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Simone Belci: appunti bosniaci 2-11 lugio 2015

15.7.2015, autore

2 luglio, Bolzano  - Bekir Halilović ha ventun'anni ed è presidente di Adopt, associazione costituita da un gruppo di giovani di Srebrenica- serbi e bosgnacchi – che si sono ispirati  all'ottavo punto del decalogo sulla convivenza interetnica, scritto da Alexander Langer nel 1993. A unire queste due figure non è soltanto l'impegno contro l'odio e la conflittualità a sfondo etnico in Bosnia Erzegovina, ma anche la ricezione della lezione che due donne straordinarie impartirono loro.
Infatti sia la madre di Bekir che quella di Langer, seppure in contesti profondamente diversi, insegnarono loro che le persone vanno giudicate non per quello che sono ma per quello che fanno (“Né tutti i tedeschi, né tutti gli italiani sono buoni o cattivi, bisogna distinguere”), che le responsabilità – anche quelle per i crimini più efferati, che rischiano di scatenare una rabbia senza confini – vanno individuate e non lasciate ricadere genericamente su “quegli altri”.
Il grande dono di queste donne ai loro figli consiste dunque nella capacità di superare la visione manichea di un mondo diviso in “noi” e ne “gli altri”, con il prezzo non lieve che questo comporta: la rinuncia alla scelta di un campo secondo criteri di natura olfattiva, che permettono di prendere parte rapidamente quando si presentano problemi complessi, che ti evitano il pericolo di rimanere nel mezzo. D'altro canto questa saggezza femminile - profonda e illuminante – sembra rendere feconda una solidarietà precedentemente scontata ed esclusiva, sembra conferirle una dignità molto più grande.
Credo che sia questo, più o meno, quanto le madri di Bekir e Alex sono riuscite a insegnare loro, usando duecento parole meno di me.

3 luglio, in viaggio..

Il camionista rumeno mi ferma perché ci sente parlare italiano e poi ha visto Tn sulla targa del nostro pullman: lui va spesso anche fino a Vipiteno. Sono contento di scambiare quattro chiacchiere con uno sconosciuto, per qualche istante sembra proprio venire incontro alla disposizione d'animo con cui intendevo intraprendere il viaggio. Ma dopo qualche battuta il mio interlocutore comincia a manifestare il suo disprezzo per la Croazia e per la Bosnia. Alla mia richiesta di delucidazioni spiega che, a differenza dei paesi di cui noi due siamo originari, si tratta di posti molto sporchi. Mi fa capire con mio sgomento che non si riferisce alle cartacce e alle lattine abbandonate sull'area di sosta dove ci troviamo, ma ai membri di una famiglia di Rom: un giovane che dorme sul prato a lato del parcheggio, una donna con due bambini che chiedono insistentemente la carità. (Mi faccio domande sull'epidemiologia del razzismo, sul rapporto tra razzismo esrecitato e subito). Dopo aver commentato, con minaccioso orgoglio, che da lui gli zingari queste libertà non se lo possono permettere, lamenta anche qualche amarezza nei confronti dell'Italia, che peraltro dice di amare molto: in quindic'anni di sacrifici in Veneto lui si è potuto comprare soltanto una Volkswagen, mentre i suoi conoscenti emigrati in Austria e Germania ora girano in Audi e Mercedes.

4 luglio, Tuzla

Quando siamo giunti a Tuzla Evi Unterthiner e Giovanni Zurzolo erano lì già da un mese. Con un gruppo di giovani locali lavoravano al “don Chisciotte”, da mettere in scena per le strade della città simbolo della resistenza multietnica. Gli attori - provenienti da percorsi formativi rigidamente accademici - si sono dovuti improvvisare cavalieri erranti e si sono procurati autonomamente collaboratori e cavalcature, chiedendo tra la gente. Per Tuzla si trattava di qualcosa di completamente inedito e all'inizio tutti li prendevano per pazzi, ma in sole tre settimane i ragazzi sono riusciti a farsi prestare un cavallo, il trenino turistico che fa il giro della città e ora sono in molti ad acclamarli al loro passaggio, snocciolando l'iperbolico elenco di titoli che hanno scelto per i loro personaggi. Ai drappelli che partivano dall'Hotel Tuzla al seguito dei cavalieri si aggregavano passanti e curiosi e alla fine la piazza dove gli attori si incontravano era gremita di persone. Ma non si è trattato soltanto di una specie di carnevale gioioso e confusionario: allo stesso modo in cui gli attori hanno dovuto rinunciare alla distanza che li separa dal pubblico, gli spettatori sono stati condotti oltre le barriere che normalmente li separano dagli estranei. Così si comincia a conoscere la strada che ivi conduce e questo ha un valore particolare in luoghi in cui l'altro viene spesso connotato in termini etnico-religiosi e considerato un nemico.
Poi, a parlarne con Evi e Giovanni, ti raccontano che quest'esperienza dai tratti romanzeschi è stata tutt'altro che rose e fiori: per contattare gli attori e per comunicare con loro sono stati costretti, per ragioni linguistiche, a ricorrere alla mediazione di una specie di giovane manager. Il rampante Ruzmir si è però presto dimostrato più interessato a percepire uno stipendio particolarmente generoso per gli standard bosniaci che non alla buona riuscita dello spettacolo. I bosniaci con cui ne parliamo ritengono che si tratti del prodotto di un'arretratezza diffusa, che scoraggia anche gli investitori che potrebbero venire in Bosnia. “Ci vorrebbe la stessa mentalità che c'è in Italia”, aggiungono. All'idea io e Giovanni trasaliamo: è molto incerto che ci guadagnerebbero qualcosa, ma di sicuro ci si rimetterebbe la lentezza, quel “polako polako” di cui i nostri interlocutori sembrano vergognarsi e che invece rende le conversazioni così piacevoli, così ricche.

