IV LECTIO LANGER
Da Teheran, la voce di Narges Mohammadi
Narges Mohammadi (premio Langer 2009, premio Nobel per la Pace 2023)
Saluto i gentili partecipanti e gli organizzatori di questo incontro, la gentile Presidente e i gentili membri della Fondazione Alexander Langer e vi ringrazio di cuore.
Ho ricevuto il mio primo premio per i diritti umani da questa Fondazione.
È stato per me di grande incoraggiamento per continuare in questo impegno e anche di grande conforto in seguito agli accadimenti del Movimento dell'Onda Verde nel 2009, quando molti difensori dei diritti umani venivano sottoposti a forti pressioni da parte degli organi di sicurezza o erano vittime della repressione o venivano incarcerati.
Quando ho ricevuto questo premio ho sentito in me una scintilla di speranza. Nonostante fossimo oggetto di repressione, di arresti, di incarcerazioni, nonostante chiudessero le sedi delle nostre attività e tentassero di silenziare le nostre voci, se in un Paese come l'Italia mi assegnavano un simile premio, si teneva una cerimonia, venivamo nominati e ci si ricordava di chi combatteva in Iran, voleva dire che le voci non potevano essere spente.
Voleva dire che la giustizia non poteva essere né sconfitta né calpestata e che essa spuntava comunque da un altro nido. Quel giorno, quel riconoscimento riaccendeva nella mia memoria quel significato. Quel premio era la giustizia e la voce degli attivisti in difesa dei diritti umani in ogni parte del mondo.
Dopodiché, entro nel vivo della discussione di questo vostro incontro di oggi. Avrei tanto voluto essere con voi e dialogare insieme. Penso, però, che quando vedrete questo video sarò rientrata in prigione e perderò quest'opportunità.
Ad ogni modo, torno all'argomento: il decalogo che è diventato il manifesto della vostra Fondazione. Ne ho ricevuto una copia e mi è stata di grande utilità.
Mi trovo in Iran. Nella regione del Medio Oriente, e in particolare nel mio Paese, abbiamo assistito di continuo a discriminazioni. Siamo stati testimoni di una forma complessa di discriminazioni. L'Iran è un Paese composto da diverse etnie, da diverse lingue e dialetti, da diversi orientamenti politici, religiosi e di pensiero. Forse questa varietà e questa ricchezza sono il punto di forza del mio Paese e ritengo che siano anche la base fondamentale per dare forma alla democrazia. Purtroppo, però, quando la società non è di tipo democratico e non porta quindi in sé una forma di governo basata sulla democrazia e sul secolarismo, talvolta i nostri punti di forza si trasformano in debolezze.
Nella società in cui vivo sono stata testimone di queste discriminazioni. Sono stata testimone della discriminazione sempre più forte nei confronti delle donne. Attraverso l'apartheid di genere abbiamo fatto l'esperienza di una discriminazione totale nei confronti delle donne. Nel mio Paese ho assistito anche alla discriminazione etnica. Userò il metodo della narrazione al fine di rendere forse più efficace ciò che intendo. Quello a cui mi sono avvicinata e che mi è d'aiuto nelle mie argomentazioni sono le storie dei testimoni che raccontano. È la cosiddetta evidenza aneddotica. La fonte è un testimone che racconta una storia che ha vissuto in prima persona oppure un altro testimone ancora che è a conoscenza della storia perché l'ha sentita raccontare e la narra a sua volta.
Soprattutto quando ero nel carcere di Evin e soprattutto negli ultimi anni, quando sentivo i racconti delle donne di varia provenienza come dal Kurdistan o dal Khuzestan o dal Sistan-Balucistan, mi rendevo conto di quanto questa discriminazione etnica fosse distruttiva del sentimento di appartenenza sociale. Così come nel dibattito democratico parliamo di integrazione e di assenza di discriminazione tra le persone in un determinato ambito, pensavo a quanto la discriminazione etnica infliggesse un colpo mortale persino alla democrazia stessa e mettesse a repentaglio i diritti umani. Ho ascoltato molte testimonianze e mi sarebbe piaciuto discutere dell'argomento attraverso quelle narrazioni ma il tempo è poco.
Voglio dirvi, però, che ho esperienza di ciò che è scritto nel vostro decalogo e sono fermamente convinta che i dieci punti trattati debbano essere affrontati non solo dalla vostra Fondazione in Italia ma anche da altre fondazioni simili in tutto il mondo. Nel mondo di oggi questo è essenziale. Il mondo di oggi ha a che fare con crisi tali che dovremmo forse chiamare super crisi. Ha a che fare con sfide tali che forse, ormai, vista la loro estensione, dovremmo chiamare super sfide. La questione climatica può essere considerata come una delle crisi mondiali. Così anche la discriminazione nei confronti delle donne, l'apartheid di genere, la questione femminile sono da considerarsi tali. Soprattutto in aree geografiche come il Medio Oriente e, soprattutto, in presenza di forme di governo come quella dei talebani e della Repubblica Islamica. Discriminazioni sociali, etniche, di genere, religiose...
Le disparità economiche, che stanno provocando crepe e divari sociali consistenti, sono spaccature in movimento, come faglie attive di terremoti che possono sconvolgere il mondo. Il complesso di queste crisi è qualcosa di più della loro somma. Ci troviamo di fronte a una crisi estesa che ingloba l'interconnessione di queste crisi. Non possiamo pensare che se dalla crisi di discriminazione di genere delle donne eliminassimo il problema della crisi climatica, la prima sarebbe risolta. Sono interconnesse. Anche la questione della discriminazione etnica è una di queste crisi complesse e interconnesse che descrive l'estensione della crisi, la crisi dovuta alle migrazioni. Culture diverse, persone diverse con tradizioni diverse, opinioni diverse, idee diverse. Se non riusciamo a risolvere le problematiche per queste società, le crisi diventeranno via via sempre più grandi e potranno condizionare il nostro mondo, il nostro futuro e il futuro dell'umanità.
