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Adriano Sofri: Srebrenica: Contedstato il premier serbo Vucic

12.7.2015, la Repubblica

 

Nel momento in cui la cosa sta succedendo, pensi: ecco, questa è una tragedia. Nel giorno più sbagliato, nel posto più sbagliato. I discorsi ufficiali sono finiti, al riparo dalla gran moltitudine, dall’altro lato della strada. Precedendo altri ospiti, il primo ministro della Serbia, Aleksandar Vucic, viene incautamente fatto passare in un lungo sentiero che dall’ingresso del grande camposanto sale fino alla tribuna allestita per le autorità, dalla quale assisteranno alla tumulazione dei 136 corpi appena ricomposti. La folla lo riconosce, lo subissa di fischi e di insulti, e subito dopo, dai bordi del percorso protetto dalle guardie del corpo, l’aggressione: lancio di bottiglie, sassi, scarpe, colluttazioni furibonde. Continua così fino alla sommità della pendice sulla quale è disteso il cimitero, quando Vucic viene fatto scomparire nella macchia, mentre i suoi tutori sbrigano gli ultimi corpo a corpo. Intanto i fischi e gli urli scompagnati della folla si sono raccolti nel grido corale di “Allah’o akbar”. Per i bosgnacchi, che non sono un’etnia, ma una diramazione religiosa dentro l’unico popolo jugoslavo, l’islam può significare una rivendicazione patriottica, ma quello è un grido religioso. Sono pochi, nella enorme folla, a non unirsi. Eppure è assente dalla folla qualsiasi segno di islamismo militante, che pure il frangente poteva far temere. Vucic ha 45 anni, una svelta carriera nell’ala più ignobile del nazionalismo serbista, un ruolo di ministro con Milosevic, poi una riconversione verso l’Europa, e la sconfessione graduale dei deliri della Grande Serbia e dell’entusiasmo per Ratko Mladic –il boia di Srebrenica. Uno striscione inalberato nel cimitero cita una frase del Vucic della prima maniera: “Za jednog srbina, ubit cemo 100 muslimani” –per un serbo, uccideremo 100 musulmani. Alla vigilia Vucic aveva detto cose apprezzabili, spiegando la propria decisione di venire: che “non ci sono parole per definire quel crimine mostruoso”, e che “andare a rendere omaggio alle vittime degli altri è una condizione perché gli altri vengano dalle nostre”. Ancora alla vigilia, aveva ottenuto da Putin il rigetto della definizione del “crimine mostruoso” come genocidio, nel Consiglio di Sicurezza. Sapeva dove andava. Tuttavia, ad accoglierlo, aveva trovato Munira Subasic, la presidente delle madri, che gli aveva appuntato sulla giacca il “fiore di Srebrenica”, il distintivo dalla corolla bianca e il bottone verde che lavorano a maglia. Ma avviarlo a quella impervia sfilata tra la folla in lutto è stato come far uscire l’arbitro di una partita inferocita attraverso la curva dei tifosi della squadra sconfitta e ingannata: una pazzia. Non temo il paragone con il tifo, le assomigliava, la baraonda di ieri. Una guerra mondiale può trovare la sua scintilla nello sparo di uno spiantato a un arciduca, una guerra civile può fare le sue prime prove in uno stadio di calcio, come successe qui.
Nel momento in cui la cosa succede, pensi: ecco, questo può bastare a scatenare una guerra. Vucic che fugge dal più grande monumento a un genocidio dopo la seconda guerra, Belgrado che denuncia la sfida omicida, e domani –oggi, domenica- è il giorno delle commemorazioni rivali delle vittime serbe, nei cimiteri a un tiro di schioppo da qui; e che cosa potrà succedere? L’altroieri, al passaggio dal villaggio di Han Pijesak, i carri che portavano a Potocari le bare dei nuovi cadaveri ricomposti erano stati presi a sassate da qualche sciagurato serbista –chi dice uno, chi quattro. Ma qui è un’altra cosa. La più solenne e vasta commemorazione, nel giorno più solenne, è deragliata: le fosse aspettavano i nuovi arrivati, e sono venute allo scoperto la fragilità e l’ipocrisia (una dose modica di ipocrisia è necessaria a sventarne una letale) di una tregua che usurpa il nome di pace. Su alcune magliette di giovani nel grande camposanto era scritto: “Srebrenica, we don’t forget”. Su qualche altra: “Srebrenica, we don’t forgive”. Lo slittamento da non dimenticare a non perdonare sembra leggero, ma è incommensurabile. Il capo della comunità musulmana e il sindaco di Srebrenica –Camil Durakovic, aveva 16 anni quando scampò fortunosamente al massacro- esortano con veemenza la folla a ripudiare la rabbia e isolare i gesti di inimicizia. Ammoniscono che la visita di Vucic era stata salutata dalle madri di Srebrenica: ma le madri di Srebrenica attorno a me scuotono amaramente la testa, piangono, fanno segno di no, con l’aria di dire: “Chiedi troppo”. Il fatto è che alle guerre basta una scintilla per scoppiare, e le paci non scoppiano mai, hanno bisogno di tempo, e quando finalmente lo trovano somiglia a un intervallo fra due guerre. In Bosnia, più di due. Ieri sera ho interpellato Valentina, che è di Srebrenica, è l’animatrice di “Sara”, un gruppo numeroso di donne delle due nazionalità, ed è lei stessa serba. Ha detto solo. “Poveri noi!” Noi, non vuol dire noi bosgnacchi o noi serbi. Vuol dire noi.
Il resto è già dimenticato. Tutto fiorito, il sole a picco. Anche vent’anni fa gli assassini chiedevano una pausa per asciugarsi il sudore. La lettura dei nomi dei morti da interrare, c’è anche una donna, c’è anche un cattolico. I discorsi. Clinton ha rivendicato di aver messo fine ai massacri, ha riconosciuto di aver tardato. La gente ha detto che sembra parecchio invecchiato. Laura Boldrini ha chiesto giustizia e ammonito a non cedere alla tentazione delle colpe collettive. E gli altri: hanno preferito non parlare dei genocidi in corso, dell’omissione di soccorso che si rinnova. Non afferravo tutto, così sono stato attento alla frequenza della parola: genocidio. Innumerevole. Fu necessario, il conio di quella parola. Ieri anche Obama l’ha ribadito, per Srebrenica. Matteo Renzi ripete che la sua iniziazione sta nello scandalo di quel genocidio. Io non ho dubbi sulla pertinenza del crimine di genocidio a Srebrenica. Alla vigilia, il sindaco Durakovic aveva detto: “Vucic avrebbe fatto meglio a non venire, perché la Serbia non vuole ancora riconoscere che a Srebrenica si è perpetrato un genocidio, e un tribunale l’ha sancito”. Ma occorrerà pensare al rischio che diventi una parola feticcio. Le vittime si sentono tradite se la loro sofferenza non riceva il nome di genocidio. I carnefici non possono rassegnarsi a che la loro violenza riceva il nome di genocidio. Quel nome finirà per segnare la barriera più erta per la buona volontà e la dose di ipocrisia necessarie a fare le paci

 

 

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