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Barbara Gruden - La dignità del popolo di Haiti

18.6.2011

 

Haiti gennaio 2010, Giappone marzo 2011. Ormai gli amici mi prendono bonariamente in giro, chiamandomi la donna delle catastrofi. In un anno ho dovuto “coprire” due dei peggiori cataclismi della storia dell’umanità. Nel primo caso oltre 300 mila morti e un milione e 200 mila senzatetto in un paese dove già prima del terremoto la sopravvivenza era per la gran parte della popolazione un quotidiano grande punto interrogativo; nel secondo “solo” 20 mila vittime, ma con conseguenze ancora tutte da decifrare per l’incidente nucleare di Fukushima, che oltre a mettere a rischio la salute della popolazione ha messo in crisi anche il modello produttivo dell'ipertecnologico Giappone.

Due catastrofi, due pianeti che non potrebbero essere più distanti:. A più di un anno dal sisma, Port- Au-Prince è ancora un’immensa tendopoli e solo una piccola parte delle macerie è stata rimossa. A sei giorni dallo tsunami, il Giappone aveva già riparato una delle principali autostrade che collegano Tokyo al nord-est del paese. E’ per questo e per la compostezza con cui i giapponesi hanno reagito alla tragedia e seguito scrupolosamente le raccomandazioni delle autorità che in questi mesi tutti hanno elogiato la dignità del popolo del Sol Levante. E’ vero, una dignità e una compostezza che lasciano quasi increduli: nessuna fuga di massa, nessun esodo dalle zone contaminate, con gli abitanti della prefettura di Fukushima che continuano a vivere (anche se sempre più arrabbiati) a soli 30 chilometri dalla centrale che ha prodotto il secondo peggior incidente nucleare di sempre.

Una parola, dignità, che invece è difficile sentire nei resoconti ufficiali su Haiti. Ma che - per ciò che mi riguarda - è una delle prime che mi vengono in mente parlando di quella gente. Disperazione, rassegnazione, assuefazione, certo, ma anche tanta dignità: quasi nessuno che in mezzo all’ecatombe chiedesse l’elemosina; i fedeli che seppur costretti a vivere in ripari di fortuna riuscivano a presentarsi alla messa con vestiti puliti quasi immacolati; emittenti radio e televisive che con le loro povere attrezzature continuavano a trasmettere dai marciapiedi dopo che le loro sedi erano crollate; intere comunità che – in attesa degli interventi esterni o in mancanza, ancora oggi, di essi – si sono auto-organizzate per procurarsi cibo, un’assistenza sanitaria di base (anche in mezzo al colera), o un embrione di sistema scolastico. Immagini diverse da quelle, forti, esibite spesso da stampa e tv, come le risse per accaparrarsi gli aiuti dopo lunghe giornate di attesa; o i saccheggi nei magazzini crollati ma pieni di roba; o ancora i ragazzi armati che si fanno strada a colpi di machete e le intimidazioni e le violenze delle bande armate di Cité Soleil, dov’è caduta anche Dadoue Printemps.

Tutto vero, ma in qualche modo anche falso, perché rappresenta solo una piccola parte di Haiti.

Vorrei raccontare per esempio la storia di Jean Edy Gaston, che con la sua “Solidarité Haitienne” guida la comunità di Christ Roi, rione di Port-Au-Prince dove prima del terremoto abitavano 26 mila persone: qui, la grande macchina internazionale dei soccorsi è riuscita a costruire in un anno solo 60 case provvisorie di legno e l’odierna parvenza di vita civile si deve proprio all’opera degli abitanti. Il problema è che normalmente la comunità internazionale, gli stati e l'Onu passano attraverso il governo haitiano, che ha usato i soldi per la campagna elettoralemi ha raccontato Jean Edy nel gennaio di questanno - .Invece, bisognerebbe appoggiarsi sulle comunità locali, affidarsi a chi lavora sul campo per essere sicuri che gli aiuti finiscano veramente dove servono.

Jean Edy e quelli come lui non risparmiano nessuno di quelli che hanno cercato di rubare la dignità al popolo haitiano: né la classe politica locale, endemicamente corrotta dopo decenni di regimi dittatoriali o quantomeno autoritari; né la comunità internazionale che in quest’ultimo anno, con il pretesto della corruzione e dell’instabilità politica, ha stanziato e soprattutto adoperato solo una piccolissima parte degli aiuti promessi in pompa magna subito dopo l’ecatombe; né le ricette per far risollevare un paese che – deforestato e depauperato – ha abbandonato la propria vocazione agricola primaria per offrire manodopera a bassissimo costo alle aziende esportatrici. Un sistema che ha provocato l’esodo di massa dalle campagne alla capitale e portato alla nascita delle immense bidonvilles.

Ora, dopo il terremoto, centinaia di migliaia di senza casa sono tornati nelle campagne per sfuggire alla fame. Hanno trovato solidarietà – il più delle volte esclusivamente spontanea, haitiana - ma hanno anche messo a dura prova un precario sistema di sopravvivenza. Per questo, aiutare i “paysans” nella loro lotta è senz’altro uno degli impegni prioritari per Haiti, quasi quanto il difficilissimo compito di ricostruire le case e le scuole: in memoria di Dadoue Elaine Printemps, in memoria di Jean Dominique, “l’agronomo” per eccellenza… In segno di solidarietà con una popolazione che non ha bisogno di pietà o compassione, ma di veder riconosciuta la propria dignità. 

Giugno 2011

 

Barbara Gruden, triestina, giornalista del Giornale Radio Rai; inviata ad Haiti e in Giapppne, nei giorni del dopo terremoto

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