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Genocidio/Génocide: un testo introduttivo di Marcello Flores

25.2.2008, Autore

Il termine appare per la prima volta nel 1943, nella prefazione della voluminosa opera del giurista Raphael Lemkin, Axis Rule in Occupied Europe: «Nuovi concetti necessitano di nuovi termini». Con “genocidio” s'intende la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico. Questa nuova parola, coniata per denotare un'antica pratica nel suo sviluppo moderno, è creata dalla parola gènos del greco antico (razza, tribù) e dal latino cidere (uccidere), analogamente alla formazione di parole come tirannicidio, omicidio, infanticidio. Parlando in generale genocidio non significa necessariamente la distruzione immediata di una nazione, se non quando essa è accompagnata dallo sterminio di tutti i membri di una nazione. Vuole significare, piuttosto, un piano coordinato di azioni differenti che puntano alla distruzione delle fondamenta essenziali della vita dei gruppi nazionali, con l'obiettivo di sterminare gli stessi gruppi (Lemkin, 1943)

Già nel 1933, in un convegno giuridico internazionale tenuto a Madrid, Lemkin aveva chiamato «atti di barbarie» l'uso intenzionale di brutalità che attaccano la dignità degli individui, quando tali atti vengono commessi in campagne di sterminio dirette contro la collettività di cui quegli individui sono membri. Questa formulazione gli sembrava più adatta di quella di “terrorismo”, che avrebbe dovuto costituire un approfondimento e precisazione della formula, adottata precedentemente a Varsavia, di “pubblico pericolo”.

Alla vigilia della fine del secondo conflitto mondiale, Lemkin tornava sulla definizione di genocidio in un articolo apparso su «Free World», individuandone la caratteristica principale nell'intento di «distruggere o degradare un intero gruppo nazionale, religioso o razziale, attaccando gli individui membri di quel gruppo» attraverso «una seria minaccia alla vita, alla libertà, alla salute, all'esistenza economica o a tutte queste cose insieme» (Lemkin, 1945).

Nel 1946 con un saggio dal titolo Genocidio apparso su «American Scholar», Lemkin ricordava che l'inserimento del crimine di genocidio nel rinvio a giudizio dei criminali nazisti che sarebbero stati processati a Norimberga (>> Norimberga, Processi di) mostrava nel modo più esplicito l'enormità dei crimini nazisti, e cioè il «deliberato e sistematico genocidio – ossia lo sterminio di gruppi nazionali o razziali, condotto contro la popolazione civile di alcuni territori occupati con l'intenzione di distruggere particolari razze e classi di gente e gruppi nazionali, religiosi o razziali, in modo particolare gli ebrei, i polacchi, gli zingari e altri.» (Lemkin, 1946).

Un anno dopo la sua pubblicazione negli Stati Uniti, il difficile e voluminoso libro di Raphael Lemkin veniva recensito nella rivista «American Journal of Sociology». La recensione, a firma di Melchior Palyi, un economista tedesco emigrato in Gran Bretagna e poi negli Stati Uniti dopo l'avvento al potere di Hitler, accusava Lemkin di avere scritto una «requisitoria da pubblico ministero» piuttosto che un'indagine storico-politica. Palyi sottolineava che dei nove capi d'accusa formulati da Lemkin contro le autorità naziste, più o meno tutti avrebbero potuto essere rivolti anche contro gli Alleati: anche se questi ultimi erano ricorsi a “pratiche illegali” coprendole con formule umanitarie o di altro genere mentre i nazisti manifestarono apertamente i loro progetti intenzionali di commettere crimini.

In ogni modo, sulla base delle formulazioni di Lemkin e del rinvio a giudizio e processo di Norimberga, nel dicembre 1946 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione che condannava il genocidio come un «rifiuto al diritto all'esistenza di un intero gruppo umano che sconvolge la coscienza dell'umanità», istituendo un Comitato giuridico che avrebbe dovuto presentare un trattato che bandiva il crimine di genocidio e che sarebbe divenuto legge internazionale con l'approvazione dei due terzi dei membri delle Nazioni Unite. L'approvazione della Convenzione sulla prevenzione e la condanna del crimine di genocidio (>> Convenzione sul genocidio) ebbe luogo il 9 dicembre 1948, il giorno prima dell'adozione della >> Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo.

