Alexander Langer Alexander Langer Racconti e ricordi

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Franco Lorenzoni: Sette difficili eredità

1.7.1996, da "La terra vista dalla luna", luglio-agosto 1996
È trascorso un anno dalla morte di Alex Langer e più trascorre il tempo più risulta evidente il vuoto lasciato dalla qualità e particolarità del suo operare politico, della sua capacità di interrogarsi in profondità sul nostro tempo, operando.

Molte sono le eredità che Alex ci ha lasciato, e ogni eredità è un lavoro interrotto che chi si allontana dal mondo ci invita a continuare.

Molte eredità di Alex ci si presentano come nodi irrisolti. Sono eredità difficili perché contraddittorie, aperte, in alcuni casi laceranti. Credo che sia importante ricordare Alex in ciò che ci lascia di interrotto, perché sento che in qualche modo è là che è importante sostare. Sostare a lungo.

Una memoria attenta ai dettagli e alle relazioni

La prima cosa che voglio ricordare di Alex, che ho conosciuto moltissimi anni fa, quando lavoravamo insieme a Lotta Continua, è la sua straordinaria memoria. Memoria che non era solo di paesaggi, di volti e di nomi, ma soprattutto di relazioni.

Dopo decine di anni Alex si ricordava non solo delle persone, ma delle relazioni che c'erano tra le persone. E per conservare viva questa miniera di ricordi c'era sempre un particolare (talvolta comico o paradossale) che gli faceva tornare alla mente un momento, un episodio. Si ricordava di dettagli incredibilmente precisi riguardo a incontri o situazioni di venti, venticinque anni fa.

Desidero ricordare questa sua memoria perché ci manca e ci mancherà; perché credo che dovremmo stare più attenti anche noi alle possibilità che può offrire una memoria coltivata negli anni con cura e con affetto.

Ed è questa la prima eredità di Alex che penso dovremmo continuare a coltivare: l'imparare a stare attenti, più attenti, e a ricordare.

Particolarità delle persone e alchimie degli incontri

Peter Kammerer, subito dopo la sua morte, ha parlato di Alex come di un "costruttore di costellazioni". È una immagine precisa, che rende bene un gioco che lo appassionava molto; il gioco di quando si divertiva a pensare come mettere in relazione tra loro persone diverse, anche lontane; una sorta di alchimia a cui ha dedicato molto del suo tempo.

Alex aveva un'agendina che io ho sempre pensato infinita. Edi Rabini ha poi raccontato di questo suo indirizzario personale vastissimo, cresciuto a dismisura negli anni. Questo indirizzario per Alex era una cosa molto viva, a cui teneva molto. Per esempio, quando progettò la Fiera delle Utopie Concrete a Città di Castello, pensò davvero a tutte le persone dell'Europa dell'ovest e dell'est che avrebbe voluto incontrare e che si incontrassero nello stesso luogo. Era il 1988 ma per lui il legame con l'Europa orientale era già da tempo cosa viva e presente.

Mi ricordo che una volta, per un lavoro sull'educazione ambientale con insegnanti di lingua italiana e tedesca in Sud Tirolo, Alex mi volle fare incontrare con un pacifista austriaco assai curioso. Anche se non si stava occupando direttamente della cosa, mise una grande cura nel predisporre quell'incontro. L'incontro in verità non funzionò molto bene ai fini del lavoro, e quando glielo raccontai Alex rise. "Non sempre mi riesce di far incontrare fra loro le persone che credo si debbano incontrare" - disse-. Ma provarci, ci provava sempre. Del resto quella cura un bel frutto lo diede ugualmente, perché con il traduttore di quell'incontro, suggerito naturalmente da Alex, poi divenni amico. Del pacifista austriaco parlammo ancora in seguito, e anche in quel caso, come sempre, Alex si appassionò alla particolarità della persona, e ci divertì constatare che a tutti e due il racconto che era rimasto più impresso non riguardava tanto le sue attività, quanto il fatto che era il nipote del giardiniere di Francesco Giuseppe. E soprattutto il fatto di come lui narrava di suo nonno, che aveva passato tutta la vita a tentare di dipingere un ritratto dell'imperatore, senza riusciri. Ecco, era sui racconti dei dettagli che avvenivano per me gli scambi più belli con Alex, per la capacità che aveva di raccontare storie e riuscire a sapere sempre delle persone che incontrava qualche cosa di particolare, di personale.

