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Marino Vocci: Il viaggio, tra sradicamento e difficile radicamento

3.7.2001, Euromediterranea 2001 - Exodus

Sono partito da Caldania in una triste Giornata di primavera del 1954. Avevo quattro anni. Con la spensieratezza, la curiosità e l'eccitazione, per una nuova avventura, ero salito sul camion assieme a mia madre e mio padre, in mezzo a mobili, materassi e tante altre piccole cose. Mia sorella, che era nata sette anni prima di me, aveva già da tempo raggiunto Trieste. Per poter frequentare le scuole italiane, quando non era stato più possibile frequentarle vicino a casa e soprattutto vicino alla sua e alla mia famiglia, in seguito alla loro chiusura in molte parti dell’Istria in conseguenza del Decreto "Perusko".. Le nostre vite si erano di fatto separate e credo che proprio a causa di questo primo traumatico distacco avrei incontrato veramente, o per meglio dire conosciuto, la mia unica sorella solo molti anni più tardi.

Zio Toni da noi chiamato più familiarmente Sobaz, si era alzato quando la notte era ancora buia e fonda, per mettersi in cammino assieme alla nostra armenta Viola e per raggiungere Dolina. L'avrebbe venduta ed il ricavato sarebbe stato utile per la nostra famiglia nel difficile, povero e triste vivere da sradicati nella nuova città d'adozione Trieste.

Avevo lasciato il silenzio della campagna di Castelvenere e Caldania e delle colline di Momiano, Merischie e Dramaz, campi conquistati con fatica, duro e secolare lavoro, il Carso pietroso ed arido, le cittadine arroccate sui colli e adagiate sul mare. Raggiunta Opicina che "profumava" ancora per la presenza degli americani con il loro chiasso e le loro musiche, su nel freddo altipiano carsico sopra Trieste, incontravo per la prima volta, un vento impetuoso e sconosciuto con suoni che assumevano musiche, sibilando tra ali alberi, o tra le baracche, tra i pali e colpendo il mio piccolo corpo. Lasciato una terra che non sentivamo più nostra, per approdare in una terra che non era nostra. Lasciato la scrila e la rodina, la finestra della soffitta dalla quale da una parte all’orizzonte giù verso San Lorenzo di Daila, vedevo il mare e dall'altra il moto ondoso delle colline infrangersi sui campanili di Buie. Una finestra, che mi faceva sentire parte del mondo dei pescatori, ma anche di quello dei contadini e dei pastori. Un’immagine che mi resterà dentro e che avrebbe rappresentato anche molti anni più tardi, l’idea di un spazio senza confini con la voglia e la curiosità di andare oltre per vedere, voler conoscere e sapere. Lasciavamo tutto per una baracca verde di via Doberdò ad Opicina. Una baracca ed un piccolo angusto spazio destinato a noi figli e a mia madre, con i tendoni a dividerci dalle altre famiglie, divise come la nostra. Per mio padre, che allora aveva quarant’anni, non c'era posto vicino a noi, ma una baracca destinata ai soli uomini adulti. Non avevamo più una casa per tutti noi. Ospiti di uno dei tanti campi profughi, chiusi quasi autosufficienti, noi come tanti, tantissimi altri profughi della Zona B, in gran parte ex pescatori ed ex contadini legati sino all'ultimo al mare ed alla terra istriana, costretti ora a vivere a Padriciano, Opicina, Prosecco, Santa Croce e Sistiana, nella “cintura rossa" della città di Trieste. Un dolore profondo e spesso insopportabile quello di ritrovarsi a vivere, loro che erano stati costretti ad abbandonare un mondo slavo e comunista, proprio in un mondo in gran parte slavo e comunista. Un dolore per il quale noi dobbiamo solo grande rispetto, che aumentava nei momenti in cui dall'alto del ciglione carsico potevano vedere dall’altra parte del Golfo di Trieste, l’Istria. I campanili delle chiese nel quale erano stati battezzati e si erano sposati, i cimiteri nei quali erano sepolti i loro padri, madri, nonne, bisnonni. Com'è stato difficile vivere per le nostre madri ed i nostri padri istriani, vicino anzi direi sotto al confine, accanto ad un mondo ostile, baldanzoso, spesso prepotente. Mondi che si dividevano e non si incontravano, anzi erano vittime dell’intolleranza e dello stereotipo, italiano=fascista, slavo=comunista, quassù sul Carso come in Istria.