Nella Risoluzione n. 96(I) del 11-X-1946 delle Nazioni Unite, tuttavia, si parlava di genocidio «quando gruppi razziali, religiosi, politici o di altra natura sono stati distrutti in tutto o in parte». Su insistenza russa e del blocco sovietico, nella definizione approvata il 9 dicembre 1948 erano scomparsi i “gruppi politici”, che mancavano, secondo il delegato polacco intervenuto nella stesura conclusiva, «di caratteri distinguibili, che non permettono a causa della loro mutevolezza di rientrare nella definizione» (Kuper, 1981).

Le analisi sociologiche

Per diverso tempo, a partire dal processo di Norimberga e dall'approvazione della Convenzione, la discussione sul genocidio fu ristretta in un ambito quasi esclusivamente giuridico. Anche se di pari passo si sviluppava un'analisi filosofica e storica sempre più ricca sulla Shoah.

Pur se le prime riflessione delle scienze sociali sul genocidio, infatti, appartengono agli anni Ottanta del XX secolo, è soltanto nel decennio successivo che esse diventano oggetto di approfondimento e dibattito, offrendo posizioni molteplici e spesso divergenti e iniziando a interagire in modo sempre più intenso con il lavoro che andava svolgendosi ormai da anni presso gli Holocaust Studies, luogo d'incontro e dibattito prevalentemente tra storici. Uno dei più frequenti interrogativi che era stato dibattuto in quest'ambito, era stato quello relativo all'unicità o alla singolarità della distruzione degli ebrei europei all'interno delle esperienze di mass killing e mass murder (omicidi di massa) del XX secolo. Nei Genocide Studies, sorti successivamente per opera in genere di scienziati sociali, lo scopo principale sembrava essere, invece, la ricerca di una definizione che potesse soddisfare tanto la conoscenza e spiegazione della Shoah quanto dei genocidi compiuti precedentemente e successivamente all'invenzione del termine.

La spinta a costruire modelli interpretativi capaci di racchiudere le diverse esperienze storiche di genocidio ha accompagnato fin dagli anni Ottanta la ricerca, soprattutto di carattere sociologico. Al primo contributo di Horowitz (1980), che vedeva il genocidio come la politica statale più estrema – utilizzata per imporre il proprio modello ideologico e sociale, e che lo considerava come culmine di una tendenza repressiva presente in tutti gli stati autoritari moderni, che tendeva a radicalizzarsi nei poteri totalitari (>> Autoritarismi; >> Totalitarismi), aveva fatto seguito la più articolata proposta di Leo Kuper (1981), che racchiudeva in tre categorie le motivazioni dei responsabili di genocidio: fare i conti con le differenze razziali, etniche e religiose; terrorizzare popolazioni conquistate; imporre un'ideologia politica. Ne derivava un elenco che, dai massacri di popolazioni indigene alla Shoah, da Hiroshima alla guerra nel Vietnam, includeva praticamente la maggioranza dei mass killing della storia moderna e contemporanea. Una nuova tipologia venne proposta nel 1984 da Helen Fein (Fein, 1984), ipotizzando di inserire tutti i massacri di massa in quattro categorie (genocidi di sviluppo, genocidi dispotici, genocidi vendicativi, genocidi ideologici).

