Edvige Ricci: la conversione ecologica
Riscoperta e valorizzazioni delle relazioni ben radicate nell’esperienza e nei territori. Dal più al meno, per una riconversione socialmente desiderabile. Pace fra gli umani e con la natura
Mi si chiede di ragionare su alcune pagine e affermazioni di Alexander Langer in merito alle relazioni fra il pensare e l’agire/locale e globale, ai fini del cambiamento necessario per un futuro amico. E lo faccio pensando ai più giovani, che non hanno avuto modo di conoscerlo quando era all'opera fin dai momenti di nascita del movimento ecologista in Italia e Europa.
Nella seconda metà degli anni Settanta, la nostra generazione, quella «giovane» di allora - supernutrita di ideologie, ideali e volontà d’azione - scoprì, quasi improvvisamente, che era necessario inserire il «Luogo», inteso come natura, paesaggio, ambiente e «altri» viventi, nel ragionamento politico e culturale.
Con Alex condividevamo già un grande impegno e amore per la polis, che in lui traspariva da ogni poro della pelle, perché fosse orientata ai valori della giustizia e della bellezza. Devo forse a questa passione l’ancora attualissimo dialogo che continuo ad avere con lui: tuttora fecondo di intuizioni e indicazioni che, pur non cercate, mi si parano spesso lungo il cammino, come pietre miliari che confortano sulla direzione presa.
L’irruzione dell’oikos
Credo sia difficile, per un giovane di oggi, per il quale la difesa dell’ambiente, del cibo, della gestione dei rifiuti etc. appartiene al discorso pubblico quotidiano e al diffuso senso comune, immaginare che pochissimi decenni fa tutto ciò non costituiva tema d'interesse.
«Quella» nostra generazione, che aveva precedentemente scommesso sulla rivoluzione politica e sociale trovandosi schiacciata tra rovinose scelte terroristiche da un lato e stragi di Stato dall’altro, si risollevò dalle macerie tramite due «movimenti»: quello prodotto dall’energia delle donne che non riconoscevano più, nelle regole e nei luoghi sociali e politici «neutri» fino ad allora frequentati, la possibilità di un libero ascolto ed espressione di sé; e quello suscitato dalla necessità di opporsi alle sempre più veloci devastazioni e distruzioni «ambientali», locali e planetarie, causate da uno «sviluppo» economico e tecnologico che non concepiva limiti.
Era il privato, la «casa», l’oikos che metteva improvvisamente in discussione il nostro mondo sia nelle sue regole relazionali interne (uomo-donna) che in quelle esterne, ambientali.
Fu un po’ come se «madre terra» bussasse alla porta e ci chiedesse di darci una mossa.
Una rottura, tante rotture. Il dolore che esse procuravano.
Non fu una semplice aggiunta di «temi» ai precedenti impegni per una futura «rivoluzione». Fu necessaria da subito una completa rivoluzione nel pensiero, nella postura, nelle modalità di azione.
Ho scritto «dolore» non a caso. Mi piace citare qui un passo di Wolfgang Sachs, allievo preferito di Ivan Illich, che in uno dei suoi preziosissimi libri racconta proprio come scoprì la «natura» e perché decise di occuparsene. Fu quando si accorse che avevano tagliato un pergolato bellissimo che sovrastava i tavoli esterni di una birreria vicino casa, ed avvertì improvviso il dolore di quella perdita, di bellezza e di vita, che riguardava la sua esistenza, l’identità di quel luogo e anche della sua anima, e pensò che la «natura» non poteva essere abbandonata unicamente nell’«ordine» della proprietà privata.
I tentativi iniziali di azione ecologista furono sicuramente «locali». E acquistarono man mano più urgenza dopo l’incidente nella centrale nucleare di Chernobyl. Nella seconda metà degli anni Settanta, infatti, decine e decine di piccoli gruppi, in varie città (compresa Pescara, da dove scrivo), si organizzarono per opporsi a devastazioni varie di ambienti e paesaggi che, fino ad allora e per generazioni, erano stati percepiti come orizzonti permanenti e identitari delle comunità.
Fiumi e mari inquinati, traffico impazzito, smog, cementificazioni selvagge, disboscamenti, tecnologie pericolose come il nucleare… Dal sentimento di amore verso la propria terra violentata, sorgeva la necessità di allargare ancora di più le braccia per accogliere e difendere, oltre ai socialmente deboli, anche la vita animale, vegetale, la natura e la bellezza dei luoghi.
Tantissime le donne che tornarono a impegnarsi in quei gruppi, dove anche gli uomini dismettevano i panni di «padreterni» e riconoscevano di essere ignoranti «sul come» diversamente fare per governare le trasformazioni generali della propria «casa», senza snaturarla.