5 luglio, Tuzla

Spesso silenzioso, ma indubbio protagonista di questo viaggio è senz'altro Edi. Il gruppo era costituito da più di cinquanta persone e tutti tendevano a stare con quelli che già conoscevano. Edi già nel pullman ha iniziato, col microfono in mano per amplificare la sua voce sommessa, a farci conoscere l'un l'altro, a tessere relazioni trasversali, di quelle che davvero aiutano a tornare nuovi. E l'ha fatto con uno spirito leggero, autentico, anche piuttosto burlone, con la spensieratezza propria di come mi immagino fossero le gite parrocchiali sul torpedone: scherzando sul fatto che “molte coppie sono nate a Srebrenica”, per esempio. Con la capacità di dimostrare nel quotidiano la desiderabilità dei valori in cui si è scelto di vivere, imperniando il cambiamento sulla pratica di rapporti personali ricchi, gratuiti, accurati. Là dove l'impegno non ha nulla di eroico, ma è una reazione istintiva alle ingiustizie che contraddicono questo modo di stare con gli altri. Con una naturalezza forse non molto diversa da quella con cui Valentina Gagić di Adopt ha detto che l'unico motivo per cui era contenta di ricevere il premio era che fosse intitolato ad Alexander Langer: perché loro non fanno altro che quello che ogni essere umano dovrebbe fare.

6 luglio, Tuzla e Sarajevo

Al tavolo delle ragazze ucraine ci siamo seduti casualmente, per fare colazione. Lavorano per Wizz air, una compagnia di voli low-cost che ha aperto da pochissimi giorni dei collegamenti tra Tuzla e diverse destinazioni europee. Sono state loro per prime a fare cenno alla situazione nel loro paese, dandomi lo spunto per fare alcune domande. Sostengono che nell'est del paese, certo si è sempre parlato il russo, ma nessuno si sognava di definirsi russo anziché ucraino. Attribuiscono questo repentino mutamento al martellare della propaganda: “A Donetsk non si riesce più a vedere la tv ucraina, ma soltanto quella di Putin, che fa un vero e proprio lavaggio del cervello. I cittadini di quelle aree mi sembrano diventati degli zombie”, racconta una delle hostess. Denunciano il fatto che l'esercito russo entra in Ucraina ogni giorno, tutti lo sanno ma nessuno può fare nulla, perché l'Ucraina a loro dire è sempre stato un paese pacifico, senza i mezzi per difendersi: “La verità è che la Russia vuole ricostituire un impero che arrivi fino alla Moldavia, costi quel che costi”. Poco dopo si siede con noi anche un altissimo giovane e le ragazze mi dicono di chiedere qualcosa a lui, che viene dalla Crimea: “A quanto pare sono russo”, afferma con amara ironia.
Viene il loro turno di fare delle domande e quando mi chiedono che cosa faccia il nostro brancaleonico gruppo in Bosnia racconto loro molto brevemente di Langer e del suo impegno contro la guerra in questo paese. Nel momento in cui io e Alice dobbiamo accomiatarci una delle ragazze conclude, lapidariamente: “Se continua così diventerà come in Bosnia anche da noi”.