Non possiamo parlare di diritti umani se non consideriamo la questione ambientale. Non possiamo parlare di discriminazione etnica se non affrontiamo la questione dei diritti umani. Non possiamo parlare di democrazia senza considerare la questione femminile e facendo finta di non vedere l'esistenza dell'apartheid di genere. Tutto questo è interconnesso.
In sostanza, se stiamo considerando la convivenza all'interno delle società, dobbiamo domandarci quanto l'esistenza di quegli esseri umani che vorremmo far convivere gli uni con gli altri sia riconosciuta all'interno della società stessa. Hanno una voce in seno alla società? Vivono in un contesto in cui vi è una condizione ambientale sostenibile? O è forse solo per noi stessi che consideriamo importante l'ambiente che ci circonda e crediamo di essere i soli a meritarlo e ad averne diritto? Il soggetto di cui dibattiamo in questi nostri dialoghi e su cui facciamo ipotesi di convivenza, gode forse dei diritti umani e dei diritti fondamentali di un essere umano per poter poi discutere con lui del significato e dell'esperienza della convivenza sociale? Questa persona ha una sua propria voce per potergli dire di entrare in dialogo con noi? La sua voce è mai arrivata a livello delle società degli esseri umani o gli è rimasta strozzata in gola? È possibile invitare a una convivenza pacifica un essere umano che ha la voce strozzata in gola? È possibile, se quell'essere umano è ancora fermo al gradino più basso della scala sociale? Se non gli è stato ancora dato il permesso di intraprendere la strada verso il gradino successivo?
Di conseguenza, ciò che intendo dire è che ogni volta che pensiamo quale sia la via possibile per la convivenza interetnica o per la questione ambientale o per quella dei diritti delle donne, dobbiamo partire dai diritti umani. Se aspiriamo alla democrazia e ai diritti umani e ci impegniamo per essi, non possiamo concepire che alcune nazioni beneficino della democrazia ed altre continuino a vivere sotto il giogo dell'oppressione. È qui che possiamo scorgere il problema delle migrazioni. L'assenza del valore e della dignità della persona umana fa sì che la questione delle migrazioni diventi una costante. Queste migrazioni possono raccogliere e accostare etnie, culture e usanze, che, però, non si sono avvicinate per aver sentito l'esigenza dell'importanza di sperimentare la convivenza, bensì perché costrette a causa della povertà, della discriminazione, della prigione, della morte, degli eccidi, della guerra, a fuggire da un luogo per ricominciare una nuova vita altrove.
Di recente stavo facendo delle letture a proposito di democrazia. Claus Offe afferma che una delle condizioni della democrazia è che gli esseri umani provino il senso di appartenenza nel contesto in cui vivono. Essi devono essere dotati di sopportazione e tolleranza. La società deve essere dotata di sopportazione e tolleranza. Egli considera fondamentali l'assenza di discriminazione sociale e la presenza di giustizia sociale. In mancanza di ognuno di questi parametri, la democrazia è in pericolo. Se ognuno di questi parametri è in pericolo e la democrazia non riesce ad affermarsi, le donne sono in pericolo, i gruppi etnici sono in pericolo, i giovani sono in pericolo.
Cosa fare quindi? Credo che interessarsi al tema del dialogo, ascoltare la voce dell'altro, possa forse essere uno dei passi importanti e fondamentali. Forse la vostra Fondazione potrà essere precorritrice nell'ascoltare e dare voce soprattutto alle categorie di coloro che sono oggetto di discriminazione, repressione, oppressione, che sono sotto assedio. Dei più deboli. Se riesce a dare loro maggiore voce, in modo che possano essere nelle condizioni per poter dialogare, e se riusciamo a configurare un dialogo mondiale sulla base dei diritti umani e dei diritti delle donne, forse potremmo ottenere buoni risultati anche per la convivenza interetnica.
Ad ogni modo, ho cercato di condividere le mie preoccupazioni da persona che ha sperimentato le discriminazioni su se stessa o che è stata testimone delle discriminazioni messe in atto contro le proprie compagne di carcere o dei propri connazionali di cui ha ascoltato i racconti e le pene. Ho cercato di raggiungervi dal cuore di tutto questo e di condividere con voi i miei pensieri.
Ribadisco che bisogna considerare seriamente la questione delle donne. Una delle nostre preoccupazioni per il futuro, anche per le società democratiche, è il raggiungimento e la legittimazione dei diritti delle donne. In particolar modo il riconoscimento dell'apartheid di genere come crimine. Quel crimine a cui assistiamo nel nostro Paese e in Afghanistan e che a tratti è presente nell'intera regione geografica.
Mi auguro che gli organizzatori di questo incontro si prodighino ancor più di prima su questi temi e che possano favorire l'avvio di un dialogo mondiale e la nascita di altre organizzazioni della società civile quali la Fondazione Alexander Langer. Sono profondamente grata per avermi dato quest'opportunità di poter condividere con voi questi aspetti e le mie preoccupazioni. Spero di vedervi un giorno nel mio Paese, l'Iran, quando avremo raggiunto la libertà, l'uguaglianza e la democrazia. Per festeggiare.
Grazie infinite.
Narges Mohammadi