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Luca Cirese: L'arte della convivenza di Alex Langer

22.2.2020, l'autore

Oggi può essere molto prezioso ritornare all'esperienza esemplare di sperimentazione della convivenza inter-etnica praticata dall'ecologista Alexander Langer, perché con la sua carica di pragmatismo e utopia ci può guidare nel “fare pace tra gli uomini” di fronte agli odi e alle paure che caratterizzano i nostri tempi.

L'impegno di Langer per la convivenza comincia in Sudtirolo già nei primi anni Sessanta, quando, racconta lui stesso, «si saltava in aria e ci si odiava»1: fin dagli anni Cinquanta la zona è percorsa da decine di attentati compiuti per rivendicare l'autodeterminazione della minoranza tedesca. Una pratica di lotta che per più di trent'anni si rivolge sia contro i simboli del dominio italiano sia contro bar italiani, caserme, tralicci e case popolari, edifici che nell'immaginario degli attentatori sono l'emblema della “marcia della morte”, cioè della “sommersione etnica” causata dall'immigrazione italiana nella regione2. Ed è proprio con l'inizio degli anni Sessanta che l'escalation raggiunge il suo apice: tra l'11 e il 12 giugno, durante la Festa del Sacro Cuore, avvengono quaranta attentati contro impianti di produzione e trasmissione di energia che provocano centinaia di milioni di lire di danni. A compiere quella che passa alla storia come la “Notte dei fuochi” è stato il Fronte di liberazione del Sudtirolo (BAS), con una cellula sia in Italia sia in Austria3: un mese dopo, un giro di vite porta all'arresto - e denunce da più parti di torture4 - di vari esponenti del gruppo; nonostante vi siano anche due morti - Franz Höfler e Anton Gostner5 – gli esponenti delle forze dell'ordine vengono tutti assolti e alcuni perfino encomiati, mentre in Sudtirolo il Governo italiano vara un coprifuoco notturno verso gli obiettivi sensibili.

È in questo contesto di grande violenza e odio reciproco che muove i primi passi l'ambizioso e insieme pragmatico progetto di Langer e di alcuni suoi amici, un gruppo misto italiano-tedesco-ladino che ha l'obiettivo di «sperimentare la convivenza in piccolo»6; impolitico e senza nome né visibilità pubblica, è formato da quindici ragazzi e ragazze, provenienti sia dai licei che dagli istituti tecnici; per lo più cristiani, sono tutti insofferenti al clima di tensione e di scontro aggravato dagli attentati e vogliono costruire uno spazio di convivenza al di fuori degli opposti fautori delle “gabbie etniche”, i neofascisti italiani e l'SVP, il partito del popolo sudtirolese7. Centrale è la pratica regolare di incontro, occasione per studiare insieme la storia della regione e parlare dei torti commessi e subiti. Il gruppo pratica quello che Langer definirà trent'anni dopo «una lealtà aperta a più comunità»8: una lealtà di cui è esercizio quotidiano la scelta, compiuta da Alexander proprio in questi anni, di utilizzare il nome “Alex”, per evitare di essere chiamato “Alessandro” dagli amici italiani.

Con alle spalle il “gruppo misto”, Langer sarà una delle figure centrali, insieme a Siegfried Stuffer, Josef Schmid e Josef Perkmann, di un'iniziativa editoriale sudtirolese, espressione dei giovani dissidenti di lingua tedesca: è la rivista di sinistra “Die Brücke”9, che uscirà tra il 1967 e il 1969, e che fin dal nome - “Il ponte” - racconta il suo stile, praticato ospitando dal giugno del 1968 articoli in lingua italiana. Comune è l'idea che muove entrambe le esperienze: “Conoscersi, parlarsi, informarsi, inter-agire: più abbiamo a che fare gli uni con gli altri e meglio ci comprenderemo”, per usare il terzo punto del Decalogo, scritto durante la guerra civile in ex-Jugoslavia ma la cui saggezza nasce innanzitutto dall'esperienza sudtirolese.

Per comprendere appieno la radicalità di queste esperienze, è necessario ricordare che Langer, pochi anni prima della nascita del gruppo misto, temeva, proprio come il resto della comunità di madrelingua tedesca, l'”assimilazione”, tanto che vedeva un «cedimento del fronte etnico»10 nell'uso dell'italiano in casa sua. È anche da questo che Alex matura la sua concezione, secondo cui la cultura della convivenza non si deve tanto nutrire di ragioni ideologiche e etiche ma essere scelta perché desiderabile e utile.

L'esperienza di essere minoranza in Sudtirolo, racconta, gli ha permesso di andare “a scuola di identità”, insegnandogli il «senso del “noi”»11, ma anche a non giudicare - complice l'insegnamento dei genitori12 - le persone in base alla propria appartenenza. Langer matura così un convincimento che si porterà dietro tutta la vita13, che le radici - ciò che fa sentire le persone a casa – vadano rispettate, tutelate e sviluppate insieme, però, ai diritti degli individui: «le persone più sradicate sono le più esposte al pericolo dell'integralismo: avere quindi delle radici - se esse non diventano delle barriere contro gli altri - può avere dei risvolti positivi per l'equilibrio e per la capacità di essere persone complete e non dei mutilati, che si attaccano alla prima protesi che trovano», afferma rispondendo a una domanda nel suo ultimo intervento pubblico14.

