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Anna Bravo: L'insondabile mistero di Langer, una biografia del leader verde

18.8.2007, La Repubblica 18 agosto 2007

E' uscito da poco  per Feltrinelli "In viaggio con Alex" di Fabio Levi, una biografia di Alexander Langer, sudtorilese nato a Vipiteno da padre ebreo e madre cattolica, vicino ai cattolici del dissenso e a don Milani nella Firenze fine anni '60, poi leader di Lotta continua, in seguito fondatore dei verdi in Italia e parlamentare europeo, pacifista, o meglio pacifico. Libro bellissimo, e credo difficile da scrivere. Perché Langer è stato importante per moltissimi, fra cui l’autore, e la sua vita si è chiusa con il suicidio sulle colline di Firenze il il 3 luglio 1995. Ma anche perché il ricco dibattito storico/letterario su biografia e autobiografia non aiuta particolarmente a raccontare una persona conosciuta e amata che ha deciso di morire. Giustamente: il suicidio non è la ricapitolazione di una vita, non offre di per sé una chiave di lettura superiore. Però resta un segnale, una ferita che bisogna decidere se sfiorare o riaprire.

Di recente («Repubblica» ne ha dato notizia il 23 giugno), vari politici di Bolzano hanno respinto la proprosta di dedicargli una via: onorare un suicida sarebbe stato diseducativo. Diseducative, dunque, anche le intitolazioni a Primo Levi, Virginia Woolf, Jean Améry, Hemingway e simili cattivi maestri?

Ma a volte persino dagli argomenti più irragionevoli si possono ricavare domande sensate, in questo caso sul rapporto fra chi resta, chi non c’è più e il biografo che vorrebbe farlo rivivere grazie alle fonti e all’immaginazione. E’ un tema cruciale della scrittura biografica e di questo libro, in cui si può vedere in controluce un compendio dei limiti e delle potenzialità del genere.

Ricordo che di fronte alla morte di Primo Levi, il dolore e lo stordimento per la perdita di un padre simbolico (di un santo laico, dicevano alcuni) si mischiavano alla sensazione di essere stati doppiamente abbandonati. Per la sua fine, come se i santi non avessero diritto di morire. Per il modo, come se il suicidio gettasse retrospettivamente un’ombra sulla vita. Nell’opinione comune, Levi era l’uomo che aveva vinto Auschwitz – definizione infelice per una persona così libera dal vizio della belligeranza; l’uomo straordinario che grazie al suo lavoro di memoria aveva dimostrato di meritare la salvezza. Una visione distorta in cui la sopravvivenza non si deve al caso, come avveniva quasi sempre, ma all’eccezionalità del prigioniero; in cui, implicitamente, si lascia intendere che gli altri, i morti, l’avrebbero meritata meno. Che molti ex deportati – lo stesso Levi, Bruno Bettelheim, il principale custode della memoria itaiana, Bruno Vasari- abbiano rigettato questa ideologia, non ha impedito il suo riemergere periodico, tanto è forte l’idea che soffrire sia un merito, e sopravvivere un premio. Con quali effetti appiattenti sulle biografie è facile immaginare.

Il suicidio di Primo Levi rompeva quello schema. Di qui la pulsione, comprensibile in chi lo amava ma violenta, a “spiegarlo” per farsene una ragione. Di qui la non innocente ostinazione di alcuni aspiranti biografi a rovistare nella sua vita alla caccia del minimo dettaglio personale.

Su piccola scala, qualcosa di simile è successo con il suicidio di Alexander Langer, che ad alcuni è sembrato un tradimento affettivo e una resa - resa, un’altra stonata parola militaresca. Comprensibili, anche in questo caso, la voglia e il bisogno di capire cercando indizi nel pubblico e nel privato. Con il suo pensiero aperto e la sua capacità di ascolto, Alex era un leader anomalo e un padre simbolico per gli allievi delle scuole dove insegnava – a differenza di altri, era rimasto ostinatamente legato al suo lavoro - e per le persone giovani che la politica gli faceva incontrare. Molte e ininterrottamente. Langer - Fabio Levi lo mostra con chiarezza- incarnava al massimo grado il modo di vivere degli anni settanta, quel correre, spendersi, spremersi come se mancare una scadenza politica o un incontro fosse una catastrofe, e come se si attingesse a una riserva di energia senza fondo. Teneva viva una quantità di reti di relazione anche molto diverse fra loro; dove non poteva arrivare direttamente, lo faceva con cartoline, lettere, biglietti. Le differenze lo affascinavano.

