Alexander Langer Alexander Langer Racconti e ricordi

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Goffredo Fofi: chiarezza e dedizione

1.9.1995, da "La terra vista dalla luna", n. 7, sett. 1995
È stata "La terra vista dalla luna" a pubblicare l'ultimo articolo di Alex Langer, nello scorso numero. Ma con Alex il confronto e l'amicizia di alcuni di noi erano di lunga data, risalivano al cruciale '68 e alle avventure e disavventure che gli seguirono.

Alex veniva dal Sud-Tirolo e aveva studiato a Firenze, prima di entrare in "Lotta Continua", lavorando a Roma nella dirigenza del gruppo e poi abbandonandolo per entrare temporaneamente, e con molta passione e dedizione, nel mondo della scuola. Più tardi, era stato ricatturato dalla politica, a partire dalla sua regione e con l'esperienza e la speranza del movimento dei Verdi, in stretto riferimento - cosa che per lui, bilingue, era quasi ovvia - alle battaglie e alle riflessioni dei Verdi tedeschi. Era stato segnato in modo molto intenso dall'origine etnica e dalle contraddizioni della sua zona, in piccolo uno specchio o un esempio di contraddizioni maggiori, che negli anni Sessanta e Settanta potevano sembrare tra di noi molto secondarie ma che dovevano mostrare la loro centralità molto presto, quando la prospettiva più ideologica e genericamente, superficialmente "internazionalista" dei movimenti giovanili dovette scontrarsi con le mille difficoltà e diversità del reale. Era stato segnato anche dall'origine cattolica, e dalla partecipazione a Firenze ancor prima del '68, ancora ragazzo, alla vita di quel cattolicesimo di base legato al nome dell'Isolotto di don Mazzi, ma anche a quelli della Badia Fiesolana di padre Balducci e ovviamente all'esempio, allora estremamente provocatorio e penetrante, della scuola di Barbiana di don Milani.

Rispetto alla formazione dei leaderini del '68 - giovanissimi anch'essi ma molti già "deformati" dalla militanza nella Fgci o negli organismi universitari, dall'idea "togliattiana" della politica o da quella democristiana, e molti di origine certamente più borghese di quella povera di Alex - la matrice cattolico-minoritaria gli dette la possibilità di reagire alle future storture dei "gruppi" (del "gruppettarismo" come accusavano i comunisti, o del "gruppuscolarismo" come marchiavano i politologi) con un di più di solidità morale. A distinguerlo era proprio questo, che bensì lo distingueva anche dal tatticismo praticone e arruffone di altri cattolici di sinistra confluiti nei gruppi.

Le nostre esperienze di lotta furono, come si diceva, ampie e articolate, ma raramente avevano la limpidezza che sarebbe stata loro necesaria, e in esse confluivano molte tensioni disparate: un certo gusto della violenza, per esempio, e una aggressività spropositata; la lacerazione di una soggettività che il '68 aveva esaltata e i gruppi velocissimamente condizionata (di qui anche i tormenti affettivi, la difficoltà di trovare le giuste vie della liberazione individuale dentro le strade collettive, il perpetuarsi nel vecchissimo modo di un certo maschilismo nonostante le pretese alla liberazione sessuale, ecc.) e che doveva riesplodere, in forme esasperate, nel soggettivismo del movimento del '77 con la divaricazione ora tra estremismo della liberazione individuale e estremismo terrorista, un rigurgito estremo di catto-stalinismo...; un culto del leader e un verticismo nelle organizzazioni, e insomma la riproposta del "modello leninista" da cui molti di noi, un poco più vecchi, avevamo cercato in ogni modo di liberarci, o a cui eravamo stati, più semplicemente, del tutto estranei nelle esperienze passate; l'incapacità di pre-vedere quanto dalle nostre lotte sarebbe derivato, il rapporto che esse intrattenevano con la storia del paese, le cose di cui erano conseguenza e quelle cui potevano dare adito, e le conseguenze che avrebbero potuto derivarne.