 

LA TERAPIA DEL RITORNO

Negli anni Sessanta ecco i primi ritorni per le visite ai parenti limasti e alla nonna Margherita: atteso ed accettato per quello che ero canon, dizan moj sin, galoceto, cugino, e non per quello che avrei dovuto e/o che ero costretto ad essere. Ecco via via il desiderio di conoscere l'Istria, che “sentivo" come un mondo diverso da quello in cui vivevo, con i suoi ritmi ed i suoi tempi, le sue parlate: ecco sempre più presente e diffusa la sensazione che quello era il luogo delle mie radici, il paesaggio dell'anima. L'archivio della mia Memoria. I luoghi nei quali avevo imparato a camminare, a distinguere le voci familiari ed amiche, i suoni della vita densa di affetti ed amori, a scoprire i sapori e gli odori di un piccolo grande microcosmo.

Nel 1970 i primi lavori di sistemazione della casa di Caldania, e poi la piacevole possibilità di fermarsi più a lungo. Sempre più spesso rimanere a dormire, alzarsi alla mattina presto per andare al mulino, al torchio, al mercato o ad acquistare il pesce a Carigador, ad Umago o a Pirano. Lungo i trosi della campagna, incontrare le lepri ed i fagiani, camminare senza la fretta di ritornare. Cenare tutti assieme sotto l'orih, sulla scrila con sopra inciso "W la vittoria", e poi andare per una birra o un gelato a Portorose.

Un itinerario quindi prima di tutto familiare e personale, con ritorni in corriera, soprattutto d'estate a Caldania, dalla nonna Margherita, da zia Pina-Kusmanca e zio Toni-Sobaz. Poi nel 1968 la tanto attesa indipendenza ed autonomia. Con la Cinquecento blu e la benzina a meno di cento lire a zonzo per incontrare, conoscere i luoghi, la gente, il mondo istriano, da Caldana a Grisignana, da Salvore a Portole, da Albona a Pregara, dal Monte Maggiore a Catoro, da Capodistria a Fiume, da Pirano a Lubiana. dalla Ciciatia a Cherso. Ad assaporare il piacere di una giornata estiva trascorsa ad incontrare il mare con la gioia di vedere la propria ombra muoversi e confondersi in modo ora netto, ora sfumato con la roccia bianca dei fondali con dei ricci qua e là, oppure con la sabbia e le alghe, e la sera sotto la pergola ad ascoltare prima il canto quasi sofferto degli usignoli e dei merli e poi quello dei grilli che si rincorre da una parte all'altra della vasta rodina e di seguito si espande fin giù verso la campagna e dietro la casa, nei boschi di roveri e di zupin. Alzarsi presto alla mattina ed incamminarsi lungo i trosi di Sottozer e Novagniva, sentire la musica delle cicale e dei pappafighi, ed il profumo del frumento ormai maturo, dell'erbaspagna appena tagliata, pranzare con un pezzo di profumatissimo pane appena sfornato. Il mio ritorno “terapeutico” in Caldania è nato e si è sviluppato così, un ritorno curioso ed in punta di piedi, anche per fermarsi ed ascoltare. Perchè come ha cercato - spesso invano - di farci capire quel grande poeta che è stato Ligio Zanini, l'Istria, terra di fughe e di approdi, di incontri e di scontri, non è di nessuno, ma appartiene solo a sé stessa ed ha bisogno di essere amata e teneramente accarezzata.

Ritorni che mi permettevano di far riemergere gli odori della campagna, soprattutto quello del grano-formento maturo, dell'erbaspagna tagliata, dei mandorli in fiore ed il fresco odore della primavera. Quello sano e profumato di stalla e quello più acre e spesso insopportabile, del povero ed intelligente porco, grande dispensa per tutte le famiglie. Il profumo del fuoco acceso spesso alimentato con con un po’ di zupin o del pane appena sfornato, che si spandeva in tutta la casa: tornava la puzza, anche questa diversa da quella di Opicina, degli scarichi del ficio o del combi e del motorin Tomos. I primi viaggi sul carro tirato da Bruna c/o Legra, per raggiungere i campi di Similitia, Rusuine, o con le botti da riempire con l'acqua potabile da versare successivamente in cisterna, su fino alla spina di Fatria; le prime uscite con le armente da portare a pascolar ed i tempi cadenzati dai passaggi della corriera che da Trieste e Capodistria avrebbe raggiunto prima Buie e poi Pola.