Così, quando tentava le sue alchimie, Alex prendeva in considerazione delle persone qualità che ad altri erano sconosciute. E quando si trattava di proporre nomi per un'iniziativa o per dare vita a un comitato, cosa che Alex ha fatto innumerevoli volte, certamente, da politico, doveva badare a degli equilibri, a rappresentanze da rispettare. Ma, nonostante questo, lui cercava sempre di scegliere in base alle qualità individuali delle persone piuttosto che alla loro appartenenza. Certe volte gli riusciva, certe volte no, ma questa esigenza in lui era sempre presente e assai forte.

Amico dello spazio e nemico del tempo

Alex ci ha proposto tante volte, negli ultimi anni, lo slogan "più profondo, più dolce, piu lento", ma chi lo ha frequentato sa bene come il desiderio di essere "più lento" è condizione di vita che lui non ha mai trovato. In questo caso l'eredità porta il segno di una lacerazione aperta, che in modo drammatico Alex ci ha lasciato. La contraddizione tra la necessaria lentezza, il bisogno di sosta e di approfondimento e l'urgenza di agire.

Quando si progettò la Fiera delle Utopie Concrete mi aveva colpito come l'idea di conversione ecologica per Alex era l'idea di un cammino, quasi di un pellegrinaggio.

"A città di Castello - diceva - mi piacerebbe che ogni anno potessero arrivare dai diversi angoli d'Europa ecologisti, amministratori, responsabili della produzione, insegnanti ed artisti impegnati in progetti concreti di compatibilità ecologica. È lì che mi piacerebbe inviare gli amici dell'Est, perché portino suggerimenti e prendano spunti". Così diceva, due anni prima della caduta del muro di Berlino.

"Mi piacerebbe che Città di Castello diventasse, negli anni, una sorta di appuntamento laico paragonabile a quello che per secoli, sul piano religioso, fu l'appuntamento a Santiago di Campostela." In questo sogno quello che vorrei sottolineare era l'idea del cammino, perché a Santiago di Campostela ci si arrivava a piedi, dopo aver compiuto un lungo percorso.

Quando ci chiediamo perché delle idee apparentemente buone e convincenti stentino a mettere radici, dovremmo sempre ricordarci che noi viaggiamo troppo velocemente. Così facendo, quando arriviamo in un luogo per proporre qualcosa di nuovo, magari nessuno se ne accorge. Mentre quando chi arriva in una città arriva davvero da lontano e porta con sé le tracce dell'esperienza di un lungo viaggio, è più facile che colui che si vorrebbe fosse pronto ad accoglierlo riponga fiducia in lui, gli creda.

Ho riletto recentemente L'Elogio della mitezza pronunciato da Bobbio qualche anno fa. Lì si parla della mitezza come di una qualità in qualche modo antipolitica. Una di quelle virtù che non appartiene a chi esercita il potere. Quel testo mi ha richiamato una frase che Alex ha scritto a conclusione della sua breve autobiografia: "Posso dire che, rifuggendo drasticamente dai salotti e dalle presenze che mi cercano per qualche mio ruolo, vivo come una delle mie migliori ricchezze gli incontri, già familiari o no che siano, che la vita mi dona. Vorrei continuare ad apprezzare gli altri ed esserne apprezzato senza secondi fini. Forse anche per questo conviene tenersi lontani da ogni esercizio del potere."

L'eredità che ci viene da questa attitudine, scrupolosamente seguita da Alex in tutta la sua vita, ci si presenta come una difficile antinomia. Da una parte, infatti, c'è il desiderio da parte di molti di "continuare in ciò che è giusto" - come ci ha invitato a fare Alex - cercando di essere testimoni della possibilità reale di operare nel senso della conversione ecologica, intesa come mutamento concreto di atteggiamenti e di comportamenti, dall'altra parte è assai difficile pensare di potere fare questo rispettando compiutamente storie e identità altre, rispettando abitudini e comportamenti sedimentati negli anni, ch ormai fanno parte dei caratteri delle persone. È possibile essere miti e insieme efficaci sul piano delle trasformazioni personali e collettive? E come?

