistematicamente usato la violenza
sessuale come strumento della "pulizia etnica": qui le donne sono comparse
essenzialmente come vittime, e in qualche caso come militanti della
guerriglia nazionalista. Il cielo ha conosciuto invece una guerra
tecnologica fatta esclusivamente di incursioni aeree su Serbia e Kosovo e di
controffensive serbe: nessuna contiguita' con il nemico, crucialita' delle
conoscenze tecniche, peso ridotto del fattore forza fisica. Mentre essere
uomo o donna risultava una variabile meno rilevante, l'assenza di scontri
ravvicinati e di insediamenti militari Nato in zona di guerra, il dislivello
tecnico fra i contendenti e la brevita' del conflitto hanno cancellato una
delle condizioni-base su cui si e' storicamente costruita la solidarieta'
fra compagni (ma anche la fraternizzazione con il nemico). Sebbene nella
discussione sulla guerra del Kosovo di rado sia entrata una prospettiva di
genere, e' probabile che ne escano ulteriormente modificati sia il modello
maschile del combattente, in molti conflitti sempre piu' simile a un tecnico
che a un soldato, sia le funzioni delle donne nelle forze armate.
3. Con le armi e senza le armi
La seconda guerra mondiale e' un laboratorio di sentimenti e comportamenti
contrastanti. Forse e' particolarmente vero per l'Italia, dove il
rovesciamento delle alleanze e la guerra civile investono tradizioni
culturali, convinzioni politiche, fedi religiose, disegnando uno scenario
che cambia radicalmente nel tempo e nello spazio. Il discorso riguarda gli
uomini, che fra il '43 e il '45 danno vita a due eserciti, uno interamente
l'altro in parte volontario, e nello stesso tempo ai piu' grandi fenomeni di
sbandamento e diserzione della storia italiana. Ma tocca soprattutto le
donne.
Nel '40, nessuna organizzazione femminile, cattolica o laica, prende
posizione contro la guerra. L'8 settembre '43, quando l'esercito si disfa e
decine di migliaia di soldati si sbandano nel paese occupato dai tedeschi, a
soccorrerli, rivestendoli in borghese per sottrarli alla cattura e
indirizzandoli sulla via del ritorno a casa, sono soprattutto donne: per lo
piu' donne cosiddette "comuni", che agiscono senza il sostegno di ideologie
in senso stretto politiche, che non hanno armi per difendersi, e se le
avessero non saprebbero ne' probabilmente vorrebbero usarle. Ci si
aspetterebbe di vederle assistere in dolorosa rassegnazione alla cattura
degli sbandati. Invece li contendono a un esercito strapotente, e non di
rado con successo. "Pareva - scrive Luigi Meneghello - che volessero
coprirci con le sottane" (17).
Nel frattempo altre entrano nell'esercito sui generis della resistenza, e
sul fronte opposto nascono le ausiliarie di Salo', un corpo di volontarie
militarizzate che non portano le armi.
Agli inizi del '45, quando il governo Bonomi pretende di rendere operativo
il reclutamento degli uomini dai venti ai trent'anni nel nuovo esercito da
affiancare agli alleati, ancora le donne insieme con gli studenti tornano in
piazza contro la guerra. E' la rivolta dei "non si parte", che si estende in
tutto il centro-sud con scontri a fuoco, morti e feriti. Nella citta' di
Ragusa a prendere l'iniziativa e' Maria Occhipinti, ventitre' anni, incinta
di cinque mesi, di idee comuniste, che il 5 gennaio si stende davanti a un
camion carico di renitenti rastrellati, costringendo i carabinieri a
rilasciarli. Scontera' per questo carcere e confino (18).
Il senso comune dei contemporanei guarda senza stupore alle azioni di
sostegno ai renitenti: cosa puo' fare una donna di piu' naturale che opporsi
a chi le vuole portare via il marito, il figlio, e per estensione gli altri
uomini? Cosa puo' importarle che l'esercito in questione sia fascista o
antifascista?
Colpiscono di piu' le partigiane e le ausiliarie, donne che si "snaturano"
entrando negli spazi della politica e della guerra, eccezioni che rompono la
norma e nello stesso tempo la confermano.
Riprodurre nella ricerca gli orientamenti di allora identificando le "donne
comuni" con la ripetitivita' e la condizione di vittima, e le partigiane e
le ausiliarie con l'innovazione, il protagonismo, l'avventura, sarebbe una
fatica inutile, oltre che una doppia ingiustizia. Peggio ancora ragionare in
termini di "pacifiche" e "guerriere", "impolitiche" e "politiche". Con il
nostro lavoro vorremmo contribuire a renderlo chiaro.
Questo libro racconta storie di donne a Torino e nel Piemonte del '40-'45;
qualcuna di loro era partigiana; alcune sono state perseguitate e deportate
perche' ebree, altre per motivi politici; la maggior parte non ha avuto
particolari ruoli politici o militari, e secondo un vecchio stereotipo
storiografico rientrerebbe nella "zona grigia" di quelle e quelli che non
hanno scelto.
Racconta anche di donne rinchiuse in ospedale psichiatrico, di donne