La convivenza per Langer è lo stare insieme di modi di vivere diversi in spazi comuni: il modello, ricorda lui stesso15, è la Sarajevo prima della guerra civile jugoslava, i cui abitanti non si definivano in base alla loro identità etnica ma al loro essere membri della città. Si tratta di un'arte del convivere, di una pratica di incontro che si nutre di esperienze e progetti, senza bisogno di «prediche contro razzismo, intolleranza e xenofobia»16. E centrali, per realizzare una cultura della dello stare insieme, non sono mai le istituzioni ma le singole persone: cruciali possono essere coloro che abbiano la capacità e il coraggio di essere «disertori del fronte etnico»17, riuscendo a «saltare il muro dell'inimicizia», affrontando e dissolvendo la «conflittualità etnica»18.

Alex li chiama «traditori della compattezza etnica», persone capaci di «autocritica verso la propria comunità», senza diventare «transfughi» perché rimangono radicati nel luogo da cui si allontanano: sono loro a comporre, secondo Langer19, i gruppi misti20 - «piccoli gruppi di dialogo e conciliazione inter-etnica»21 - definiti «piante pioniere della cultura della convivenza»22: “costruttori di ponti” tra le persone, grazie a una pratica di incontro che si misuri con le contraddizioni e le opportunità della questione, fraternizzando tra nemici e rifiutando l'identificazione dello sbagliato con ciò che è diverso da sé23. È la stessa idea che porterà poi avanti il Verona Forum per la pace e la riconciliazione nell'ex Jugoslavia, di cui Alex sarà uno dei principali promotori.

In questi ragionamenti, va notato, vi è un atteggiamento sia pragmatico sia utopico. Utopico, nel senso di pieno di futuro, perché i “piccoli gruppi misti” non nascono per testimoniare ma per praticare immediatamente lo stare insieme, prefigurando una società futura di convivenza24. Ma anche pragmatico perché la convivenza dovrà essere scelta in quanto è «una delle condizioni per poter avere un futuro vivibile»25 di fronte a una prospettiva europea in cui «la compresenza di persone, di lingua, di cultura e di religione, spesso di colore della pelle diversa, sarà sempre meno l’eccezione e sarà sempre più la regola»26; secondo Langer servono infatti motivi che non la rendano «solo [una] questione dei “generosi”»27, perché le buone intenzioni, per quanto nobili, non sono «sempre efficaci nel muovere grandi masse di persone»28, né l'altruismo «regge davvero alla prova del tempo e dell'usura»29.

In più, secondo Alex, le alternative possibili a questo modello sono tutte forme di “esclusivismo etnico”, cioè la presa d'atto che la coesistenza sullo stesso territorio è impossibile. Tanto l'assimilazione e l'espulsione dal territorio, quanto le forme moderate dell'integrazione e del separatismo, non sono desiderabili non solo perché, a differenza della convivenza, esprimono tutte diversi gradi di violenza ma anche perché non hanno dato buona prova di sé30; se pensiamo al modello di fatto assimilazionista francese e ai “ghetti” che ha prodotto quello integrazionista statunitense è assai difficile dargli torto.

Condizione imprescindibile per la convivenza, va infine ricordato, è una decisa adesione alla nonviolenza. Laddove si usasse la forza, ci si muoverebbe secondo Langer su un «piano inclinato»31: il suo utilizzo, infatti, «rischia di innescare spirali davvero devastanti e incontrollabili», perché «la conflittualità di origine etnica, religiosa, nazionale, razziale, ecc. ha un enorme potere di coinvolgimento e di mobilitazione»32. Per evitare che l'escalation porti a situazioni di guerra, che, secondo Langer avvengono sempre “a valle”, serve «intervenire anche qui “a monte” [...] disintossicando cuori e cervelli»33: è necessario cioè rompere con la “logica di guerra” che in questi contesti facilmente attecchisce e che secondo Langer ha le sue basi in una definizione dell'appartenenza rigida e artificiosa. Proprio perché ne vedeva una «spinta a contarsi, alla prova di forza»34, nel 1981 e poi di nuovo dieci anni dopo Alex si oppose e rifiutò di aderire al censimento etnico nominativo in Sudtirolo, perdendo i diritti politici e non potendo dolorosamente candidarsi a sindaco di Bolzano quattro anni dopo35.