Alex raccontatore di storie

Un altro carattere straordinario di Alex era quello di essere un grande raccontatore di storie. Una delle gioie più grandi, quando lo incontravo, era quella di ascoltare i suoi racconti di storie del mondo. Ho ascoltato da lui storie di paesi che non hanno posto sulle carte geografiche (erano i luoghi e i popoli che Alex più amava...) e ricordo nitidamente come mi parlò del suo Sud Tirolo. I suoi racconti erano sempre pieni di personaggi veri, vivi, descritti a tutto tondo, irriducibili nelle loro diversità che Alex sapeva cogliere e tratteggiare con abilità. Conosco un solo scrittore capace di raccontare il presente del mondo con altrettanta nitidezza, cura dei particolari e profondità culturale: è Riszard Kapuscinski, un giornalista-scrittore polacco.

Questa qualità ora ci manca moltissimo perché spesso coloro che fanno politica sono tra quelli che meno sanno raccontare - e dunque ascoltare - storie. Su questo piano il vuoto culturale che Alex ci lascia è profondo.

Utopia e necessità di radici

In una registrazione di un intervento di Alex del 1988, intervento fatto ad un'assemblea del Movimento di Cooperazione Educativa intorno ai temi della Fiera che si stava inaugurando, Alex parlò con forza contro l'utopia. "L'utopia - diceva - è un modo di spostarsi in avanti, mutare di luogo. Ma l'esperienza, anche l'esperienza della trasformazione, ha bisogno di luoghi concreti. e criticava, in quell'intervento, l'incapacità troppo spesso presente nella sinistra di rispettare le particolarità dei luoghi, le tradizioni, le esperienze consolidate, in nome di progetti magari giusti, ma privi di radici.

In quell'occasione Alex confessava la sua difficoltà, come politico, di sentirsi legato ad un territorio e di potere narrare una sua storia, che non fosse solo e necessariamente collezione di storie di altri. Questa è un'altra delle eredità irrisolte che Alex ci lascia. Infatti, nel mondo, c'è sicuramente molto bisogno di persone che viaggino, connettano, mettano in collegamento persone, idee ed esperienze. Ma poi, chi opera in questo senso, in quale luogo trova radicamento e linfa? Qual è lo spazio per un proprio respiro lungo, per la riflessione e la quiete?

Si può vivere senza confini?

Un altro nodo irrisolto riguarda la questione dei confini tra gli stati, dei confini tra le persone, dei confini interni a ciascuno di noi. Alex ha battagliato tutta la vita contro i confini e ha creduto in una Europa delle regioni, in cui convivessero pacificamente culture diverse negli stessi territori.

Nei "Dieci punti per la convivenza interetnica" ha scritto: "Deve essere possibile una realtà aperta a più comunità, non esclusiva, nella quale si riconosceranno soprattutto i figli di immigrati, i figli di famiglie miste, le persone di formazione più pluralista e cosmopolita". E poi aggiungeva: "In simili società è molto importante che qualcuno si dedichi all'esplorazione e al superamento dei confini, attività che magari in situazioni di conflitto somiglierà al contrabbando ma è decisiva per ammorbidire le rigidità, relativizzare le frontiere, favorire l'integrazione".

Guardare quello che sta in mezzo alle cose era una delle qualità più spiccate di Alex. Noi però, ora, non possiamo nasconderci quanto fosse difficile quella posizione e quanto gli sia costato lavorare sempre per mantenere i legami tra le cose. E la domanda aperta, inquietante, che ci sta di fronte dopo la sua morte, riguarda la possibilità umana, personale, di vivere anche internamente senza confini.

Quando uno tenta di assottigliare all'estremo il confine tra se stesso e gli altri, quando uno si rende disponibile all'apertura all'altro, come Alex ha fatto senza remore, la sua vulnerabilità diventa assoluta. Allora anche questa ci si presenta come una eredità difficilissima da accogliere. Come lottare radicalmente contro i confini e al tempo stesso ammettere e accettare il fatto che tutti noi abbiamo bisogno di confini.