L'approccio sociologico, in effetti, oltre a rimuovere completamente l'origine giuridica del termine, tendeva a destoricizzare gli eventi presi in considerazione per individuare un modello metastorico entro cui poterli inserire tutti quanti. L'idea del genocidio come «una forma di omicidio di massa unilaterale in cui uno stato o un'altra autorità intende distruggere un gruppo, così come esso e la sua appartenenza sono definiti dai colpevoli» (Chalk e Jonassohn, 1990), si prestava ad accomunare lo sterminio e riduzione in schiavitù degli abitanti di Melo e i massacri di Gengis Khan nel corso della conquista mongola, la crociata contro gli albigesi e la caccia alle streghe nella Scozia del XVI e XVII secolo, lo sterminio completo dei tasmaniani e quello all'80% degli herero, per non parlare dei numerosissimi casi inseriti accanto alla Shoah e ai crimini staliniani per riassumere il genocidio nel Novecento.

Il tentativo compiuto recentemente da Michael Mann (2005), di attribuire definizioni particolari (classicidio, politicidio, etnocidio) per eventi spesso sussunti sotto lo stesso termine di genocidio non gli ha impedito, al tempo stesso, di determinare i tratti comuni di quest'ultimo, individuati sommando tutti quelli presenti negli eventi storici ritenuti o ipotizzabili genocidio. Il risultato è quello di una definizione particolarmente articolata ma anche eccessivamente lunga e onnicomprensiva, che fa perdere al modello teorico la funzione riassuntiva e di generalizzazione, per attribuirle quella di sommatoria analitica dei caratteri degli eventi storicamente determinati.

L'analisi storica

Più recentemente l'interesse per il genocidio ha coinvolto anche gli storici, permettendo un livello di comparazione che non si è limitato all'individuazione di modelli e tipologie possibili entro cui far ricadere le singole esperienze storiche, ma si è posto il problema di tracciare l'intero processo storico da cui è emersa la realtà – nuova per quanto attiene alla definizione o anche per il contenuto della violenza esplicitata? – dei genocidi.

Ultimamente uno storico inglese, presentando i primi due volumi di un'ampia opera – sul genocidio nell'epoca dello stato-nazione (Levene, 2005), riconosceva invece la necessità di affrontare la questione «nei termini sia concettuali sia cronologici più ampi possibili». Il punto di partenza, in questo caso, dopo un rapido excursus sul XVI e XVII secolo, era rappresentato dalla Vandea, allargando ancora di più i termini comparativi “novecenteschi” e proiettando la ricerca sino ai giorni nostri e alle esperienze del Ruanda, dell'ex Iugoslavia e del Darfur. L'assunto di Levene, il suo punto di partenza, risiedeva infatti nella convinzione che «genocidio non è tanto una serie di eventi isolati, aberranti ma essenzialmente scollegati, ma si situa al cuore stesso dello sviluppo storico moderno» (Levene, 2005).

In questo modo l'idea di ripercorrere l'intero processo storico della modernità alla luce del concetto di genocidio, capovolge il rapporto tra racconto storico e modello teorico della sua interpretazione ma non aggiunge conoscenza al primo e capacità euristica al secondo. L'idea allargata di genocidio si proietta sull'intera epoca della modernizzazione come una minaccia e come una realtà che incombe in modo quasi necessario e ineluttabile.

La comparazione storica dei genocidi e dei crimini di massa del XX secolo è un risultato recente, che ha dato, probabilmente, i suoi risultati migliori quando si è soffermata sui problemi d'interpretazione, fossero essi relativi a singole questioni o al contesto più generale, all'analisi delle cause o delle modalità e degli strumenti dei massacri, al ruolo degli attori coinvolti (vittime, responsabili, osservatori) o alle dinamiche della politica internazionale. I risultati più incoraggianti, almeno fino a questo momento, sono stati i volumi collettivi (Flores, 2001; Gellately e Kiernan, 2006). In una materia come quella dei genocidi, resa complessa e a volte contraddittoria proprio dalle componenti giuridiche del termine, dall'uso politico che si è fatto della sua definizione, del senso comune che ha acquistato col tempo, gli interrogativi sono ancora – allo stato degli studi – più importanti delle risposte e della coerenza dell'interpretazione. Opere collettive, di conseguenza, possono affrontare aspetti diversi confrontando singoli momenti o problemi particolari, senza la necessità di un quadro completo e omogeneo che tenti di rispondere in modo complessivo a tutte le questioni sollevate. Gellately e Kiernan, nelle conclusioni, ricordano come tra tutte le controversie e i dibattiti emersi negli studi degli ultimi anni «il problema più spinoso riguarda la definizione del termine genocidio e il suo rapporto con gli altri crimini contro l'umanità e i crimini di guerra» (Gellately e Kiernan, 2006).