I sapori decisi della cucina, le luganighe affettate come salamini, le frittate con sparisi che provocavano un odore del tutto particolare quando si andava a far pipì, le pizurche raccolte sui prati rasati dalle mucche al pascolo, e cucinate sulla piastra del sparghert, il pane mangiato ancora caldo, la pasta sempre stracotta o la polenta condita con il pomodoro fritto. Il levero cucinato in tecia per ore ed ore ed ubriacato con dosi massicce di malvasia: le fiere e le grandi "feste" rituali del mondo contadino. Quella del porco, o forse sarebbe meglio dire, la festa per tutta la famiglia e gli amici: quella della vendemmia, quella della mietitura. Una cosa che non mi sono purtroppo perso per moltissimi anni, è stata quelli della edificazione della meda, dico purtroppo perché per la mia altezza ero atteso al polveroso e … non per me lieto evento.

I suoni belli come quelli del canto degli uccelli, del merlo, dell’usignolo oltreché, dei grilli e delle cicale, e tra il bello ed ... il fastidioso alcune mattine, quello del gallo, ma anche quello allarmato ed angosciante del maiale che, trascinato a forza dalle possenti braccia degli zii, si avviava cosciente al patibolo.

 

IDENTITA'- INTEGRAZIONE: UN CAMMINO DI SPERANZA

Nel 1982, in grave ritardo, ma finalmente, voluto da intellettuali quali Tomizza, Miglia, Pesante, Spadaro, Depangher, ma anche gente come dire semplice, “normale", viene fondato il Circolo di cultura istro-veneta "Istria", con sede in periferia e proprio in un Borgo istriano quello di Sistiana. Un’esperienza quella del Circolo "Istria" per me fondamentale. Il Circolo, nato per favorire e mettere in relazione la cultura e la presenza istriana, togliendola da una sorta di isolamento-rimozione-strumentalizzazione in cui si era ed era stata posta, e per favorire ed approfondire una politica del dialogo e confronto con le altre realtà culturali presenti a Trieste, si pone, come obiettivo anche quello - una vera novità nel panorama dell'Associazionismo dei profughi istriani - di riallacciare i rapporti con la Comunità italiana ed in generale con il mondo dell'Istria, Fiume e Dalmazia. Una situazione non facile per noi del Circolo, visti spesso a Trieste come dei comunisti filo-jugoslavi ed in Istria come irredentisti-fascisti. Un lungo viaggio, un lavoro faticoso appassionato e coerente e perché no, intelligente e competente quello del Circolo snodatosi in 20 anni di attività. Lavoro spesso disprezzato, quasi sempre controcorrente ed ignorato (il silenzio vi seppellirà !?!), che a mio parere ha segnato nel profondo e più di quanto noi stessi si possa pensare, queste nostre affascinanti, complesse e difficili terre di confini. Ieri con progetti ed obiettivi chiari - proposte per una convivenza possibile (1985) e quella per una collaborazione (1988) altrettanto possibile ed auspicabile - con la necessità di investire sulla cultura, sui giovani, nella formazione e sul territorio, oggi in tutta onestà possiamo dire che siamo stati come dei tenaci, esperti e bravi uomini di mare che hanno impostato una rotta e nonostante tutto (I tanti garbinazzi, vero caro Ligio), hanno cercato di avvicinare, all'approdo nel porto desiderato il nostro bragozzo. Non siamo ancora arrivati, ma se non ci saranno ulteriori non gradite difficoltà ci stiamo avvicinando. La banchina della Casa comune europea è ormai vicina e ci sta aspettando. Casa comune, ma di quale Europa? Non certo quella delle piccole patrie chiuse ed intolleranti, o quella che si fonda solo sull'economia e la moneta unica. Si quella politica che crede nell’approfondimento e nell’allargamento che riscopra i valori ed i principi e diritti di cittadinanza, di ingerenza democratica e che deve avere un supplemento d’anima. Nel nostro impegno di ieri e di oggi quindi, non solo la necessità dì approfondire la cultura del dialogo e confronto, ma anche e direi soprattutto una politica che favorisca l’integrazione e nello stesso tempo tuteli le specificità, diversità presenti, come autentiche e concrete risorse e ricchezze. Un lungo viaggio con dei riferimenti precisi, Fulvio Tomizza e Alex Langer come un autentico faro.