Confini che continuamente mettiamo, e che forse dovremmo imparare a rendere meno rigidi, più flessibili, con la possibilità di alzarli e abbassarli, spostandoli di continuo nelle diverse situazioni.

Credo che Alex, a un certo punto, non sia più riuscito a proteggere la sua sensibilità. Non sia più riuscito a mettere quel confine che forse avrebbe potuto proteggerlo, permettendogli di continuare nella sua vita e nel suo impegno.

Rivolgendosi a San Cristoforo, in un testo ormai famoso, Alex racconta del possente Cristoforo che si è trovato a dover trasportare al di là di un fiume un bambino. Quel compito apparentemente era semplice. Ma quel bambino era Cristo, e dunque il compito era sovrumano. Rileggendo ora quel testo mi domando se quel bambino, così difficile da portare sulle spalle, non fosse per Alex anche se stesso bambino. La sua autobiografia essenziale comincia con la frase: "Perché papà non va mai in chiesa?" E subito dopo racconta di lui, solo, bambino tedesco in mezzo a italiani. C'è solo un altro bambino tedesco nei viaggi in autobus fino alla città che lui racconta, e il piccolo Alex sente sulla sua pelle il peso della discriminazione.

Quell'infanzia, l'esperienza di una convivenza così difficile nella sua terra, faceva sì che quando Alex parlava delle contraddizioni interetniche non era mai ideologico, non semplificava mai le posizioni. Anche rispetto alla guerra nella ex Jugoslavia, fino all'ultimo Alex, pur condannando con asprezza i crimini di chi aggrediva gli inermi, si è rifiutato a qualsiasi schieramento. Pensava sempre solo a chi avrebbe potuto far comunicare, dopo la guerra, persone che sono arrivate ad odiarsi a livelli così estremi.

Ed anche questa ci si presenta come contraddizione insoluta.

La creazione come frutto di un incontro e di una intesa

Infine, poiché Alex amava molto le storie, voglio concludere questo ricordo con una immagine mitica che mi ha fatto pensare a lui.

Nel Popol Vuh, il libro sacro degli antichi Maya, il creatore non è uno, sono due. E creano le cose del mondo in un modo molto particolare. Stanno vicini, si guardano, e quando i due creatori pensano nello stesso istante la stessa cosa, in quel momento ciò che era stato pensato prende corpo e vita. Così nascono cielo e mare, stelle, foreste e animali.

Quest'idea che è la compresenza del pensiero di due esseri a creare le cose mi ricorda molto Alex, la sua volontà di connettere, il suo spirito creativo.

Mi ricorda il suo desiderio di essere ponte, di incarnare del ponte quella linea leggera che regge il peso delle pietre in virtù della sua curva, grazie all'intuizione di una forma e di un azzardo. Mi ricorda la sua esigenza di essere lì al momento della prima costruzione, sperando sempre di non dovere restare, sognando sempre di proseguire il viaggio.

Ma l'antica storia Maya non finisce qui. I due creatori creano infine gli uomini, impastandoli con la farina di mais. E gli uomini si trovano ad essere dotati di straordinari poteri: sanno vedere oltre l'orizzonte, sanno vedere oltre il tempo. Sono uomini che possono tutto. Allora, come spesso capita, i creatori si spaventano di ciò che hanno creato e decidono di mandare della polvere sottile negli occhi degli umani per limitarne la vista, così che non possano vedere tutto, non possano sapere cosa c'è oltre il tempo.

E infatti da allora, come ben sappiamo, noi uomini vediamo solo fino all'orizzonte e non conosciamo nulla del futuro.

Ho visto gli occhi di Alex sempre più arrossati nell'ultimo anno della sua vita, come avesse voluto sfidare il dolore di quella polvere che ci limita nello sguardo e nell'ascolto.

E forse la più profonda eredità che Alex ci lascia è proprio questa, la più essenziale: l'invito a continuare a guardare e ad ascoltare. Continuare ad ascoltare, ascoltare...
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