Eravamo molto giovani, e molto ci può venire perdonato per questo - specialmente pensando alla miseria dei "nemici", e all'opportunismo e alla viltà dei "padri", a una loro incapacità di capire che era certamente piìu grave della nostra. Con difficoltà, con fatica, ci districammo come potemmo in una catena di responsabilità più gravi di quanto le nostre spalle potessero sostenere, e Alex fu tra coloro che seppero stare nella storia di quegli anni e dei successivi con il più giusto dosaggio tra passione e ragione, tra "prassi" e "teoria", tra senso della responsabilità e della morale individuale e del progetto collettivo.

È molto probabile che Alex sia stato aiutato in questo dalle sue convinzioni religiose. La sua partecipazione così intensa, così salda, così appassionata alle imprese in cui aveva deciso via via di dedicarsi, e ai gruppi che attorno a esse si erano andati formando, era dunque sorretta da una tensione morale che gli vietava di barare con se stesso e con gli altri come con le idee.

Alex era una persona che cercava in ogni cosa un massimo di chiarezza, e portava in ogni cosa un massimo di dedizione. Io credo sia stato questo a ucciderlo, alla fine. In questo senso, Alex apparteneva a quel tipo di "militanti" (Capitini preferiva dire "persuasi") che investono tutta la propria vita in una presenza attiva e pubblica, che però si congiunge strettissimamente, indissolubilmente a ogni scelta personale e privata. Nella militanza tradizionale (e quella dei gruppi post-68 finì per essere molto tradizionale, con l'eccezione di una parte di Lotta Continua) si sapeva distinguere molto sapientemente tra tempo di militanza, tempo di lavoro (e a volte il lavoro diventava la militanza, la militanza diventava una professione secondo, ancora, il modello leninista e togliattiano) e tempo di vita. Nel "modello" di Alex e di altri come lui l'investimento nella "militanza" era totale, o quasi totale. Non c'era modo di tornare indietro, di mettersi da parte: la scelta era fatta una volta per tutte.

È stato così che Alex ha visto e subito la difficoltà di crescere che è stata dei movimenti e dei gruppi, e ha visto e subito negli ultimi anni le difficoltà (o le viltà, le bestialità, la malafede, il disastro) della politica anche tra i suoi vicini, nei gruppi di cui faceva parte. Diciamolo: a Bolzano come a Roma come a Bruxelles; e aggiunto a questo c'era da ultimo l'angoscia della situazione nella ex-Jugoslavia, la difficoltà di poter fare qualcosa di positivo rispetto a quella situazione.

Le cose di cui Alex si occupava erano i conflitti inter-etnici e il loro contrario, la possibilità di una felice e normale, pacifica convivenza fra culture diverse, il rapporto tra Nord e Sud del mondo; il disastro ecologico e l'obbligo di reagirvi. Non è facile, su questi temi, trovare concordanza tra molti, e soprattutto molti continuano ad avere della politica una visione tuttavia con la kappa: la "politika", come scrivevano nel '68. Sono convinto che alla radice della decisione di Alex di togliersi la vita ci sia stata questa constatazione e la fatica immensa, che gliene derivava, del continuare, del persistere, del non arrendersi.

L'investimento totale sottopone a dei rischi che possono essere anch'essi totali. L'altro modello (quello amato dai vecchi "professionisti" della politica della Terza Internazionale) della "pazienza e ironia come le vere virtù del rivoluzionario" è certo più saggio, ma è davvero migliore? O non è semplicemente più opportunista? E la convinzione di molti amici credenti che sia un errore voler essere (vedi il testo di Alex che ripubblichiamo in questo stesso numero) "portatori del Cristo" e che invece si debba "farsi portare dal Cristo", è convincente, di fronte all'impellenza dei tempi e ai problemi che la storia e la società ci pongono, più decisivi che mai?

Rispondere è difficile, soprattutto per chi sa di appartenere al "modello Alex"; ma certo Alex ha incarnato fino in fondo la difficoltà di una scelta profonda e radicale. Di quanto profonda e radicale essa fosse ci si rendeva conto conoscendolo, in rare discussioni a tu per tu, piene di pudore da parte sua. La pazienza e l'ironia sapeva praticarle anche lui, quotidianamente e pubblicamente, ma la tensione era intima e quel che chiedeva a se stesso enorme.
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