Alexander Langer Alexander Langer Racconti e ricordi

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Mao Valpiana e Michele Boato

10.10.1995, da "Il Manifesto", 10.10.1995
LA MEMORIA DI ALEX. Ciò che colpiva chi entrava in contatto con Alexander era l'attenzione che sapeva mettere nella "qualità dei rapporti". Quell'aria un po' spaesata che lo accompagnava riusciva a mettere immediatamente a proprio agio chiunque gli si avvicinasse. Ma soprattutto, Alex sapeva ascoltare. Sempre attento alle opinioni altrui, sensibile alle cose belle, conviviale, pronto ad entrare in comunicazione con chi gli stava accanto...Eppure sentivi sempre come una zona d'ombra, inaccessibile anche agli amici e collaboratori più stretti, dove una parte di sé doveva cercare rifugio dalla pressione cui era incessantemente sottoposto. Era profondamente nonviolento nell'atteggiamento verso gli altri e verso il mondo; e lo era anche nella scelta politica. Un sincero amico della nonviolenza, pragmatico, non ideologico, seppur profondo conoscitore della teoria nonviolenta. Nel panorama del pacifismo italiano ed europeo, Alex ha più di chiunque altro lavorato per la ricerca di quella nonviolenza efficace che sola può proporsi come sostituto credibile della violenza una volta che questa è ormai esplosa.

Opposizione alla guerra

Come ci confessava una volta durante la guerra del Golfo, non poteva accontentarsi di incontri più o meno rituali in cui ciascuno "metteva a verbale" la propria opposizione alla guerra. Con Gandhi sapeva bene che tra l'ignavia e la violenza era preferibile quest'ultima. Con sofferenza applicò questo principio anche al suo infaticabile impegno per la ex-Jugoslavia. Dopo aver tentato davvero il tutto (la carovana per la pace, il Comitato di sostegno, il Verona forum ecc.) piuttosto che assistere impotente al martirio della Bosnia, arrivò a proporre - lui nonviolento - un intervento "anche armato" di polizia internazionale per fermare il massacro. La nonviolenza non era per lui un principio assoluto ed astratto, ma un mezzo concreto per affrontare complesse questioni concrete. Nella scelta del fine - il bene di tutti - e del mezzo - la nonviolenza - Alex metteva sempre in gioco tutto se stesso; assumeva il peso del fine e del mezzo e le conseguenze della vittoria o della sconfitta. Allo stesso modo, piuttosto di accettare passivamente lo smarrimento, la solitudine, la disperazione, nella quale si sentiva precipitato, ha preferito scegliere la dolorosa strada della violenza. Alex ha vissuto una vita intensa e altrettanto intensamente è morto. La sua scelta, così difficile, merita un profondo rispetto. Nell'estremo gesto, nella precisione con la quale l'ha preparato, c'è qualcosa di religioso: la scelta del luogo, il libro di preghiere, la cena con gli amici qualche giorno prima, l'ordine lasciato nelle proprie cose...Un atto meditato da giorni, da settimane, forse cresciuto negli anni.

Ma possiamo far finta di niente, limitarci a celebrare il ricordo di un leader, come se fosse morto in un incidente stradale? No, quella morte è stata voluta. "Non ce la faccio più", in queste parole vi è una dichiarazione di fragilità che rende Alex ancora più umano, più sincero, più vero di quanto l'abbiamo conosciuto. Quella morte è un segnale di pericolo, un allarme gridato, una disperata richiesta di aiuto. È un segno della grande difficoltà del tempo che stiamo vivendo. Dobbiamo però farci delle domande. Com'è possibile che chi cerca riconciliazione, unità, gioia, pace per tutti, trovi per sé disperazione, impotenza, paura, solitudine, angoscia? Forse nelle parole scritte in occasione della tragica morte di Petra Kelly vi è un barlume di risposta: "Troppe le attese che ci si sente addosso, troppe le inadempienze e le delusioni...Troppo grande il carico di amore per l'umanità e di amori umani che si intrecciano e non si risolvono, troppa la distanza tra ciò che si proclama e ciò che si riesce a compiere".
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