7 luglio, Sarajevo

Durante gli spostamenti Andrea Rizza ci racconta le storie di alcuni dei ragazzi di Adopt: tra le altre quella di Nemanja e Žarko che dopo avere aderito all'associazione sono stati costretti per qualche giorno a dormire all'addiaccio, perché la famiglia non li voleva in casa. Ricorre il tema del tradimento, di cui le comunità di appartenenza accusano i ragazzi che scelgono un percorso di conciliazione e di amicizia: vengono considerati traditori coloro che, con i loro atti e le loro parole, contraddicono la narrazione monolitica che consacra il proprio gruppo e demonizza quello che gli si contrappone. Ogni elemento disonorevole viene rimosso e per questo la ricerca della verità storica insidia il mito attorno al quale queste società in conflitto si raccolgono. E queste pericolose incrostazioni della memoria rendono tanto più importante l'impegno di questi giovani e coraggiosi “traditori della compattezza etnica”, che affrontano uno stigma sociale molto duro. È necessario, allora, “che si valorizzino persone e forze capaci di autocritica, verso la propria comunità”, attraverso un sostegno esterno, che si dimostri loro di riconoscere l'importanza del loro lavoro.
Nonostante i rapporti tra bosgnacchi e serbi restino per lo più gelidi, anche in conseguenza del fatto che alcuni dei carnefici dell'11 luglio possono girare a piede libero per la città, dopo il 1995 non c'è stato più alcun caso di violenza a Srebrenica. Probabilmente è ancora forte la consapevolezza che una volta che si dà la stura alle violenze si entra in un vortice senza fine, perché a qualcuno venga voglia di regolare i conti. Irfanka Pašagić - premio Langer nel 2005 e promotrice di Adopt Srebrenica - è però molto preoccupata rispetto a quanto succederà man mano che diventeranno adulti quanti non hanno vissuto direttamente il trauma della guerra. Il rischio è che essi chiedano conto ai loro genitori dei nonni che non hanno conosciuto, delle violenze che quanti sono loro vicini hanno subito, e che la normale contrapposizione generazionale prenda una china pericolosamente revanchista. Reazione tanto più probabile in un paese economicamente depresso, dove le prospettive per i giovani scarseggiano e le classi politiche profittano del risentimento etnico. Si tratta di un passaggio al quale non ci si può permettere di arrivare impreparati, è dunque urgente progredire nell'elaborazione del trauma, trovare presto delle risposte credibili che orientino le “terze generazioni” nel senso della convivenza e non della radicalizzazione del conflitto.

8 luglio, Skočić

Il 12 luglio 1992, in questo villaggetto situato nei pressi di Zvornik, l'intera famiglia di Zijo Ribić venne massacrata da un branco di paramilitari provenienti dalla Serbia. Zijo, che allora aveva otto anni, si salva perché lo credono già morto e riesce così a sgusciare senza essere visto dalla fossa comune in cui era stato gettato: “i miei capelli lunghi erano così pieni di sangue rappreso da poterli spezzare con grande facilità, come fossero congelati”, dice. Dopo aver lungamente girovagato in stato confusionale, stremato, si avvicina a una casa. Lo accolgono due uomini con le divise dell'esercito jugoslavo, sono serbi, lo rifocillano e cominciano a capire che cos'è accaduto. Vogliono farlo curare, ma al punto infermieristico dove si recano Zijo riconosce, tra le forze paramilitari che lo controllano, alcuni dei suoi carnefici. Il bambino si aggrappa con tutta la sua forza alla gamba di uno dei due militari che lo accompagnano e che, nonostante la minacciosa insistenza della banda di lasciarlo a loro, non lo abbandonano.
Zijo oggi ci ha accompagnato alla tomba dove ha potuto recentemente seppellire i suoi genitori, mentre le ossa dei suoi fratelli non sono ancora state ritrovate. La nostra era una lunga e solenne processione per visitare dei morti che volevano essere fatti dimenticare. Così mi sono sentito molto a disagio al vedere che molti di noi hanno cominciato a scattare delle fotografie quando Zijo ha raggiunto il cimitero: mi pareva fuori luogo, perché non eravamo lì per assistere a un avvenimento, ma per celebrare un piccolo atto di giustizia. Ho l'impressione che spesso in simili situazioni guardare il mondo attraverso lo schermo del nostro smartphone, oltre a far correre il rischio di un'irrispettosa spettacolarizzazione della tragedia, costruisca una distanza tra noi e il luogo in cui ci troviamo. Come se il nostro – compulsivo, ma comprensibile – bisogno di comunicare ostacolasse una riflessione più profonda su quanto è accaduto dove ci troviamo.

10 luglio, Srebrenica

La Marš mira, marcia della pace, ha luogo ogni anno dal 8 al 10 luglio: si parte da Nezuk, non lontanto da Tuzla, e si arriva al memoriale di Potočari, percorrendo a ritroso il cammino fatto dalla colonna di uomini in fuga dall'enclave di Srebrenica al momento della sua caduta. Fu in quella marcia verso il territorio controllato dal governo bosniaco che trovarono la morte la maggior parte delle vittime dei crimini di quel luglio 1995. Il sentiero si snoda – in qualche modo inaspettatamente - attraverso un paesaggio incantevole, ancora in buona parte minato. Fa molta impressione vedere la disinvoltura con cui i partecipanti si liberano dei rifiuti gettandoli nel bosco: mi viene in mente Langer che all'inizio degli anni '90 constatava sconfortato che “l'Est non è verde”. Le case abitate da bosgnacchi sono aperte e accolgono i marciatori festosamente, preparando loro il caffè in giganteschi pentoloni. L'ospitalità e la generosità dei bosniaci sono impareggiabili: Davide, che ci ha raggiunti a Sarajevo prendendo l'autobus di linea da Verona, racconta di aver ricevuto in poche ore svariati inviti a casa dai suoi compagni di viaggio.

