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Barbara Grandi: Una stanza per partorire

9.9.2006, Una città 79/99
L’assurdità della medicalizzazione del parto, che deve avvenire in sala parto con ginecologo presente. La possibilità di tornare a partorire in modo più naturale, anche in ospedale, ma in una stanza apposita, personalizzata, accogliente, con a fianco l’ostetrica. L’opportunità, per la donna, di scegliere fra varie tecniche. Intervista a Barbara Grandi.

Come hai iniziato a occuparti del parto?
Io sono arrivata in Toscana nel 1982 da Trieste, dove avevo studiato, e mi ero specializzata in Ginecologia. Già allora avevo lavorato con un collettivo per la salute della donna, nell’ambito del quale si era cominciato a valutare criticamente il modo in cui le donne partoriscono negli ospedali. L’esperienza perlopiù veniva vissuta come qualcosa da dimenticare, un passaggio necessario per avere un figlio, dove però non c’era nulla di bello. Assistendo a qualche parto in casa a Trieste, invece avevo visto che l’esperienza poteva essere totalmente diversa. Quando le donne sono nel loro ambiente, quando possono essere libere di scegliere, anche autogestendo un po’ la propria esperienza, possono anche avere un travaglio e un parto difficili e dolorosi, e però sono esperienze di crescita, e momenti bellissimi della vita.
In molti ospedali in Italia, invece, anche la relazione madre-neonato non viene affatto salvaguardata e valorizzata: c’è subito la separazione, i neonati vengono portati al nido, e così via. Non c’è alcuna attenzione verso le prime ore dopo la nascita, che invece sono momenti fondamentali nella vita di una persona, perché vi è una particolare recettività, una particolare apertura, e quello che succede in quei momenti si imprime a qualche livello nella coscienza profonda.
Quindi non è di poco conto cercare di curare questo momento speciale della vita sia prima, quindi durante il travaglio, che dopo, appena nasce il bambino. Questo negli ospedali è molto difficile, mentre a casa è tutta un’altra cosa.
Tuttavia, tu hai comunque scelto di operare in ospedale...
Nella nostra cultura l’ospedale è il luogo normale per partorire, quindi mi sembrava giusto cercare di intervenire nel pubblico, in modo che le donne potessero vivere una bella esperienza anche in ospedale: avere accanto chi volevano, avere libertà di movimento, avere accanto l’ostetrica, che, secondo me, è l’esperta del parto fisiologico. Non c’è bisogno del ginecologo, che per sua formazione è più pronto a intervenire, ad accelerare, e comunque a dare una sua direzione al travaglio. Ecco, ho creduto che tutto questo in fondo si poteva fare in ospedale, casomai in un ospedale più piccolo in cui è più facile intervenire.
E così è stato. Quando sono arrivata infatti non c’era il primario, era un momento di potere vacante, per cui ho potuto più facilmente fare delle proposte che sono state accettate dall’amministrazione.
Innanzitutto, nel 1984 abbiamo allestito una stanza per il parto naturale, una camera da letto matrimoniale, con cuscini colorati, con la musica, con la possibilità di renderla più calda e più familiare possibile. E’ un posto dove si bussa per entrare, dove non c’è un via vai continuo, dove l’intimità viene rispettata. E’ questo il luogo in cui hanno cominciato a venire le donne che facevano questa scelta, nel senso che si poteva scegliere il tipo di parto: tradizionale in sala-parto o quello nella stanza del parto naturale. All’inizio erano pochissime le donne che osavano utilizzarlo: erano per lo più delle straniere che venivano da paesi in cui già esistevano esperienze di questo tipo.
Ci descrivi questa stanza?
E’ una stanza da letto matrimoniale, con armadio, cassettone, un tavolo... In questo momento è stracarica di oggetti regalati dalle donne: pupazzi, quadri, ninnoli, ed è anche divertente nella sua sovrabbondanza. Accanto c’è un grande bagno. Questa è stata una novità degli ultimi anni perché prima avevamo una vasca piccolissima, dove le donne stavano praticamente sedute, e però vi trascorrevano molto tempo. Quindi abbiamo pensato di mettere una vasca grande, dove si potesse rimanere a lungo e più comodamente, eventualmente anche partorire. Ma non era questa la cosa più importante, quanto invece il poterci stare nella fase più dura del travaglio, quella più dolorosa. Per il resto, è una stanza molto normale, se non per questa sovrabbondanza di oggetti, di colori, eccetera.
Il personale come ha reagito a questi cambiamenti?
