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Alex Langer neocittadino di Sarajevo

7.4.2021, Fabio Levi

 

Vorrei cercare qui di spiegare come mai all’importante riconoscimento offerto dalla città di Sarajevo nei confronti di Alexander Langer per il suo impegno nella ex-Jugoslavia, abbia sinora corrisposto da parte delle istituzioni in Italia un interesse assai più contrastato.

 

Langer è stato un personaggio molto amato dai tanti che l’hanno conosciuto direttamente. Poi è diventato via via un’icona e anche un riferimento essenziale dell’ambientalismo e della nonviolenza, ma con grande lentezza. E’ come se la sua figura venisse riscoperta a poco a poco, man mano che su questo o quel tema ci si rendeva conto della sua ricchezza anticipatrice. In avanti sui tempi, nel suo momento - pur giocando in molte occasioni un ruolo indiscutibile - egli è rimasto molto spesso da solo e inascoltato. Ad esempio nel suo vorticoso impegno subito prima e durante le guerre nei Balcani.

 

 

Quando, dopo l’89, la crisi della Jugoslavia si fece sempre più evidente, lui era fra i pochi in Italia ad avere la sensibilità giusta per coglierne la gravità e i rischi mortali. La lunga esperienza nella sua terra di confine, l’Alto Adige Sudtirolo, gli aveva insegnato quanto precaria potesse essere la convivenza fra gruppi umani con lingue o culture diverse insediati sullo stesso territorio. E quanto le differenze fra simili potessero diventare le più accanite, in assenza di un’opera adeguata di prevenzione e di cura.

 

Bisogna ricordare il clima di allora: il sollievo o la disillusione - a seconda degli schieramenti di appartenenza - per il collasso del socialismo reale, il senso di superiorità di un occidente europeo ricco e poco propenso a condividere i propri privilegi con i nuovi arrivati dall’Est, il fastidio per i focolai di insicurezza e di crisi tanto più se a un passo da casa propria. Meglio per tanti girare la testa dall’altra parte, e - ad esempio in Italia - trincerarsi contro la temuta “invasione” degli immigrati albanesi o lasciarsi prendere dalle ubriacature provocate dalla comparsa di Silvio Berlusconi.

 

 

Langer no. Non dimenticava certo le convulsioni di un’Italia scossa anch’essa dalla fine della guerra fredda, ma guardava più lontano, più in grande: nutriva ad esempio molta diffidenza e preoccupazione nel ’91-’92 di fronte alla corsa verso l’indipendenza dei nuovi stati, che rivendicavano un’esistenza autonoma nella crisi della Federazione jugoslava.

 

Da sempre cittadino europeo e da poco deputato al Parlamento di Strasburgo, era nella posizione più adatta per cogliere la dimensione traumatica di quanto si stava preparando. I Balcani si riproponevano come luogo di disequilibrio fragile e pericoloso per l’intero assetto del continente. Eppure, fra i politici del nostro paese e non solo, prevaleva un senso di presuntuosa autosufficienza, se non di semplice ignoranza, ed erano in pochissimi a dare retta a quel verde ex-sessantottino un po’ italiano e un po’ tedesco.

 

Lui intanto era abituato a muoversi prima di tutto nella società civile e non esitò ad andare direttamente oltre Adriatico per annodare legami fra i brandelli di un paese che si stava disintegrando: con la Carovana della pace che nel ’91 valicò confini ancora permeabili, e poi via via fino al Verona Forum - un inedito spazio comune di confronto e di iniziativa politica -, quando però la crisi era oramai precipitata troppo in fretta e la guerra costringeva all’impotenza anche i più volenterosi.

 

Tutto questo a pochi passi da un’Italia, e da un’Europa d’Occidente, che dopo cinquant’anni stavano sì scoprendo finalmente il genocidio contro gli ebrei, ma - prese da improvvisa presbiopia - avevano lo sguardo annebbiato sulla realtà a loro più vicina.

 

 

Colpisce per tutto il periodo dal ’91 al ’95 la determinazione con cui Langer, e non molti altri con lui, si servirono di ogni mezzo per seguire da vicino - quanto più possibile dall’interno - le vicende di un mondo spaccato da numerosi fronti di guerra; e viceversa la condotta degli stati, e fra loro quello italiano. Una condotta dettata da interessi concorrenti, dall’indifferenza, dalla sottovalutazione delle possibili conseguenze del conflitto e da un’attendismo pericoloso e suicida.

 

Colpisce la capacità di uno come Langer, semplice individuo anche se deputato di un Parlamento dotato peraltro di poteri assai limitati, di padroneggiare via via i termini essenziali della situazione, tanto da misurarne momento per momento potenzialità e rischi. E viceversa l’assenza di iniziativa della politica italiana, frutto probabilmente di scarso interesse e di una sostanziale incomprensione. Come pure il manifestarsi di un’ampia solidarietà per le sofferenze delle popolazioni nei Balcani in molti settori della società del nostro paese, in assenza però di una capacità altrettanto diffusa di cogliere la dimensione politica di quanto stava succedendo.

 

 

Senza contare la forte dissonanza fra le posizioni di strettissima minoranza come quelle di Langer e gli intenti di chi governava le politiche degli stati europei, riguardo alle iniziative da prendere per porre fine ai massacri in corso nei Balcani e a una crisi destinata a incancrenirsi oltre ogni limite.

 

Molto presto Langer si rese conto che senza un intervento esterno di polizia internazionale difficilmente quella deriva si sarebbe fermata. Poi via via le circostanze trasformarono quella consapevolezza in un’urgenza improcrastinabile. Tanto più dopo la strage ad opera delle milizie serbo-bosniache di 71 ragazzi a Tuzla e il grido di Selim Beslagic, sindaco di quella città, scagliato contro l’irresponsabilità dei governi europei: “Voi state guardando e non fate niente!”.

 

Pure le modalità e i termini dell’azione auspicata si vennero delineando più precisamente con il passare del tempo.

 

Anche se per quelle sue posizioni Langer fu messo in croce da un buon numero di pacifisti e trattato come un guerrafondaio da un luminoso paladino della nonviolenza come Chirac.

 

Quell’intervento militare sarebbe poi venuto, ma fuori tempo massimo e al prezzo del genocidio a Srebrenica; e quando lo stesso Langer non sarebbe più stato lì a constatare quegli esiti di indicibile devastazione della guerra, che pure aveva temuto, e le clausole deludenti di Dayton.

 

Una solitudine dolorosa la sua, fino all’ultimo.

 

Intervento di Fabio Levi, in occasione del webinar "Cittadino di Sarajevo. A. Langer, i Balcani, l'Europa, tra passato recente e futuro prossimo", 7 aprile 2021.

 

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