"Ho vissuto fino all’estremo l’assurdità dei nazionalismi ....(Quindi) non mi sono mai identificato bene, né con l'Italia, né con la Jugoslavia. Io ho sangue slavo, mentre la mia educazione è tutta italiana. ... ET - ET, e l'una cosa e l'altra, l'essere italiano che non escluda l'essere croato e viceversa. Qui si può essere l'una e l'altra. Si dovrà trovare una ricetta per realizzare questo..." (dal libro di Fulvio Tomizza "Destino di frontiera". 1992). 21 maggio 1999.

"La convivenza offre e richiede molte possibilità di conoscenza reciproca. Affinché possa svolgersi con pari dignità e senza emarginazione, occorre sviluppare il massimo possibile il livello di conoscenza reciproca. Più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci comprenderemo: ... Imparare a conoscere la lingua, la storia, la cultura, le abitudini, i pregiudizi e gli stereotipi, le paure delle diverse comunità conviventi, è un passo essenziale nel rapporto interetnico.

…I pesi mi sono divenuti insopportabili, non ce la faccio più. ... Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto..." (dal libro di Alex Langer "Il viaggiatore leggero". 1996). 3 luglio 1995.

Questo è stato sempre il nostro impegno ed il nostro obiettivo di donne e uomini con un rapporto di giusta curiosità ma anche sofferto, con molteplici culture, aperti all’identità/alterità, ancorati e fedeli al proprio territorio, agli affetti ed amori semplici, ai valori di solidarietà e giustizia, in queste complesse e tormentate regioni dell’Alto - Adriatico. Un percorso vissuto con entusiasmo e passione, contrassegnato dalla volontà, dalla generosità, dall'ostinazione e mi auguro anche dall'intelligenza e dalla coerenza di voler esplorare le frontiere, abbattere i muri, costruire ponti, rapporti umani. Un percorso difficile ed accidentato, spesso controcorrente, condiviso da pochi, teso a recuperare un rapporto di affetto con la terra nella quale affondano le mie radici, con la gente istriana desiderosa di riincontrarsi, rimasta perché ancorata alla propria terra ed il mare, semplicità della vita quotidiana, ai nostri vecchi che non se l’erano sentita di partire.

L'Istria delle multidiversità: quella della finestra della soffitta di Caldania, che mi ha insegnato soprattutto a costruirmi una vita attenta ad ascoltare, curiosa dell'altro. Come credo abbia favorito l'affermarsi di una sensibilità particolare di uomini e donne di confine ed insegnato proprio con la sua storia, a sentire in anticipo oggi, i segnali premonitori dei rischi di profonde ulteriori lacerazioni ed estese conflittualità. L’Istria di Caldania e di Materada, i valori dell'Istria del misto, del bastardo, della non appartenenza, di una terra conquistata attraverso un duro lavoro, è stata ed è al centro della mia cultura, della mia visione del mondo. Non esiste un presente, senza un passato ed un presente senza un futuro. La vita non è solo apparire e non essere, non è solo immagine, convenienza, interesse.

La mia vita così come quella di molti istriani della seconda generazione è stata un lungo viaggio, sofferto e gioioso. Un viaggio attraverso mezzo secolo di grandi cambiamenti. Una vita con profonde radici nell'Istria e che soprattutto in questi ultimi vent’anni è stata

È stata vissuta, potrei dire contemporaneamente, serenamente e non conflittualmente, tra la campagna istriana, la città di Trieste ed il mondo. Forse anche tutto ciò mi ha reso una persona che vive la propria esistenza con passione, generosità ed entusiasmo, che cerca la mediazione, ed ha scarsa propensione o forse coraggio per contraddire. Che sente sempre più forte il bisogno di fermarsi ad ascoltare ed a fronte della fretta e soprattutto della voglia di fare, affiora sempre con più forza in me il desiderio di fermarsi un attimo. Per riflettere sul domani, per pensare e mettere insieme i fili dei pensieri di ieri, dell'altroieri e dell'oggi.

