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Carovana europea di pace in Jugoslavia dal 25 al 29 sett.1991

1.10.1991, Rapporto al Parlamento Europeo

 

Dal 25 al 29 settembre 1991 ho partecipato alla “Carovana europea di pace”, che – promossa dalla “Helsinki Citizens’ Assembly” (con segretariato a Praga) ed organizzata dall’ “Associazione per la pace” e dall’ARCI (associazione culturale) italiane – ha attraversato gran parte della Jugoslavia, partendo da Trieste e da Skopje e concludendosi con una manifestazione finale a Sarajevo, dove al termine di una grande assemblea in piazza, con discorsi e canti in molte lingue, una lunga catena umana (“mano nella mano”) ha collegato la cattedrale cattolica a quella ortodossa alla moschea ed alla sinagoga. Circa 400 cittadine e cittadini di gran parte dei paesi CSCE, aderenti agli accordi di Helsinki ed alla Carta di Parigi, vi hanno preso parte dall’inizio alla fine, molti altri l’hanno accompagnata per un tratto o hanno partecipato ai singoli incontri o alle manifestazioni conclusive. Tra i partecipanti anche una dozzina di parlamentari (italiani, olandesi, tedeschi, spagnoli), compresi – oltre a me – i parlamentari europei Castellina (GUE), Cramon Daiber (V), De Piccoli (GUE), il vice-presidente Formigoni (PPE), Melandri (V), Rossetti (GUE). La collega van den Brink (S) è stata impedita all’ultimo momento. Il Parlamento europeo aveva esplicitamente sostenuto tale “carovana europea di pace” nella sua risoluzione sulla Jugoslavia dell’11.9.1991 (punto 18). 

Tra i gruppi presenti, tra gli altri, i “gruppi Helsinki” (NL, F, H, CS, YU, CDN, USA, B, S, GB, DK...), i verdi di molti paesi (I, D, NL, F..), le ACLI (associazione lavoratori cristiani) italiane, la “sinistra giovanile” (I), le “donne per la pace” (D, I), “Pax Christi” (D, I, NL), il “Movimiento Democracia, Paz, Libertad” (SP), esponenti del CDA (NL), PSOE (SP), PDS (I), SPD (D), numerosi comitati per la pace, gruppi per la nonviolenza, ecc. Un ruolo decisivo è stato svolto, in tutta la carovana, da Sonja Licht, jugoslava, co-presidente europea della “Helsinki Citizens’ Assembly”.

La “carovana europea di pace” si è mossa con oltre una dozzina di autobus, ed è stata accolta quasi ovunque con entusiasmo e favore. Radiotelevisione e stampa delle diverse repubbliche hanno reagito in modo differenziato: positivo, ma senza troppo entusiasmo in Slovenia, piuttosto neutro in Croazia, con attenzione un po’ fredda in Serbia, con evidente sostegno in Macedonia e Bosnia-Herzegovina; ciò può forse testimoniare che la “carovana” è riuscita a mantenere l’indipendenza della sua impostazione, senza farsi fagocitare dalle parti in conflitto. In tutte le città visitate (Opcina/minoranza slovena in Italia, Fiume/Rijeka, Ljubljana, Zagreb, Subotica, Novi Sad, Beograd, Skopje, Sarajevo) vi sono stati comitati di accoglienza, generalmente formati da gruppi locali di pace, spesso da gruppi di donne (anche madri di soldati), di intellettuali o artisti, di esponenti religiosi e sindacali, e vi si sono svolti incontri di discussione con gruppi di base, ma anche incontri ufficiali con le autorità, tra le quali i presidenti delle repubbliche di Macedonia e Bosnia-Herzegovina, un membro della presidenza slovena, i presidenti dei parlamenti di Slovenia, Croazia, Macedonia, Bosnia-Herzegovina ed il presidente della commissione relazioni esterne del parlamento serbo, presidenti o ministri dei governi (Slovenia, Croazia, Bosnia-Herzegovina), e delle amministrazioni (Voivodina). Non è stato possibile includere una tappa nel Kossovo, dove era in corso il referendum clandestino, pertanto la carovana ha espresso la sua solidarietà ed attenzione al presidente del comitato per i diritti umani, Adem Demaqi. Molti incontri si sono svolti anche con rappresentanti delle diverse minoranze, in particolare italiana (in Istria), ungherese (Voivodina), albanese e turca (Macedonia). Negli incontri di discussione si sono in genere strutturati quattro o cinque forum (situazione politica e crisi jugoslava, movimenti di pace, ecologia, donne, sindacati, dialogo inter-religioso) che hanno permesso ai partecipanti alla carovana ed ai gruppi locali di approfondire lo scambio di esperienze e vedute. In alcune città si sono incontrate anche le autorità religiose (vescovi cattolici, capi ortodossi e musulmani).