Tra gli interrogativi più volte riproposto dal dibattito vi è anche quello del carattere moderno del genocidio o del suo manifestarsi nell'intero corso della storia umana. Paradossalmente, la modernità costruisce la – razza e l'identità etnica, proprio mentre esalta l'individuo e la sua libertà, il suo essersi “liberato” dalle appartenenze comunitarie e collettive (anche se ne propone subito altre, le identità di classe e le identità ideologico-politiche, al posto di quelle tradizionali: la religione, la dinastia, il villaggio, la famiglia allargata).

È all'interno di questo nuovo clima culturale e di questa nuova epoca politica – la modernità – che si manifestano le prime reazioni violente di massa; esse hanno cause diverse e intrecciate, di tipo sociale, territoriale, culturale, psicologico ma trovano il loro sbocco nella identificazione di un nemico: i pogrom antiebraici in Russia e in Europa orientale sono coevi ai primi massacri degli armeni nell'impero ottomano. Sono uno dei risultati della modernità e della crisi che essa apporta in imperi multinazionali e multietnici che vivono la loro decadenza (rispetto ai modelli della modernità che avanza) in modo sempre più drammatico.

La modernità

Per legare strettamente i genocidi alla modernità – un tema che è stato approfondito in modo ancora insuperato da Zygmunt Bauman (1992) – si possono confrontare brevemente quelli che sono indiscutibilmente, e cioè per tutti o quasi i commentatori appartenenti alle più diverse discipline, dei genocidi: quello armeno, quello ebraico, quello cambogiano e quello ruandese. Il genocidio armeno, diversamente da quanto sostengono molti studiosi armeni, influenzati dalla lunga battaglia politica e giuridica per vedere riconosciuta la tragedia di cui sono stati vittime i loro genitori e familiari, non è il prodotto conclusivo e il risultato ultimo di una persecuzione e di un odio coltivato per secoli dai turchi nei loro confronti e caratterizzato a partire dalla fine Ottocento da un crescendo di assassinii e massacri. Allo stesso modo in cui la Shoah non è il risultato dell'antisemitismo tedesco, cresciuto a dismisura a partire da metà Ottocento e diventato con la vittoria del nazionalsocialismo un'ideologia condivisa dalla maggioranza di un popolo che avrebbe volontariamente partecipato alla carneficina. Così come il genocidio in Ruanda dei tutsi e degli hutu moderati (già questo intreccio dovrebbe suggerirlo), non è l'effetto conclusivo di un odio etnico e sociale che avrebbe contrapposto per secoli la maggioranza degli abitanti indigeni alla minoranza dei “dominatori” giunti di fuori e quindi estranei.

Perché i turchi (anche se bisognerebbe evitare di attribuire a un'entità generica e astratta la responsabilità di un atto che è stato compiuto da una minoranza e non da tutti i cittadini dei diversi governi genocidiari) – abbiano potuto compiere il genocidio contro gli armeni, i tedeschi contro gli ebrei e gli hutu contro i tutsi, c'è stato bisogno che questi popoli sperimentassero l'ingresso nella modernità, caratterizzata tra l'altro da una crescita virulenta del nazionalismo che non si era mai avuta precedentemente nella storia. Senza l'ideologia nazionalista dei Giovani Turchi (anzi, della loro ala più fondamentalista e intransigente), ci sarebbero probabilmente stati altri massacri e violenze, ma mai un genocidio come quello del 1915. Senza l'ideologia nazionalsocialista, che aggiunge, modifica e radicalizza il tradizionale antisemitismo europeo e tedesco, ci sarebbero stati pogrom e violenze tollerate e forse incoraggiate da un governo autoritario e/o militare, ma non la distruzione pianificata da Hitler e dai suoi gerarchi. Senza l'ideologia dell'Hutu Power, fondata sul retaggio della divisione etnica e di classe sanzionata dal colonialismo belga e introiettata (>> Violenza simbolica) dalla maggioranza hutu all'indomani della “rivoluzione” indipendentista dei primi anni Sessanta, ci sarebbero state violenze e scontri circoscritti e magari ripetuti, ma non la volontà di eliminare il “nemico” del tutto e dappertutto.