Sopporto sempre meno le grandi e piccole violenze, quotidiane anche quelle verbali, il potere violento che si consolida distruggendo l'altro e credo sempre di più nella forza che deriva dai valori condivisi, dalle idee in cui si crede (sono morte, forse, le ideologie, ma grazie Iddio non le idee!) nel lavoro, nella lealtà e nella coerenza. Anche se spesso questi valori sono visti come elementi di debolezza. Credo che soprattutto in queste nostre regioni e dalle mille sfumature (dove proprio non si può dividere il mondo in bianco o nero) sia necessario operare con serietà, conoscenza e coerenza e non con superficialità. Non credere che le parole siano fatti, ma restino solo quello che effettivamente sono, cioè parole. Questo ha voluto essere anche il breve racconto di una piccola storia personale: la storia di uno che è cresciuto tra il rovere ed il leccio, tra il mare e il Carso, tra gli ulivi, le viene e la terra rossa, le cime bianche e rosa ed i prati verdi del Sud Tirolo, tra le melodie dei canti e dei concerti delle cicale, dei merli e degli usignoli, di Bob Dylan e degli Istranova, tra i Croati e gli Sloveni, sempre e comunque alla ricerca della propria identità. Identità da non vivere in una egoistica autosufficienza, in una sorta di particolarismo esclusivo ed escludente dell'altro. La storia della mia terra della mia gente, i miei quasi diciannovemila giorni vissuti, mi hanno reso quello che sono ed insegnato soprattutto, che quelle escludenti possono essere scelte pericolose. Le tragedie di questo secolo sono li a testimoniarlo con forza. Basta volerlo capire. Con rammarico e preoccupazione vedo spesso oggi un mondo in attesa, che non crede, non vuole o forse meglio non può costruire con le proprie mani il proprio presente ed in futuro. Per questo all’inizio del Terzo millennio dobbiamo cogliere la sfida di un presente che invita ad andare in una direzione a lungo e da molti attesa e che potrebbe eliminare le condizioni di fondo che in questo nostro secolo hanno provocato solo violenze grandi e piccole, esodi, morti. Eliminare le condizioni, che hanno alzato muri, fin dentro le nostre coscienze: muri di ignoranze, di impari dignità, di paure, rancori, sfiducie e diffidenze reciproche. E' necessario cogliere quindi, il significato e le prospettive nel nuovo scenario europeo, i segni dei tempi ed operare di conseguenza. Riempire di contenuti i vuoti che si sono aperti e favorire, ripartendo da valori comuni da condividere, un presente ed un futuro di collaborazione, integrazione e sviluppo, di pace e giustizia. Credere nei principi di cittadinanza europea per raggiungere una vera democrazia delle culture. Partire dall’esperienza istriana proprio e purtroppo perché esempio concreto ed ancora vivo, di una politica che nel secolo appena trascorso ha prodotto processi dì omologazione-globalizzazione e di livellamento delle diversità locali. Prima attraverso le ideologie che hanno portato con sè tragiche fughe e traumatici approdi, e poi offesa da una scelta di industrializzazione forzata con forti indirizzi etnico-politici (vedi ad esempio “divertificio” costiero). Un’Istria ma direi anche un Alto -Adriatico che necessitano di un progetto di sviluppo sostenibile per un’area sistema integrato, proprio perché rischiano oggi di essere vittime della nuova ideologia (sembra proprio sia l'unica ormai rimasta, fare soldi tanti e subito, mordi e fuggi) - mito contemporaneo, il mercato globale.

Per impostare la rotta per il nostro domani, dobbiamo a mio parere ricorrere ancora una volta a Fulvio Tomizza:

"...Ciò che resta da fare al Circolo, nella prospettiva che si apre con l'entrata in funzione delle Repubbliche di Croazia e Slovenia, sarà di costituire un preciso punto dì riferimento per gli istriani divisi di recente da un nuovo confine, i quali anelano a sviluppare un nuovo ruolo tra le etnie storiche dell'Istria per una convivenza non più soltanto ideale, ma finalmente attiva a tutti i livelli, non ultimo quello economico. In questo clima sarà secondo me possibile giungere all'atto che veramente poserà una pietra sopra traversie trascorse; intendo dire il ritorno nei luoghi di origine di tutti quei profumi che sentono nella terra istriana un punto di forte richiamo per una rifondazione della loro esistenza".

In questa direzione dobbiamo cogliere la sfida per costruire insieme la nostra Casa Comune, per questo chiudo con una proposta. Quella dì dare avvio proprio qui in queste nostre regioni dai mille confini, alla costituzione di un movimento politico transfrontaliero e transnazionale per un Forum Politico EuroMediterraneo.

 

Bolzano-Bozen, 5 luglio 2001

Euromediterranea 2001-exodus

 

(Marino Vocci, era all'epoca sindaco di Duino/Aurisina-Devin/Nabrezina)

 

 

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