Fondazione Fondazione marino vocci

Statuto C.d.A. (Consiglio d'Amministrazione) & Revisori Comitato Scientifico-Garanzia Staff Programma attività Relazioni finali bilanci consuntivi Elenco contributi pubblici Ich trete bei - mi associo Quaderni della Fondazione bacheca 2005 bacheca 2006 bacheca 2007 bacheca 2008 bacheca 2009 bacheca 2010 bacheca 2011 bacheca 2012 bacheca 2013 bacheca 2014 bacheca 2015 bacheca 2016 bacheca 2017 bacheca 2018 bacheca 2019 bacheca 2020 bacheca 2021 bacheca 2022 Bergamaschi Paolo-info Mezzalira Giorgio Info memoria adelaide aglietta andreina emeri anna segre anna bravo lisa foa renzo imbeni marino vocci
giuseppina ciuffreda José Ramos Regidor clemente manenti simone sechi Irfanka Pasagic findbuch - archivio Comunicati Stampa LAVORA CON NOI Elenco contributi pubblici
RE 2009-giardino dell'Arca (18) Spazio all'integrazione! (12)

Marino Vocci: Dall'Istria ad Haiti

26.7.2011, Rivista Panorama, luglio 2011

Buongiorno, ciao! Fin dai primi anni di età e parliamo quindi dei primi anni cinquanta in Istria, mia madre mi ha sempre raccomandato, direi imposto, di salutare tutte le persone che incontravo. Ricordo ancora i rimproveri di mamma Lina quando qualcuno le diceva che non l’avevo salutata (lo dico al femminile perché spesso era proprio una donna) pur avendola vista e incrociata.

Così in tutta la mia vita nel corso di una giornata ho detto decine e centinaia di volte, buongiorno: oppure con l’avanzare degli anni sempre più spesso ho salutato con un amichevole ciao e poi un più distaccato e vago salve, a centinaia di migliaia di persone. Quella del salutare le persone è stata ed è un’abitudine che ho sempre mantenuto e poso dirlo con piacere, con gioia ; anche se nel corso degli anni le risposte delle persone che salutavo sono cambiate e e sono state diverse. L’amichevole ciao, quello di ieri come quello oggi, è stato quasi sempre ricambiato e spesso anche con un lieve sorriso

Il buongiorno detto ai parenti agli amici ai compaesani che incontravi all’uscita da casa, ma anche alle persone che salutavi dopo averle viste alcune volte in attesa davanti all’edicola oppure a bordo del tram, o di primo mattino lungo la strada per andare a scuola e al lavoro, ieri era quasi sempre ricambiato. E per le persone “amiche” con il saluto c’era spesso anche la domanda “picio come te sta? come va con i tu? me raccomando saludemeli”. Oggi sempre e più spesso purtroppo, se è ricambiato il saluto è freddo e frettoloso un …giorno detto a denti stetti, senza nemmeno sfiorarti con lo sguardo, con diffidenza e indifferenza. Spesso la persona nemmeno ti rispondesi continua a parlare al cellulare, si gira dall’altra parte o quasi indispettita, tira dritto e allunga velocemente il passo per allontanarsi più velocemente. Alcune volte ho avuto anche delle risposte stizzite, direi quasi infastidite e cattive, del tipo “mi no la (quindi con un distaccato!) conoso? cosa la vol de mi?

Nonostante tutto, in tutti questi anni ho sempre mantenuto l’abitudine di salutare e anche quasi sempre con un lieve sorriso alle persone che incontravo. Una buona abitudine, anche perché ha rappresentato e rappresenta per me la bellezza e il piacere dell’incontro, di un piccolo gesto di amicizia, ma direi anche e soprattutto di rispetto per l’altro. Un modo per cercare, anche così, di favorire il conoscerci e di riconoscersi reciprocamente, meglio e di più.

Sono profondamente convinto che anche grazie a un semplice sorriso e a un saluto, si possono rendere questi nostri paesi, questo nostri condomini, i luoghi quotidiani d’incontro, meno freddi e impersonali, meno immusoniti e meno silenziosi. Come ha scritto anche recentemente il sociologo Ilvo Diamanti nel suo libro”Sillabario dei tempi tristi” uscito da pochi giorni e sul quale ritornerò alla fine di questo mio articolo, quelle del saluto sono piccole, vecchie e soprattutto buone abitudini, che purtroppo sembrano quasi scomparse e tutto ciò fa si che : “Le nostre città sono sempre più anonime e “liquide” e popolate da persone che si ignorano l’una con l’altra”.

Pensavo a questo mentre a Bolzano si discuteva delle moltissime e devastanti “solitudini” presenti in questo nostro mondo atomizzato e in particolare sull’importanza di costruire insieme il nostro presente e il nostro futuro. L’occasione era quella della manifestazione “Euromediterranea “organizzata dalla Fondazione/Stiftung Alexander Langer e del Premio Langer 2011 che quest’anno è stato assegnato alla memoria di Elane Printemps Dadoue e all’ organizzazione FDDPA da lei fondata. La FDDPA (Fos pou Defann DWA Payzans Aysien) si occupa fin dalla sua fondazione avvenuta nel 1985, del recupero della terra e del lavoro della terra, della formazione scolastica, della promozione sociale e delle donne e poi dopo il devastante terremoto che ha colpito Haiti il 12 gennaio 2010, anche del sostegno alle popolazioni colpite dal sisma. Un terremoto che ha provocato una situazione apocalittica! Su una popolazione di meno di 10 milioni di abitanti - in prevalenza di religione cattolica (80 %) con un’ età media 21,4 anni con un tasso di disoccupazione oltre il 40 % - il terremoto ha fatto 316.000 morti e 1 milione e 600 mila senza tetto. Come se tutto ciò non bastasse nel successivo mese di ottobre il colera ha sterminato 3500 perone e poi in novembre la situazione è diventata ancora più tragica a seguito dell’uragano Tomas.

