Alessandro Leogrande - Monumento alla Vittoria di Bolzano
A Bolzano, e in tutto l'Alto Adige-Sud Tirolo, li chiamano “relitti fascisti”. Sono tutti quei monumenti, palazzi, costruzioni che ricordano il ventennio mussoliniano. Il relitto fascista per eccellenza è il Monumento alla Vittoria realizzato da Marcello Piacentini nel 1928, per celebrare la vittoria italiana nella grande guerra e per rimarcare, come è scritto in latino sulla facciata, che “hic patriae fines siste signa, hinc ceteros excoluimus lingua legibus artibus”. E, cioè, che non solo qui sono fissati i confini della patria, ma che proprio “da qui” educammo “gli altri” con la lingua, le leggi, le arti...
Per decenni “gli altri”, cioè la comunità di lingua tedesca cui il fascismo aveva impedito di usare la propria lingua, hanno visto nel monumento il simbolo più eclatante dell'usurpazione e dell'occupazione. Ed eclatante, il monumento di Piacentini lo è davvero. Non solo perché, con grande dispendio di marmo bianco, s'alza in stile littorio fino a dominare un'ampia porzione di città, proprio nel punto in cui era stata avviata la costruzione di un altro monumento, prontamente demolito, in memoria dei caduti del reggimento Kaiserjäger. Non solo perché appare del tutto fuori luogo rispetto al territorio circostante, al paesaggio, all'architettura tradizionale, con le sue quattordici colonne a forma di fascio che reggono un imponente architrave. Ma anche perché il Monumento alla Vittoria è stato l'epicentro della mutazione urbanistica della città imposta dal regime, una mutazione che culmina, al termine di una serie di strade che ricordano le “vittorie” italiane, nella piazza del Tribunale.
Il Monumento è stato sempre percepito come la punta dell'iceberg di una frattura più ampia. D'altro canto, la destra italiana l'ha sempre interpretato come un simbolo da difendere, anche in età repubblicana. Così, benché a un certo punto la Südtiroler Volkspartei (la Svp, il partito che ha governato l'autonomia della provincia) lo volesse buttare giù, è rimasto al suo posto. Ma ogni volta che gli attriti sono riemersi, ogni volta che il processo di autonomia della provincia speciale è parso arrestarsi, ogni volta che le bombe hanno ripreso a esplodere (e sono state molte le bombe a esplodere tra gli anni sessanta e ottanta), è tornato al centro del buco nero delle reciproche incomprensioni.
Nel 1979 fu Alexander Langer, da sempre sostenitore della necessità di creare gruppi interetnici, e in seguito fermo oppositore dell'obbligo di dichiarare la propria appartenenza linguistica, a presentare una mozione in consiglio provinciale in cui si chiedeva che “d’ora in poi l’infelice monumento venga considerato e trattato inequivocabilmente come segno di monito e di memoria autocritica rispetto a una politica del passato che si deve recisamente ripudiare”. Ma la mozione non passò, perché gli opposti nazionalismi vedevano entrambi con il fumo nell'occhio la possibilità di una trasformazione in segno di monito. Per gli uni andava abbattuto, per gli altri doveva rimanere tale e quale. Così rimase lì, e al suo interno rimase il busto di Cesare Battisti benché gli eredi avrebbero voluto portarlo altrove per evitare che l'avo, come già il duce pretendeva, venisse associato al “relitto”. Dopo una serie di attentati, il Monumento venne addirittura recintato, tanto da accrescere il senso di separazione.
Quella trasformazione auspicata da Langer si è realizzata ora con la creazione di un percorso espositivo permanente intitolato BZ '18-'45. Un monumento, una città, due dittature. Il percorso (che si snoda nei locali sottostanti l'opera di Piacentini, come ampiamente illustrato sul sito www.monumentoallavittoria.com) è stato elaborato da una commissione scientifica presieduta da Ugo Soragni e composta da Andrea Di Michele, Hannes Obermair, Christine Roilo e Silvia Spad. Pannello dopo pannello, video dopo video, sono ripercorsi i momenti della sua costruzione e la storia della città tra le due guerre, pesantemente condizionata dai due totalitarismi, quello fascista e quello nazista (nel 1944 entrò in funzione il lager di Bolzano). In particolare, la scritta presente nella cripta “Dulcem et decorum est pro patria mori”, proprio accanto al grande affresco di Guido Caldorin “La custode della patria”, è coperta da una serie di frasi, di segno diametralmente opposto, proiettate sopra: da “Nessuno ha il diritto di obbedire” (Hannah Arendt) a “Infelice il paese che ha bisogno di eroi” (Bertolt Brecht). Tuttavia il maggior intervento sul monumento è costituito da un anello a led che cinge una delle colonne centrali. Sullo schermo nero scorre il titolo della mostra (Bz 18-45...) in tre lingue: italiano, tedesco e inglese.
È proprio questa sorta di “anello al naso” posto alla retorica fascista, fortemente osteggiato da Casa Pound e organizzazioni limitrofe, a desacralizzare il monumento di Piacentini, trasformandolo in un colpo solo, senza abbatterlo, in altro da sé. Ed è proprio questa trasformazione dal sapore langeriano a produrre una storicizzazione “autocritica” del relitto. Fino a dieci anni fa una cosa del genere sarebbe stata probabilmente impensabile. “Ma ora il vento sta cambiando”, dice Edi Rabini della Fondazione Alexander Langer. “Alla base di tale operazione vi è l'impegno di una nuova generazione di storici, tedeschi e italiani, che ha lavorato sulle reciproche memorie, rompendo gli steccati.”
Vi sono libri come “Noi figli dell'autonomia” di Hans Karl Peterlini (Edizioni alphabeta), acuta e appassionata autobiografia politica di un intellettuale di parte tedesca che riflette criticamente sui nodi irrisolti dell'autonomia e sui tabù della contrapposizione etnica. E vi è il lavoro di storici come Giorgio Mezzalira, autore con un gruppo di italiani e tedeschi di tre manuali di storia locale pubblicati dalla casa editrice Athesia.
“Il monumento è sempre stato una calamita per le identità”, dice Mezzalira, “e le barriere sono sempre pronte a ritornare. Tuttavia si è realizzata in questi anni una importante congiuntura: da uno sguardo acritico si è passati a una ricerca condivisa.”
Sono tanti i nodi ancora irrisolti, i punti di attrito. Non riguardano solo il ventennio fascista o il nazismo, ma anche i momenti più bui del lungo dopoguerra. “Il punto però”, continua Mezzalira, “non è unificare le memorie divise, ma offrire occasioni di sguardo reciproco. Del resto oggi sono diverse le domande che il presente pone al passato.”
E Piacentini? Subito dopo la liberazione, al tempo del governo Parri, Carlo Levi scrisse su “L'Italia libera”: “Nessuno ha epurato finora gli architetti come Piacentini, che ha rovinato letteralmente le più belle città italiane, e che in quest'opera di distruzione sistematica, assai più funesta dei bombardamenti, ha trovato modo di arricchirsi, instaurando una specie di dittatura su tutte le costruzioni del paese.” Oggi tale giudizio apparirà ad alcuni troppo severo. Eppure Piacentini rimase al suo posto. Assolto nel 1945 dalla Commissione antifascista per l'Università che avrebbe dovuto giudicare delle compromissioni con il passato regime, nel dopoguerra completò la costruzione di via della Conciliazione, fu preside di Architettura e membro del comitato tecnico per l'Eur.