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Paolo Bergamaschi: LA PARTITA DELLA RIELEZIONE DI TRUMP PASSA DAI BALCANI

30.5.2020, La Gazzetta di Mantova - Il Commento

L'ultimo allargamento dell'Unione Europea risale al 2013 quando, il primo di luglio, la Croazia fece il suo ingresso ufficiale diventando il ventottesimo Paese Membro. Poi più nulla, anzi una illustre e importante defezione con la Gran Bretagna che con il referendum del 2016 è uscita dal blocco riportando il numero dei componenti a ventisette. Eppure la politica di allargamento dell'Ue va annoverata fra i pochi successi della politica estera comune. Non è stato affatto facile colmare il fossato politico, economico, sociale e culturale che separava i paesi dell'ex Patto di Varsavia dagli altri del vecchio continente. Bruxelles è stata in grado di pilotare il processo che ha trasformato gli stati dell'Europa centro-orientale in democrazie liberali ed economie di mercato con ingenti investimenti sia di risorse umane che finanziarie. Non tutto è filato liscio, però. I casi di Polonia e Ungheria, infatti, ci ricordano che per completare la metamorfosi democratica occorre un radicamento di valori che non si può ottenere in pochi anni. Non tutte le farfalle che escono dal bozzolo spiccano il volo. E' questo che ha raffreddato nell'opinione pubblica europea gli entusiasmi per un processo di allargamento formalmente ancora in corso ma in realtà dilatato strumentalmente oltre ogni misura. Vittime di questo ripensamento in corso d'opera sono i paesi dei Balcani occidentali ovvero le repubbliche della ex Jugoslavia più l'Albania. L'ultima guerra balcanica nel 1999 ha portato alla secessione del Kosovo ma a distanza di vent'anni la configurazione politica della regione appare ancora troppo fragile. Contenziosi territoriali e dispute di carattere storico, etnico e religioso avvelenano le relazioni fra stati preda di elite ultra-nazionaliste che campano sullo scontro e la contrapposizione. La Bosnia-Erzegovina è sempre sull'orlo del collasso imprigionata com'è in una complessa architettura istituzionale su base etnica che ha posto fine alla guerra ma che ha finito col paralizzare il funzionamento statale. Serbia e Kosovo sono ai ferri corti con Belgrado che rifiuta di riconoscere l'indipendenza di fatto della ex-provincia. E proprio in Kosovo rischia di incagliarsi ulteriormente l'incerta politica estera europea. Dal 2011 la diplomazia di Bruxelles guida i negoziati che dovrebbero portare alla normalizzazione delle relazioni fra Belgrado e Pristina. In nove anni sono più di trenta gli accordi settoriali stipulati fra le parti. L'Unione Europea elargisce a entrambi i paesi considerevoli fondi per sostenere un processo di adesione che implica profonde riforme strutturali. Dal 2008 in Kosovo, inoltre, opera la più importante missione di politica estera europea che ha il compito di assistere e monitorare le fragili strutture amministrative locali. In pratica l'Europa funge da baby-sitter per svezzare un paese che fatica a sorreggersi da solo. Lo ha sempre fatto di concerto con la diplomazia americana. Fino a pochi mesi fa quando Washington ha deciso di scavalcare Bruxelles prendendo le redini delle complesse trattative. A novembre negli Usa si svolgeranno le elezioni presidenziali. Trump vuole accreditarsi in campagna elettorale come statista di caratura mondiale appuntandosi sul petto qualche medaglia in politica estera. Gli è andata male con Kim Jong-un e la Corea del Nord; l'annunciato accordo con i Talebani in Afghanistan scricchiola. Perché non provarci con il conflitto congelato fra i due stati balcanici? Richard Grenell, l'inviato americano, negli ultimi mesi è stato iperattivo. Da più parti rimbalzano voci insistenti che a Washington un accordo sarebbe già stato trovato fra Vucic e Thaci, i presidenti di Serbia e Kosovo. Implicherebbe uno scambio di territori ritagliati lungo linee etniche con la parte settentrionale del Kosovo, popolata in prevalenza da serbi, che passerebbe sotto il controllo di Belgrado e un lembo di Serbia, popolato in prevalenza da albanesi, che passerebbe sotto il controllo di Pristina. Ridisegnare i confini nei Balcani, però, è come accendere un fiammifero in una polveriera. Tutto potrebbe esplodere. La Bosnia si frantumerebbe con nuove tensioni interetniche nella Macedonia del Nord e in Montenegro. Di nuovo l'incubo di un'altra guerra nello spazio della ex Jugoslavia. Alla diplomazia statunitense poco importa del vortice di instabilità in cui potrebbe essere risucchiato il vecchio continente. Usando un gioco di parole degli anglofoni l'America è il player mentre l'Europa è il payer. In parole povere Washington decide e Bruxelles paga. E paga doppio: prima il conto salato della ricostruzione post-bellica dell'area balcanica, poi per le conseguenze devastanti dell'accordo deciso a Washington. Con buona pace della presunta solidarietà transatlantica.

30/5/2020

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