C’era bisogno di persone così, e Langer lo sapeva, lui che in qualunque conflitto tentava di incrinare le barriere e costruire ponti fra le parti, ma che aveva scritto: “a volte bisogna accettare di essere chiamati traditori dai propri compagni”. E l’aveva messo in pratica. Durante la guerra nella ex Jugoslavia –Sarajevo bombardata da anni, inutili tentativi di pacificazione della comunità internazionale- era arrivato a pensare che un intervento armato dell'Onu, o della Nato a nome dell'Onu, purché il più possibile contenuto e mirato, fosse preferibile all’agonia della Bosnia; che fosse necessaria una autorità internazionale in grado di minacciare e di impiegare, oltre che la diplomazia e l’integrazione economica, la forza militare, “esattamente come avviene con la polizia sul piano interno degli stati”.

Questa posizione gli era costata molto, anche nei rapporti personali. Il che chiama in causa un altro tema clou per chi racconta una vita (e per chiunque fa storia): le connessioni personale/politico, privato/pubblico.

La bulimia biografica scoppiata intorno a Primo Levi poteva farsi forte dell’importanza riconosciuta in questi decenni ai primi due poli. Una tendenza affiorata sull’onda della cultura di massa, e esplosa, con altro spirito, nel ’68 e nel femminismo, che teorizzavano la rilevanza politica dei comportamenti personali e privati. E’ stata un’acquisizione importante, capace di rinnovare il campo delle biografie e autobiografie, e di spingere quello della storia politica oltre le idee, le ideologie, i soggetti collettivi.

Ma lo scivolamento della ricerca dal privato all’intimità è altra cosa, che sottintende almeno due equivoci. Il primo è la confusione fra mistero e segreto. In ogni gruppo, in ogni famiglia, in ogni vita ci sono segreti - dunque anche in quelle che si concludono volontariamente. Il biografo può scoprirli e ritenerli decisivi. Ma intorno al suicidio non ci sono necessariamente segreti, c’è un mistero davanti al quale anche chi ha la dubbia ambizione di vedere come le persone sono fatte dentro, si dovrebbe fermare. Se non altro per il senso del limite interno a ogni lavoro e rapporto.

Il secondo equivoco è una concezione del privato come enclave dell’autenticità e della profondità, contrapposta al pubblico come luogo dell’artificio e della superficie. Fabio Levi ha raccolto documenti politici, lettere, articoli, atti del parlamento europeo, racconti di amici. Ha scelto una scansione legata più alle vicende politiche del protagonista che a quelle personali. Non si è dedicato alla caccia al tesoro dell’inedito o dell’inusitato. E ne è uscito un libro avvincente, in cui il concetto di politica si allarga a quello di sfera pubblica, e la sfera pubblica si incrocia alle passioni, ai sentimenti, all’etica. Decenni fa, in Eminenti vittoriani, Lytton Strachey, che pure è considerato un pioniere della biografia psicologica, aveva fotografato Florence Nightingale descrivendo semplicemente il suo rapporto con le autorità del Regno Unito e con i collaboratori, mantenendosi ancorato alla superficie. Che non è soltanto il luogo dello spettacolo sociale, è quel che filtra da una negoziazione fra sé e sé intorno alla propria immagine. Già una parvenza di autobiografia.

Nella sua rincorsa da una lotta all’altra, da una rete di relazioni all’altra, nel suo rapporto conflittuale con le istituzioni, Langer ha disseminato pezzi di sé nei luoghi più diversi, senza badare molto a come si sarebbero potuti combinare fra loro. Un vagabondaggio dell’identità, non raro fra quanti hanno partecipato alla stagione dei movimenti. Il contrario, mi sembra, dello sforzo di Primo Levi per costruirsi, attraverso le opere e le scelte personali, un embrione di biografia capace di opporsi preventivamente alle santificazioni e strumentalizzazoni, quasi una diffida a futuri biografi, accolta però solo da alcuni.

La storia di Langer rischia invece di non potersi consolidare per un eccesso di mobilità e fluidità, che l’amore degli amici per quanto fattivo e prezioso, compensa solo in parte. Questo libro può allora offrire uno spazio accessibile, in cui chi sa poco di lui, e penso soprattutto alle persone giovani, può incontrarlo e conoscerlo, una casa mobile dove non si chiede altro visto d’ingresso che la voglia di capire. In fondo ogni biografia dovrebbe essere così.

 

 

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