condannate per aborto: nonostante lo sfascio istituzionale, l'ordine
fascista non dimentica i comportamenti femminili.
Di molte abbiamo sollecitato il racconto sotto forma di storia di vita o di
tranche autobiografica e qualcuna ci ha offerto anche lettere, documenti
personali e scritti di memoria; di altre abbiamo trovato traccia in carte
d'archivio. Su alcune esperienze, per esempio la prostituzione, c'e' ancora
una tale autocensura che e' stato impossibile ottenere anche una sola
narrazione diretta. Cosi' sulle condanne per aborto e per reati comuni.
Difficolta' di natura diversa hanno accompagnato la ricerca di donne ex
ausiliarie di Salo', e solo in fase di conclusione siamo arrivate a una
presa di contatto.
Da questo lavoro e' nata una mole di documenti e testimonianze inedite (19)
che ci sembra importante per capire quel periodo. Ci chiediamo allora quale
rapporto si possa costruire tra le riflessioni in atto su resistenza e
guerra e quelle sull'opera delle donne nelle sue molte forme.
Un punto di partenza puo' essere il vocabolario della storia, che per
indicare l'azione delle partigiane ha fatto ricorso per decenni a due
termini, contributo e partecipazione. Sono concetti deboli rispetto alla
ricchezza dell'esperienza, ma indicatori forti degli orientamenti
storiografici. Contribuire o partecipare non equivalgono a fare e a far
parte, anzi marcano il divario fra appartenenza e convergenza momentanea,
fra l'azione creativa e il suo contorno o supporto, che restano vaghi. Tanto
vaghi che le medesime parole sono state usate estensivamente per abbracciare
l'insieme delle iniziative femminili ritenute utili alla resistenza.
Forse e' cosi', le donne contribuiscono e partecipano, non fondano. Ma
dipende in primo luogo dai confini e dai contenuti che si danno al termine
resistenza.
Nel campo d'azione sia delle donne "comuni", sia delle partigiane e delle
militanti dei Gruppi di difesa della donna, ci sono molti comportamenti
tipici della resistenza civile, il concetto messo a punto dallo storico
francese Jacques Semelin (20) per indicare una pratica di lotta
caratterizzata nei suoi soggetti (appunto i civili), nei suoi mezzi (non le
armi, ma strumenti come il coraggio morale, la duttilita', la capacita' di
manipolare i rapporti, di cambiare le carte in tavola ai danni del nemico),
nei suoi obiettivi. Questi possono essere tanto l'appoggio alla resistenza
armata, quanto finalita' autonome che esprimono il rifiuto in prima persona
della societa' contro la pretesa nazista di dominio sulla sua vita e sulle
sue strutture. E' resistenza civile quando si sciopera o si manifesta per
migliori condizioni materiali, per ostacolare lo sfruttamento delle risorse
locali da parte degli occupanti, per testimoniare la propria identita'
nazionale; quando si agisce per isolare moralmente nazisti e
collaborazionisti; quando si tenta di mantenere una certa indipendenza di
gruppi sociali e  istituzioni (21), di impedire la distruzione di beni
essenziali, di contenere la violenza magari offrendosi come intermediari;
quando ci si fa carico di qualcuna delle innumerevoli vite messe a rischio
dalla guerra. A distinguere queste e altre pratiche dalle strategie di
emergenza messe in atto soprattutto dalle donne per far continuare la vita
quotidiana, sono l'intenzione e la funzione antinazista, anche se fra le due
aree di comportamenti possono esserci affinita' e sovrapposizioni.
A volte collettivi, piu' spesso individuali, frutto ora di una tessitura
minuziosa, ora di precipitazioni impreviste, le lotte sono per lo piu' non
violente, ma non sempre: per l'Italia, ricordiamo gli assalti a magazzini
viveri e a treni carichi di derrate o combustibili - l'altra guerra, la
definisce Miriam Mafai (22) - e non da ultimo le violenze collettive, spesso
amplificate nell'immaginario sociale, contro esponenti e favoreggiatori di
Salo'. Anche l'assenza di armi non e' sempre una scelta, in certi casi e'
semplicemente impossibile procurarsele.
Per molti protagonisti/e  valgono ragioni politiche in senso stretto. Per
moltissimi/e altri si tratta piuttosto di compassione verso chi e' in
pericolo, stanchezza della guerra, spirito di ribellione per il continuo
peggioramento delle condizioni materiali; a volte di orgoglio nazionale o
dignita' del proprio mestiere. Ma nessuna di queste spinte basterebbe, senza
un preventivo disconoscimento della legalita' fascista e senza
l'identificazione, per quanto embrionale e sotterranea, di una legittimita'

Anna Bravo
© 2025 Fondazione Alexander Langer Stiftung ETS.
Codice fiscale  94069920216.
Produced by Kreatif

Il rinnovamento è in corso! 

Il nuovo sito della Fondazione Langer è online ma stiamo ancora implementando alcune funzionalità e completando alcune pagine. Continuate a seguirci per scoprire tutti gli aggiornamenti!

modificato.jpg