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Alexander Langer - Non per il potere, a cura di Federico Faloppa

30.6.2012, chiarelettere 2012

Non so come e quando scoprì Alexander Langer. Dovevano essere gli anni Novanta: durante la guerra nella ex-Jugoslavia. Come molti, ascoltavo con un misto di incredulità, indignazione e rabbia le notizie provenienti dalla Bosnia. E – come molti - mi informavo, andavo a dibattiti, discutevo (tra amici, nei collettivi all’università, in famiglia). Leggevo, soprattutto. Tutti i giornali e le riviste che potevo. Non tanto per capire (come si poteva “capire” una carneficina, e l’indifferenza dell’Europa nell’assistervi?), quanto per sapere. Volevo obbligarmi a sapere.  Fu così – credo - che incontrai per la prima volta il nome di Alexander Langer: leggendo uno dei suoi accoratissimi interventi a proposito di quella maledetta guerra.

 

Ho poi ritrovato il nome di Alexander Langer qualche anno dopo, quando acquistai, quasi per caso, una breve – ma densissima – antologia dei suoi scritti: La scelta della convivenza[1]. Mi incuriosiva in particolare il testo da cui la silloge prendeva il titolo: quei Dieci punti per la convivenza inter-etnica in cui analisi, riflessioni e proposte – stilate proprio negli anni dei massacri in Bosnia - avevano la forza e l’urgenza del manifesto.

Quel libretto però offriva anche (molto) altro. Soprattutto, permetteva a chi – come me - poco sapeva di Alexander Langer, e del contesto in cui si era formato e militato, di avvicinarsi a un profilo che poteva apparire (incomprensibilmente) eterodosso sul piano politico, ma anche (straordinariamente) vicino sul piano delle sensibilità, delle inquietudini, delle domande fondamentali.

Da quelle impressioni è l’esigenza di proporre, con questa antologia, un percorso di lettura che, ricalcando e arricchendo quella e altre tracce, dia oggi al lettore la possibilità di ricostruire, partendo da zero, sia una biografia sia - soprattutto - un modo di riflettere, di agire, di vivere politicamente. Un modo singolare per scelte, rigore, coerenza, ma esemplare per la passione che accompagnò - lontano dai riflettori del potere - Langer e tanta parte della sua generazione.

Certo, la selezione proposta in questo volume è necessariamente incompleta. Per fare due esempi, mancano qui brani dedicati al bilinguismo e alla situazione politica in Alto Adige – temi a cui Langer dedicò molte energie - e si intuisce appena quel febbrile attivismo “pacifista” che caratterizzò spesso la sua attività tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta[2]. Si è cercato tuttavia di mettere quanto più possibile in luce sia la varietà degli interessi sia la qualità degli interventi di Alexander Langer. Una qualità non soltanto di contenuto, ma di stile (non da oratore ad effetto o da imbonitore in cerca di facile consenso, ma da consapevole, competente interlocutore, che all’analisi faceva seguire la proposta, a che agli studi televisivi preferiva il lavoro “sul campo”) e di metodo: un metodo “aperto”, a-dogmatico, con cui tentare di integrare tutte le articolazioni di un pensiero critico che non faceva sconti a nessuno (tantomeno al suo artefice), in un progetto etico prima ancora che morale.

Perché la lezione di Alexander Langer – ma “lezione” è termine riduttivo e forse fuorviante, perché non era solito salire in cattedra – è sì nei contenuti (si prenda il grido d’allarme contro il “demone dello sviluppo”, in tempi in cui la “decrescita” non era ancora di moda nei salotti della gauche caviar italiana) e nel modo di interrelarli, presentarli, argomentarli (senza inutili orpelli retorici, con una sintassi chiara, con esempi comprensibili), ma è anche nella visione d’insieme. Nel tentativo di unire tensioni individuali a spinte e rivendicazioni collettive, all’interno di un’azione di largo respiro, in cui ogni lotta possa essere vista come il frammento di un quadro più ampio, di un’ambizione più alta. E dove alla politica non si chieda soltanto di amministrare, in silenzio, lo status quo: ma di scuotere le coscienze (e scuotersi dall’incoscienza), chiedere, osare. Progettare. Con uno sguardo rivolto al futuro, e non schiacciato sul presente: come strumento del possibile, e non (grigio) funzionario dell’utile.

A (ri)leggere i suoi scritti, a volersi avvicinare alla sua biografia – così appassionatamente ricostruita da Fabio Levi in In viaggio con Alex - il profilo del Langer politico si fonde con quello del Langer cittadino, la sua azione di militante alla sua indignazione (e al richiamo della dignità) di uomo: l’intensità e la forza della sua motivazione al timore di essere insufficienti, impotenti di fronte alle sfide (e ai drammi) del pianeta. Tra le tante cose che – mi pare – Alexander Langer aveva intuito c’era anche la consapevolezza che i fardelli non possono essere portati singolarmente: che le responsabilità – come le speranze - vanno sempre condivise. Che l’agire collettivo non è il traguardo: è semmai il mezzo per “costruire ponti”, per coltivare l’utopia. Perché una società di persone sole, di consumatori bulimici, di spettatori assuefatti, dagli orizzonti corti e frammentati non è soltanto più fragile, più controllabile, più egoista e settaria: è anche molto più iniqua. È anche molto più triste. E se questo era vero per lui, lo è ancor di più per noi, per questo nostro tempo.

 

Federico Faloppa



[1] Alexander Langer, La scelta della convivenza, E/O, Roma, 2001 (1° ediz. 1995)

[2] Per un approfondimento, si rimanda a Fare la pace. Scritti su “Azione nonviolenta” 1984-1995, a cura di Mao Valpiana, Cierre Edizioni, Verona, 2005.

ed. chiarelettere

 

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