Scopo principale della carovana era appoggiare tutti i movimenti e gli sforzi di pace in Jugoslavia (a livello di cittadini e di istituzioni, governi, partiti...), sostenendo la necessità di fermare subito la guerra, cercare una soluzione negoziata del conflitto, sottolineare il valore della democrazia come presupposto essenziale per trovare soluzioni adeguate, rispettare i diritti dei popoli e delle persone, in particolare delle minoranze, testimoniare e sollecitare il coinvolgimento delle istituzioni e dei cittadini europei nella composizione pacifica dei conflitti. I partecipanti – tra i quali erano rappresentate tutte le fasce di età, e con una sostanziale parità numerica tra donne e uomini – hanno sicuramente imparato molto, legami di solidarietà si sono costruiti, esperienze sono state scambiate, impegni anche futuri sono stati presi.

Volendo riassumere alcune delle principali impressioni ricavate da questo viaggio, si può dire quanto segue:

Nelle repubbliche secessioniste del nord prevale, soprattutto in Slovenia, un atteggiamento decisamente post-jugoslavo ed anti-jugoslavo, con la convinzione che ormai si è fuori dal contesto jugoslavo e balcanico, e che l’Europa farebbe bene a riconoscere subito questa realtà. Tra i pacifisti sloveni tale impostazione è mitigata dalla consapevolezza che “nessuno si salva da solo”, e quindi si pensa che la conferenza di pace all’Aja debba soprattutto definire un metodo pacifico e negoziale per comporre il conflitto, e da questo poi si dovrebbe far discendere anche l’eventuale riconoscimento. In Croazia domina, comprensibilmente, la preoccupazione per il conflitto militare e per il ruolo dell’armata federale, e si chiede l’aiuto dell’Europa; anche le forze di pace appaiono in questo momento più solidali con il proprio governo e quindi meno capaci di giocare un ruolo autonomo, salvo piccole minoranze; nel nuovo governo Tudjman vi è persino un ministro che proviene dal vecchio “movimento per la pace” e non pare distinguersi dalla linea ufficiale... In Serbia è più netta la contrapposizione tra pacifisti e governo: mentre, per esempio, il sindaco di Zagabria ha tenuto un suo discorso ufficiale alla carovana, senza alcuna contestazione da parte dei croati presenti, il discorso del vice-sindaco di Belgrado è stato più volte decisamente fischiato dai pacifisti serbi (non tanto per quel che veniva detto, quanto per quel che non veniva detto o per il ruolo del personaggio e della sua amministrazione). Si sono incontrati molti intellettuali serbi contrari alla politica del loro governo, mentre è difficile trovarne apertamente in Croazia o in Slovenia. Ma l’influenza pubblica dei gruppi di pace che esistono in Serbia appare piuttosto limitata, e sono evidenti le difficoltà che polizia ed autorità creano a loro. Vi si aggiunge la mobilitazione che costringe molti giovani a nascondersi se non vogliono essere subito inquadrati nelle forze armate (alcuni ci hanno chiesto di assicurare l’asilo politico nei paesi europei ai giovani jugoslavi che si sottraggono con la diserzione o col rifiuto della leva a questa guerra fratricida, e penso sia una richiesta giusta).