E così quelle isole «verdi» fecero alleanza, divennero arcipelago, cercarono e trovarono scienze e coscienze vigili e pronte, pensatori e scienziati che, nelle Università Verdi autogestite, offrirono letture specialistiche dei temi e delle situazioni planetarie, e letture critiche della scienza e delle scienze, dall’economia alla medicina alla chimica alla giurisprudenza e a quant’altro servisse a formare una coscienza ecologica. Un «globale» recuperato sia nella visione generale in cui inquadrare la difesa di un luogo, sia come consapevolezza della necessità di sgombrare le illusioni onnipotenti di un pensiero economico inesorabilmente proteso verso uno sviluppo infinito.
Il circolo della semplicità
Il convegno internazionale fondativo del movimento dei Verdi politici, promosso a Pescara da Alex nel luglio del 1986, ebbe come titolo emblematico «La terra ci è data in prestito dai nostri figli», e fu uno specchio fedele di questa novità non solo italiana.
Ebbe molto successo e fu molto rassicurante, a quel tempo, la frase con cui Legambiente titolò un suo storico convegno nel quale decise un fortissimo impegno a difesa dell’ambiente: «Pensare globalmente e agire localmente». Consentiva di non sentirci provinciali, di essere cittadini di una polis ampia e universale e trovare, a partire dall’azione locale, mille ragioni per fare squadra.
Ma rischiò anche di favorire scorciatoie ideologiche, come tutte le dichiarazioni, che rimandando ad un pensiero lineare, facilmente tendono a trasformarsi in slogan.
Se ci rifacessimo invece alla circolarità della nostra relazione col mondo e pensassimo a quei quattro termini inscritti in una circonferenza ideale, aperta in spirali sempre più ampie, la sequenza di lettura darebbe altrettanto valore ad un «pensare locale e agire globalmente».
Un pensiero si struttura «naturalmente» sul fare locale, non inteso come luogo fisico, ma come ambito, tema della propria azione o scelta d’impegno, nella ricerca di risposte concrete verificabili e utili alla bisogna, riuscendo in questo modo più facilmente a sottrarsi alle ideologie rassicuranti e agli atteggiamenti predicatori. Alexander Langer non amava predicare, ma chiedeva invece di essere accompagnato nei ragionamenti, riuscendo ogni volta a stupire per lo sguardo profondo e innovativo con il quale le questioni venivano poste. E poi sintetizzate come esito di una riflessione e un'interiorizzazione profonda, che faceva i conti con il silenzio e l’ascolto di sé, un confronto senza sconti con i vari interrogativi da affrontare e sciogliere lentamente, un nodo alla volta. E solo dopo prendeva la parola, con concetti limpidi e da tutti comprensibili, dove l’apparente semplicità non negava la complessità da cui originavano, dentro una «visione» più ampia e globale, nel tempo e nello spazio. Come se il suo luogo-pensiero venisse generato da un processo di simulazione, macerazione e purificazione per arrivare a proposte concrete di soluzione.
Una capacità di visione, appunto, che probabilmente, nella stanchezza degli ultimi mesi, gli ha fatto anche intuire a quali livelli di violenza quella bruttissima guerra balcanica sarebbe arrivata, massacrando orribilmente, insieme a donne, uomini, culture anche il futuro di un’Europa dei popoli.
Ma quel movimento di pensiero, che riusciva a restituire alla complessità la semplicità essenziale, iniziò a strutturarsi nel suo luogo d’origine, in quella terra sudtirolese dove ha dovuto fare i conti con la propria appartenenza a due comunità, l’italiana e la tedesca, alla ricerca di risposte di conciliazione capaci di accogliere in sé ambedue le storie, le lingue, le tradizioni. Alcune delle risposte che riuscì a trovare e a sintetizzare nel suo Tentativo di decalogo per la convivenza, sono ancora qui, oggi, dopo venti anni dalla morte, a fornire basilari indicazioni agli amici e ai giovani protagonisti di una ripresa del dialogo nella città martire di Srebrenica.
Cantieri di «utopie concrete»
Tornando ad oggi e allo scenario globale estremamente critico nel quale ci andiamo muovendo, è possibile individuare, nelle esperienze concrete dei territori e dei luoghi, un orientamento di speranza in difformità all’esistente in deriva?
Una mia risposta può solo partire da ciò che vivo direttamente nella mia terra d’Abruzzo.