Per buona parte della marcia c'è un clima da scampagnata, non molto diverso da quello della Perugia-Assisi. Ma si fanno notare anche: il ragazzino bardato da mujaheddin che con la sua radio accesa diffonde a tutto volume prediche in arabo; l'onnipresenza delle bandiere della Turchia, il cui governo ha sponsorizzato molto generosamente la manifestazione. E a venire distribuite tra la gente non sono le bandierine gialle e blu della Bosnia Erzegovina, ma quelle con i gigli di Tvrtko, in cui croati e serbi non si riconoscono. Chi tutti e tre i giorni di marcia racconta che le testimonianze che vengono lette ogni sera sono cruentissime, laceranti. Forse è difficile evitare tutta questa esasperazione nel contesto della Repubblica Srpska, in cui i crimini di Srebrenica, ascritti dal Tribunale penale internazionale alla categoria del genocidio, non sono mai stati riconosciuti. Però Andrea, giovane falegname bolzanino, si sente strumentalizzato: “partecipare a questa marcia significa prendere partito, non rifiutare la logica dei blocchi”.

11 luglio, Potočari

A Potočari l'11 luglio fa caldissimo. È molto difficile trovare un posto all'ombra di uno dei pochi alberi che stanno nel perimetro del memoriale. Quest'anno sono 138 le famiglie che hanno ritrovato i loro cari e dopo vent'anni possono seppellirli. Sul palco si alternano i leader dei paesi balcanici ed europei, poi Clinton e il primo ministro turco, particolarmente applauditi. A un certo punto la folla comincia a fischiare e a gridare, in molti accorrono verso la parte superiore del memoriale, degli oggetti vengono lanciati contro un drappello di uomini vestiti di nero che fuggono precipitosamente. Cercano di proteggere il premier serbo, Aleksandar Vučić: membro del famigerato partito ultranazionalista serbo di Šešelj al tempo del guerra, Vučić aveva minacciato che per ogni serbo ucciso sarebbero stati ammazzati cento musulmani. Però, forse su pressione della comunità internazionale, era venuto a Srebrenica con intento conciliatorio, pochi giorni prima aveva dichiarato: “la Serbia condanna in modo chiaro e senza ambiguità questo crimine orribile ed è disgustata da quanti vi hanno preso parte e continuerà a portarli davanti alla giustizia”. Se è comprensibile la rabbia nei confronti di chi aveva seminato l'odio etnico, non è per nulla onorevole l'aggressione contro chi era venuto “in pace”: e finché non si può parlare è molto difficile che maturino le condizioni per capirsi. Per fortuna la maggioranza della popolazione di Srebrenica ha votato per il sindaco Duraković, che ha duramente censurato l'attacco. Vučić aveva appena incontrato le donne di Srebrenica e nessuno – ha dichiarato il primo cittadino - si sarebbe dovuto permettere di respingere qualcuno che loro avevano accettato di accogliere.

12 luglio, Bolzano

C'è un bel clima sull'autobus che ritorna a Bolzano, come da fine della scuola. Un microcosmo, questi dieci giorni che sembrano mesi. Si costruiscono amicizie, pettegolezzi, solidarietà. Abbiamo visto una Bosnia divisa, ancora alla ricerca di colpevoli e di alibi. Ma anche fioriture, rare ma anche per questo straordinariamente preziose. Tra i miei compagni di viaggio mi ha colpito la consapevolezza profonda, la concretezza e la capacità di ascoltare in silenzio dei ragazzi della generazione dopo la mia: la maggiore distanza da quegli eventi e forse l'essersi liberati di qualche fardello troppo pesante sembrano aiutare a tenere fisso la sguardo davanti a sé. È bello vedere tutti questi fiori di stoffa appuntati sulle magliette: li hanno ricamati le donne di Srebrenica in memoria dei cari che hanno perduto. Ora Andrea ci consiglia di toglierli prima di varcare il confine per evitare spiacevoli discussioni storico-politiche con la polizia confinaria della Repubblica Srpska. Speriamo proprio che diventino il viatico della Bosnia nel mondo e del mondo nella Bosnia. Sarebbe importante.

simone.belci@posteo.de

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