Il tema dell’incontro in Sudtirolo era non solo quello di mettere a confronto le diverse tragiche esperienze in occasione dei disastri ambientali (terremoti, tsunami..) e di quelli industriali / provocati dall’uomo (disastri nucleari, inondazioni..), ma anche e soprattutto quello su che fare dopo questi tragici eventi. Partendo da un’amara riflessione fatta in particolare dalla giornalista triestina/slovena della RAI Barbara Gruden- ha “raccontato” per radio RAI i recenti disastri di Haiti e quello nucleare nell’ipertecnologico Giappone (marzo 2011), due dei peggiori cataclismi nella storia dell’umanità - e cioè dell’inadeguatezza dell’ONU.

Ricordando come sia dopo i disastri più recenti (Haiti, Giappone, ma anche lo tsunami di Sumatra del 26 dicembre 2004), che in quelli del passato più lontano, come pure in occasione di da quanto avvenuto tragicamente non molti anni fa a Srebrenica e Sarajevo, l’ONU ha dimostrato (confermato?), a causa di una macchina elefantiaca e spesso “mangiasoldi” e che si mette in movimento con grande difficoltà e lentezza, una diffusa incapacità di gestire le emergenze e soprattutto quelle nel gestire il dopo emergenza. Che significa innanzitutto valorizzare le risorse locali e rendere partecipi, anzi protagoniste attive ( e non “ricettori addormentati”, come è stato detto a Bolzano) le popolazioni locali; contribuire così a far si che le persone riprendano in mano il loro il proprio destino (l’amica Barbara ha ricordato che “una vita sola abbiamo”!). E così non solo a superare e ad elaborare la tragedia e il lutto, ma anche a togliere le persone da un pericolosissimo e devastante isolamento.

Sempre in occasione dell’incontro di Bolzano è stato ricordato che riflettere concretamente sul che fare dopo le grandi tragedie che colpiscono sempre più frequentemente questo nostro mondo , è parte di una giusta e doverosa educazione alla mondialità. Una sensibilità sempre più necessaria e direi indispensabile, e che deve essere parte dei valori e delle pratiche condivise di una cittadinanza attiva e di una globalizzazione desiderabile. Tutto questo significa anche che pensare alla solidarietà, non significa solo donare qualcosa e fare beneficenza, ma anche conoscere i drammi e le speranze degli altri e sentirsi quindi responsabili verso gli altri, verso tutte quelle persone che condividono con noi il Pianeta terra.

Una responsabilità questa si, veramente e necessariamente globale. A Bolzano partendo proprio da Haiti, dallo Tzunami in Indonesia e da Fukushima, dal terremoto dell’Aquila e dalla tragedia di Stava (una valle del Trentino dove il 19 giugno 1985 un’improvvisa ondata di fango ha provocato in pochi minuti 268 morti), è stato detto che dobbiamo, non solo sentirsi tutti responsabili ma capire, agire , sporcarsi le mani e soprattutto costruire insieme agli altri, il nostro comune futuro.

Verso le tragedie di questo nostro mondo invece , da un parte oltre che un abissale e sconfinato disinteresse (alla stragrande maggioranza non glie ne frega proprio niente!!!) c’è una grande distanza e dall’altra, in chi le vive, una grande solitudine. Ritorno quindi al “Sillabario” per ricordare che fatto bene Ilvo Diamanti a sottolineare come oggi anche il buongiorno sarebbe utile per favorire una relazione, un piccolo e fragile ma pur sempre un minimo legame, tra noi e gli altri. Sembra invece che questo non faccia parte del nostro vivere , preferiamo che l’altro rimanga un estraneo, forse e proprio perché ci siamo abituati a stare, a vivere e a essere soli; scegliamo sempre di più di vivere in solitudine, in una società separata, divisa, frammentata.

E così se occasione dei disastri che colpiscono donne uomini, bambini, anziani, di questo nostro mondo o c’è totale un disinteresse o al più “deleghiamo” la nostra solidarietà verso l’altro o agli addetti ai lavori (ONU, Istituti internazionali, Organizzazioni Non Governative) e/o alla solidarietà di massa (donazioni via sms, adozioni a distanza, raccolte di fondi..), nella nostra quotidianità, l’altro, il prossimo che non salutiamo, è sostituito dai (dal Sillabario) : “…surrogati elettronici che ci offrono mediazioni medianiche infinite. Promuovono apporti indiretti e impersonali. Apatici invece che empatici.”

Per questo credo che ribellarsi sia giusto, buongiorno, buonasera e cordialmenteCIAO.

 

pro dialog