Il rifiuto di legare strettamente il genocidio alla modernità connota una diversa interpretazione – non tanto del primo, quanto di quest'ultima e delle sue componenti essenziali. Lo sterminio delle popolazioni indigene nell'attuale Messico nel XVI secolo, non viene considerato da Todorov una barbarie atavica o bestiale che i soldati spagnoli avrebbero manifestato perché lontani dai vincoli religiosi e culturali della madrepatria: ma come un comportamento «molto umano, che annuncia l'arrivo dei tempi moderni» (Todorov, 1997). Molti studiosi dilatano il tempo della modernità e del suo avvento a partire proprio dalla conquista delle Americhe, altri la fanno partire dall'epoca dei Lumi o – nella prospettiva degli studi sui genocidi – la situano nella fase finale della grande avventura coloniale occidentale, caratterizzata dalla conquista europea dell'Africa e dallo spostamento a ovest, fin sul Pacifico, della “frontiera” degli Stati Uniti, con la contemporanea distruzione delle popolazioni indigene (>> Colonialismo).

Nell'ottica suggerita da Bauman, ma anche di coloro che ne hanno criticato un suo presunto antilluminismo, la modernità avrebbe favorito un'organizzazione burocratica e tecnologica dell'uccisione di massa, rendendo così “razionale” – per la modalità con cui si realizza – un comportamento distruttivo e sanguinario di cui si fa fatica a trovare una spiegazione intellettualmente comprensibile. In realtà la modernità non costituisce l'orizzonte unico e totale entro cui si realizza, per esempio, l'esperienza genocidiaria del nazionalsocialismo (Traverso, 2006), anche se ne è un aspetto essenziale e tutt'altro che accessorio. Tutti i genocidi, del resto, condividono questo intreccio tra pulsioni (e modalità) distruttive premoderne e caratteristiche proprie della modernità.

Da crimine a condanna morale

Nella ricostruzione storica e nella comparazione – soprattutto quando essa diventa di lungo periodo, annacquando necessariamente la particolarità e originalità di ogni evento e periodo storico – non si può accantonare o ignorare l'elemento giuridico che è alla base della definizione di genocidio. Se ciò avviene, tuttavia, quella che viene comparata e raccontata è, più semplicemente, la storia della violenza di massa e dei massacri collettivi, anche se si usa e si vuole usare il termine genocidio. Al di fuori del legame con il significato profondo e preciso della Convenzione, il concetto di genocidio risulta un sinonimo – che è portatore di una condanna morale più forte e richiama, quindi, un'attenzione particolare – di grande massacro, di violenza estrema, di barbarie difficilmente raggiunta. Genocidio non sarà più, quindi, un termine capace di avere un connotato conoscitivo, che potrà venire data solo dall'articolazione e profondità dell'analisi; mentre il richiamo al genocidio servirà per catalizzare la partecipazione emotiva e rendere più forte il legame tra la sensibilità odierna nei confronti della violenza e la rilettura delle violenze del passato.

