Alexander Langer Alexander Langer Racconti e ricordi

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Paolo Ghezzi: La collina e i Pirenei

1.10.1995, dalla rivista "Il margine", Trento, autunno 1995
Ammutoliti di fronte all'inesorabilità di un gesto che forse nessuno aveva temuto e che forse nessuno ha voluto credere, i commentatori più autorevoli e più vicini ad Alexander Langer hanno fatto ricorso alle sue citazioni per ricordarlo com'era, e quasi per creare un cordone anestetico intorno a quella morte scelta (e insieme subita): un muro di parole che sapesse resistere all'onda di piena della disperazione, dell'amarezza, dell'impotenza che promanava insopportabile da quella colline - luogo sacro di chi non c'è più e di chi ricorda chi se n'è andato, alla Spoon River - da quel Pian dei Giullari trasmutato in scena di tragedia solitaria.
E tra le parole del Langer vivo, così dense e sagge, così "sconfitte" da quella morte, più d'uno ha ricordato la lezione umanistica di Alexander "filosofo" verde, quando diceva che bisognava rovesciare il triplice avverbio olimpico, per salvarsi.
Non affidiamoci più, nella storia umana - chiedeva anzi implorava Langer -, al "citius, altius, fortius" delle Olimpiadi (più veloce, più alto, più forte9, ma al suo esatto contrario, il rovesciamento della prospettiva "più lentamente, con piò dolcezza, più in profondità".
Bello da dire, da pensare, Alex, ma la tua cultura, la tua saggezza, il tuo umanesimo, non sono bastati a trattenerti sull'orlo del baratro. Hai voluto andarci a vedere dentro, e precipitare.
E sebbene tu abbia scelto la dolcezza di un albero di albicocche, hai tradito la tua lezione con quell'accelerazione brutale, improvvisa, "veloce": la forza lancinante di una corda tesa, la violenza insostenibile di un cappio intorno al collo, lo strappo secco di un corpo, di una vita, che resta a penzolare, tragica parodia dell'ascesa negata, cercata, impossibile.
C'è stata, certo, anche la lentezza in quel preparare - nell'anniversario della morte dle padre ebreo - una via d'uscita dal tunnel, ma poi ha prevalso dolorosamente la fretta, lo scatto bruciante nella gara finale della dissoluzione. E l'uomo che ci insegnava a rinnegare la concezione agonistica della vita, ha voluto salire su un ring e giocarsi tutto in una partita già persa con la morte.
Più lentamente, con più dolcezza, più in profondità. Il messaggio di Alex riaffiora paradossalmente e trasversalmente e inconsciamente una manciata di giorni dopo e proprio - i casi della vita - in un contesto agonistico, anzi nell'agone ciclistico per eccellenza del Tour de France. Fabio Casartelli, venticinque anni, aveva avuto un bambino due mesi prima e correva per vivere, non per morire. Nella discesa (i corridori dicono "scollinare", un altro richiamo) del Col de Portet d'Aspet, c'è una curva che aspetta Fabio da un milione di anni, e un orribile paracarro di cemento spigoloso. Uno scarto delle due ruote troppo veloci (80 o 90 all'ora?) e il suo respiro è risucchiato dall'asfalto. Lontano mille miglia dall'ombra rassicurante dell'albicocco, il sole dei Pirenei ritaglia l'immagine di un ragazzo rannicchiato come un feto, mentre un fiumiciattolo di sangue continua la discesa.
Il giorno dopo, la tappa da Tarbes a Pau (si sfiora Lourdes, ma non c'è più tempo per i miracoli) si trasforma per volontà dei ciclisti in un funerale lungo 237 chilometri. Ci mettono otto ore, un'eternità, tutti a pedalare insieme senza scatti, senza strappi, fino al traguardo dove nessuno cerca la vittoria, e passano tutti insieme i compagni di Fabio. Senza disposizioni scritte e senza teorizzazioni, il "peloton", il gruppo dei corridori, ha scelto l'unico modo che aveva per celebrare un amico morto: rallentare, assaporare nel silenzio una fatica diluita, una tristezza da bere a piccoli sorsi, senza la contropartita di una vittoria, di un premio.
Più lentamente, con più dolcezza, più in profondità: a Langer sarebbe piaciuta, la sedicesima tappa del Tour de France. Ma non ce l'ha fatta ad aspettare, ed è scappato verso il traguardo, senza che nessuno se ne accorgesse, senza un compagno di fuga e senza un inseguitore. Perché non era un traguardo qualsiasi, ma il capolinea. E il cielo sopra Firenze l'ha fatto, con gentile indifferenza, salire.

Paolo Ghezzi. direttore del quotidiano "L'Adige".
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