Non so se anche in seguito al terremoto dell’Aquila e, quindi, al senso di perdita di persone, di storia e di bellezza del nostro territorio, si sia accelerato un mutamento già iniziato, forse, nel tempo della nascita dei parchi. Non so se questa consapevolezza sia stata rafforzata dalle strazianti immagini televisive sull’esodo di migranti, ma è come se, mediamente, avessimo imparato tutti a rispettare, amare e ascoltare di più la nostra terra. È come se ne percepissimo meglio la bellezza, che rimane - per ricordare ciò che ci ha insegnato Giuseppina Ciuffreda - un bisogno innato dell’umanità.
Con tanti segnali, per quanto ancora timidi, di cambiamento del senso comune, non ancora portato a completezza ma almeno avviato.
Dopo anni di modernismo livellante e becero, nutrito del solo desiderio di arricchimento, quasi improvvisa è venuta fuori l’ansia di non voler perdere memorie, tradizioni, orizzonti, paesaggi, luoghi...
Impedire le trivellazioni nel mare dinanzi alla costa adriatico-teatina che, liberata dalla ferrovia, potrà trasformarsi in uno splendido parco terrestre e marittimo, è oggi obiettivo e impegno certo degli ambientalisti, ma anche di intere comunità con tantissimi giovani attivamente presenti in manifestazioni larghissime. E la mobilitazione non è tanto motivata da ragioni strettamente ambientali o sanitarie, che pure si invocano come argomenti nelle trattative in corso, ma piuttosto dal desiderio di non farsi sottrarre un pezzo di bellezza della propria identità, che orgogliosamente si vede rispecchiata in quel paesaggio.
Ma prima e al di là delle lotte contingenti, il movimento più importante, che avviene da anni e nel silenzio operoso, è quello di tantissimi che hanno iniziato a scommettere sul «fai-da-te» della conversione ecologica, nell’economia, nell’abitare, nel mangiare, nel coltivare, nel commerciare, nel recuperare e trasmettere tecniche e mestieri, feste e canti e tradizioni… In un dialogo sempre più consapevole con la memoria della terra che li ospita. Empori di prodotti equosolidali, in rete con contadini, produttori e artigiani che scelgono materiali e tecniche naturali; giovani che si auto-costruiscono case e villaggi con tecniche alternative come quelle della paglia, recuperando socialità e futuro insieme agli abitanti, anziani e non, di paesini terremotati, nel mentre all’Aquila palazzi fintamente «provvisori» devastano in maniera definitiva tutta le campagne periferiche della città. Altri, giovani e non, che recuperano e rifanno le tradizionali case di terra cruda, facendole divenire «alternativa moderna» e centro di studi e documentazione all’interno di reti internazionali. Donne che fanno impresa recuperando semi preziosi, grani tradizionali, turismo sostenibile. E pastori, produttori di olio, vino, miele, canapa, che non solo riscoprono economie di vicinato ma anche ponti europei e mondiali… Si moltiplicano gli orti, il compostaggio, i ciclisti delle mobilità quotidiane, gli animalisti, le camminate e le feste. Nipoti di emigranti «nordici» che riprendono in cura «naturale» la campagna dei nonni. Insegnanti in pensione che usano la liquidazione per recuperare la fattoria abbandonata della nonna, e lo fanno certo per sé ma soprattutto per eredità sensata da lasciare ai nipoti. E così via, per centinaia e centinaia di storie con pieno senso e uso della contemporaneità anche tecnologica.
Se una metafora langeriana volessimo usare, sarebbe quella delle «utopie concrete», già in grado di dimostrare che un’altra economia, un’altra società, un altro futuro sono possibili. Un cambiamento di rotta notevole cresciuto dal basso, un fiume visibilissimo che rimane carsico e nascosto solo per la politica e l’informazione standardizzata, che lo intercetta in rare occasioni, spesso strumentalmente e dei cui contenuti non ha ancora cominciato a farsi carico nella maniera necessaria e urgente.
Custodi della propria terra e delle sue memorie, che rimettono in ordine le proprie case, forse anche per poter meglio accogliere, all’occorrenza, chi dovesse essere costretto ad arrivare da lontano. Un grande cantiere di allenamento alla sostenibilità e alla pace fra gli umani e con la natura che va facendosi polis sperimentale. Di figli in ascolto della Madre. Che stimola anche a rileggere il passato e ristudiare origini e miti antichi non facendosi schiacciare dall’immanenza, ma invitando a uno slancio di trascendenza. E che non è rappresentabile dall’eroe che pianta la bandiera, ma piuttosto dal gesto offerente di quelle statuette sacre che vengono rinvenute nelle viscere della Majella: la stessa montagna madre a cui tornarono, come alla propria originaria casa, Celestino e i suoi compagni eremiti in fuga dagli sfarzi di Roma.