Il genocidio, insomma, col tempo perde progressivamente il carattere di crimine “legale” e acquista soprattutto quello di condanna “morale”. L'uso del termine è, sempre più, un uso analogico, che parta dalla definizione giuridica o dal riferimento alla Shoah. Basta pensare al silenzio o al rifiuto esplicito, per lunghi anni, di usare la parola genocidio a proposito della Cambogia, oppure, al contrario, alla sua ripresa che accompagnò le tragedie della ex Iugoslavia e del Ruanda negli anni Novanta, per rendersi conto di come il dibattito sul genocidio abbia ormai inestricabilmente intrecciato gli aspetti giuridici e politici, di ricerca scientifica e di senso comune e uso pubblico e riduttivo del termine.

Non è un caso che – vi sia stato ultimamente un tentativo di ridefinizione anche giuridica del genocidio, legata principalmente alla costituzione dei >> Tribunali internazionali penali ad hoc per l'ex Iugoslavia (ICTY) e per il Ruanda (ICTR) ma su cui ha pesato, ovviamente, anche il lungo dibattito avvenuto negli ultimi anni su un terreno più ampio di quello del diritto.

Il Tribunale di Arusha, rispondendo al quesito se quello accaduto nel 1994 potesse essere considerato genocidio, ricordava come «fosse davvero un particolare gruppo, quello dei tutsi, che era stato individuato e [che] le vittime non erano chiaramente scelte come individui ma perché appartenevano al predetto gruppo» (ICTR, 1999), e come il contesto del conflitto in cui avvenne avesse favorito il genocidio senza permettere di individuare le violenze commesse come semplici atti o anche crimini di guerra. Di particolare interesse fu l'avere sottolineato come non fosse necessario che i tutsi costituissero realmente un gruppo differenziato su base etnica, ma che tale fosse la percezione e la decisione di considerarli da parte dei perpetratori del genocidio.

Nel processo contro Radislav Krstic, intentato dal Tribunale dell'Aia per l'ex Iugoslavia, la Corte prese in considerazione non soltanto i termini della Convenzione ma l'insieme dei lavori preparatori che avevano portato alla sua stesura, discutendo in dettaglio i confini spesso labili e confusi esistenti tra una politica genocidiaria e una politica di pulizia etnica, e approfondendo la questione dell'intenzionalità e del rapporto tra la distruzione fisica e biologica e quella culturale di un gruppo: giungendo alla conclusione che quanto accaduto a Srebrenica nel luglio 1995 ricadeva con certezza nella definizione di genocidio, di crimini contro l'umanità e di crimini di guerra alla luce del diritto internazionale (ICTY, 2001).

Il dibattito recente e ancora in corso sull'esistenza o meno di un genocidio in Darfur ha messo in luce quanto sia presente l'influenza dell'opinione pubblica e delle associazioni e organizzazioni che si occupano di diritti umani e intervento umanitario; e come essa si affianchi alle diversità di vedute presenti nei diversi campi disciplinari che si occupano di genocidio. Anche se la commissione di giuristi internazionali, costituita appositamente per intervento del Segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan, era giunta alla conclusione che non era stata portata avanti una politica genocidiaria, e aveva evidenziato come «reati internazionali quali i crimini di guerra e i crimini contro l'umanità che sono stati commessi in Darfur possono essere considerati non meno seri e atroci di un genocidio» (Report on Darfur, 2005), era stato soprattutto grazie all'uso diffuso del termine “genocidio” nei mass media che sulla regione del Sudan si era manifestata un'attenzione che era mancata spesso in precedenti occasioni di violenza di massa.

<Marcello Flores>

Lemmi correlati

> Colonialismo > Convenzione sul genocidio > Corte penale internazionale > Crimini contro l'umanità > Deportazione > Diritto internazionale umanitario > Discriminazione > Giustizia > Norimberga, processo di > Pulizia etnica > Razzismo > Violenza simbolica

 

Bibliografia

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Raphael Lemkin, Genocide. A Modern Crime, in "Free World", April 1945

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Report of the International Commission of Inquiry on Darfur to the United Nations Secretary-General  Geneva, 25 January 2005

 

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