È nell'opposizione alla logica di guerra (“noi vs loro”) che troviamo con maggiore forza il suo radicale rifiuto dell'«integralismo», inteso come «voler ricondurre tutta l’esistenza a una dimensione»36; su questo rifiuto di una “logica dei blocchi che blocca la logica”37 si innesta il suo elogio del tradimento che, come ha ben scritto Adriano Sofri, «non è mai stato un passaggio dall'altra parte, ma un fermarsi nella terra di nessuno tra le due parti»38, cioè nella no man's land. Una scelta controcorrente, quella di agire in uno spazio terzo, che Langer compie nella consapevolezza che «ogni lavoro di riconciliazione richiede un grande sforzo di giustizia e di imparzialità», un concetto che «non vuol dire equidistanza, neutralità, vuol dire non stare lì per partito preso»39.

La cultura della convivenza per Langer è infatti opera di riconciliazione e di cura di luoghi feriti, è lo sforzo costante di fare la pace tra gli umani: una pace che si pratica nel parlarsi e nell'ascoltarsi reciprocamente40, a partire da pranzi e cene condivisi41. Di fronte a società che saranno, volenti o nolenti, sempre più miste e multi-etniche è da qui che bisogna ripartire.

 

 

NOTE

1Le liste verdi prima del calcio di rigore, in Alexander Langer Il viaggiatore leggero, Sellerio, 1996, p. 108.

2 Cfr. Fabio Levi, In viaggio con Alex, Feltrinelli, 2007 p. 39 e Gianni Flamini, Brennero connection, Editori Riuniti, 2003, p. 55.

3Cfr. ivi, pp. 65-66

4Cfr. ivi, pp. 70-71 e In viaggio con Alex, p. 39.

5Brennero connection, p. 78

6Minima personalia (1986), in Alexander Langer, Non per il potere, Chiarelettere, 2016, p. 34.

7Cfr. in Viaggio con Alex, p. 40, l'autobiografia di Langer citata nella nota precedente e in Dal Sud-Tirolo all'Europa (1990) (http://www.alexanderlanger.org/it/144/310).

8Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica (1994), in Il viaggiatore leggero, p. 299.

9Cfr. In viaggio con Alex, pp. 41-45.

10Dal Sud-Tirolo all'Europa, cit.

11Ibidem.

12Cfr. Minima personalia, cit., p. 31.

13Cfr. Decalogo, § 2 e 4 e Le speranze dei tanti soldati Švejk (1992), in Il viaggiatore leggero, pp. 242-250.

14L'Europa e il conflitto nell'ex-Jugoslavia (1995) in Il viaggiatore leggero, p. 314.

15 La lezione bosniaca, (1992) (http://www.alexanderlanger.org/it/34/3796).

16Decalogo, cit., p. 296

17Dal Sudtirolo all'Europa. Cfr. anche Cari studenti tedeschi: qualcuno ci chiamerà perfino traditori (1964), in Il viaggiatore leggero, pp. 29-31.

18Dal Sud-Tirolo all'Europa, cit. e Decalogo, cit., p. 302

19 La lezione bosniaca, cit.

20Cfr. Decalogo, cit., pp. 302.

21Comunità, politica, convivialità (1991) (www.alexanderlanger.org/it/32/129).

22Decalogo, cit., p. 303.

23Cfr. l'intervento di Simone Belci in Alexander Langer. Una buona politica per riparare il mondo, La Biblioteca del Cigno, 2016, p. 126 e In viaggio con Alex, p. 91.

24Cfr. Mao Valpiana, Arte e cultura della convivenza: no alla violenza e gruppi misti, in La nonviolenza per la città aperta, Edizioni Movimento nonviolento, 2017, pp. 46-7.

25Quattro consigli per un futuro amico (1994), in Una buona politica per riparare il mondo, p. 136

26Ivi, p. 135.

27La causa della pace non può essere separata da quella dell’ecologia (1989), in Alexander Langer, Fare la pace, Cierre Edizioni, 2005, p. 41.

28Cfr. Perdersi per trovarsi: la terra in prestito dai nostri figli (1986), in Una buona politica per riparare il mondo, cit., p. 88.

29Solidarietà: "i care", me ne importa, come c'era scritto sulla parete della Scuola di Barbiana (1992) (www.alexanderlanger.org/it/143/1191).

30Cfr. Dal Sud-Tirolo all'Europa e Decalogo, § 2.

31Minima personalia, cit., p. 46.

32Decalogo, cit, p. 302.

33Contro la guerra cambia la vita (1991) (www.alexanderlanger.org/it/147/437).

34Decalogo, cit., p. 299.

35Cfr. In viaggio con Alex, p. 214.

36L’Europa e il conflitto nell’ex Jugoslavia, cit., p. 314.

37Cfr. Pci, solve et coagula (1989), in Il viaggiatore leggero, p. 204.

38 Adriano Sofri, “Tradurre tutto da tutti”, “Salto.bz”, 28 maggio 2017 (https://www.salto.bz/it/article/27052017/tradurre-tutto-da-tutti)

39La lezione bosniaca, cit.

40Cfr. Quattro consigli per un futuro amico, cit.

41Cfr. Non basta l'antirazzismo (1989) (http://www.alexanderlanger.org/it/32/103).

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