Nella Voivodina è frequente l’osservazione (soprattutto da parte degli ungheresi) che la Serbia non può credibilmente chiedere autonomia per i serbi in Croazia o in Bosnia-Herzegovina, se non ripristina l’autonomia soppressa della Voivodina. Nel Kosovo sembra che il referendum clandestino sia riuscito (così ci ha comunicato un esponente del comitato per i diritti umani), nonostante gli sforzi della polizia di impedirlo, e che l80% si sia pronunciato per il Kosovo come repubblica a pari titolo delle altre.

Diverso dal nord appare l’atteggiamento delle forze di pace in Serbia, in Macedonia, nella Bosnia-Herzegovina: si insiste sul fatto che è impossibile tracciare confini netti e soddisfacenti tra i popoli jugoslavi, che sarebbe sbagliato disintegrare la Jugoslavia nel momento in cui l’Europa tende verso l’integrazione, si nota con preoccupazione che un concetto prevalentemente “etnico” della cittadinanza prende piede nelle repubbliche che vogliono l’indipendenza e si sottolinea che tutto ciò che in Jugoslavia è stato costruito, è frutto di uno sforzo comune ai diversi popoli che oggi non deve essere distrutto o spartito tra forti e deboli. Si insiste quindi molto sull’importanza della conferenza di pace dell’Aja (vista come unica ed ultima chance, salvo riaprire in modo frontale e forse irreparabile il conflitto armato), e si mette in guardia davanti al rischio di coinvolgere nella guerra le repubbliche più complesse dal punto di vista etnico (Bosnia-Herzegovina, Macedonia), accennando anche ai possibili rischi provenienti dai diversi vicini (Bulgaria, Albania, Grecia e naturalmente Serbia). Nel sud appare quindi molto forte la richiesta di trovare, per via negoziale, un nuovo assetto che salvi in qualche modo un tetto comune ai popoli della Jugoslavia; tale posizione ci è stata ribadita autorevolmente anche da Kiro Gligorov, presidente della Macedonia, e da Alija Izetbegovic, presidente della Bosnia Herzegovina; entrambi temono evidentemente il rischio concreto di una spartizione violenta non solo della Jugoslavia in generale, ma anche delle loro specifiche repubbliche. Evidenti anche le preoccupazioni sul ruolo dell’armata federale (e del contributo che vi danno Serbia e Montenegro), vista come minaccia ormai non più latente anche in Macedonia e in Bosnia-Herzegovina.

Unanime la richiesta di un definitivo cessate il fuoco, di smilitarizzazione del conflitto, di ritorno dell’armata federale nelle caserme e di disarmo delle diverse milizie, e di un contributo europeo alla soluzione del conflitto. Forte, a questo proposito, la sollecitazione perché l’Europa intervenga anche sul sistema dell’informazione, sostenga il dialogo inter-comunitario, sia presente con iniziative anche civili.

Concludendo questo breve rapporto, penso che la Comunità europea potrebbe e dovrebbe agevolmente fare qualcosa per dare concreta continuità ad iniziative come questa “carovana di pace”, provenienti da un’“Europa dei cittadini” capace di giocare un ruolo positivo, dove i governi forse hanno più difficoltà. Perché non offrire una radio e TV europea per la Jugoslavia, perché non impegnare – per esempio ricorrendo agli obiettori di coscienza europei che lo facessero volontariamente – un “corpo civile di pace” in Jugoslavia, per contribuire a ritessere fili di dialogo e di solidarietà, perché non invitare esponenti dei diversi popoli jugoslavi a visitare esempi di soluzioni relativamente positive a conflitti etnici in Europa, perché non sostenere – anche materialmente – il lavoro di pace che simili organizzazioni non governative possono proficuamente svolgere, come la “carovana di pace europea” ha dimostrato?

Luxembourg, 1.10.1991

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