Il personale è rimasto ovviamente lo stesso. La cosa bella è che ha imparato ad assistere in un certo modo: le ostetriche ormai sono in grado di individualizzare il tipo di assistenza, di ascoltare la donna con l’attenzione che merita, e tutto questo poi ha una ricaduta positiva nell’attività di tutto il reparto, anche con le donne che sono a rischio o hanno dei problemi.
Per esempio, non c’è motivo per cui una donna, anche se le si deve controllare di più il battito, non possa scegliere la posizione per il periodo espulsivo, quando deve spingere; questo lo si può fare in ogni caso, il lettino da parto magari lo si utilizza proprio all’ultimo istante anche quando la testa sta per uscire. Ormai si sa che le spinte nella posizione eretta sono più efficaci, la gravità aiuta, e nella posizione accovacciata il bacino è aperto al massimo. Allora, perché non adottare questi accorgimenti per tutte le donne che possono beneficiarne?
Attorno al parto naturale ruota anche il discorso della preparazione. Bisogna abituare le donne ad avere fiducia in se stesse, ad utilizzare le proprie risorse, a prepararsi in modo attivo. Per esempio con la ginnastica, che serve per ridurre i disturbi della gravidanza, i dolori, il mal di schiena, il gonfiore alle gambe, o con l’attività in piscina, ideale per le donne in gravidanza, che possono così muoversi con scioltezza, facendo con meno fatica movimenti che fuori dall’acqua non potrebbero fare. Poi è importante anche abituare le persone che la gravidanza e il parto non vanno delegate soltanto ai medici, alle visite, ai controlli. C’è veramente un eccesso di medicalizzazione. E lo si vede quando, ad esempio, da noi arrivano le donne da altri posti d’Italia con plichi di esami, ecografie, molte delle quali veramente inutili, o meglio addirittura discutibili quando servono soltanto a far perdere fiducia nella donna. Una donna infatti è portata a pensare che se ha bisogno di fare tutti questi esami evidentemente non è capace di fare un figlio. E più esami uno fa, più c’è la possibilità che vengano alterati, perché esistono quelli che si chiamano i “falsi positivi”, è normale. Invece un esame alterato porta con sé una catena di altri esami e una sfiducia totale della donna sul fatto di essere in grado di partorire.
All’inizio comunque il personale era disorientato, spaventato, quindi c’ero sempre anch’io. Questa stanza poi è diventata anche una “palestra” per noi operatori. Per imparare, con l’aiuto delle donne, cosa fare per aiutarle. Ogni donna è diversa, non si possono standardizzare gli interventi, bisogna essere creativi: c’è chi ha bisogno di essere toccata in un certo modo, più forte, più piano, l’acqua, la doccia, eccetera. Poi, oltretutto, erano spesso donne già ben preparate, che casomai ti aiutavano a sperimentare assieme anche certi modi di respirare, certe vocalizzazioni, che sono importanti per aprirsi, oppure per trasformare l’urlo in suono modulato che aiuta, perché invece che disperdere l’energia, la canalizza.
Come ti era venuta l’idea di creare un ambiente di questo tipo?
Prima di cominciare ho fatto dei viaggi per vedere cosa si stava muovendo in giro per il mondo. I luoghi più significativi dal mio punto di vista erano l’Olanda, dove attualmente ancora un terzo dei parti avviene in casa, e c’è ancora una cultura di rispetto per la nascita.
Pure in ospedale si sente che sono educati a far partorire le donne in casa: hanno un’attenzione ai bisogni psicologici delle persone che da noi ci sogniamo. Anche nei grandi ospedali infatti, ci potrebbe essere un maggiore rispetto, come pure quell’attenzione, quella pazienza di aspettare i ritmi della donna che di fatto c’è solo nel parto in casa. Lì, il modo di assistere le donne a casa è molto serio, c’è anche una selezione del rischio, perché ovviamente non tutte le donne possono fare questa scelta.
Successivamente sono stata negli Stati Uniti, dove in quegli anni si stavano muovendo varie esperienze alternative. In California c’erano centri per la nascita; in Texas, c’è una scuola per ostetriche, che sono bravissime e molto bene organizzate perché a El Paso, per dire, vanno a partorire donne che magari hanno attraversato a nuoto il fiume per passare dal Messico agli Stati Uniti. Poi sono stata nel Tennessee, dove c’è un luogo che allora ospitava mille persone, una specie di comunità di vegetariani strettissimi, un ambiente anche di spiritualità alternativa, New Age, dove non c’è l’uso dei soldi. Sono molto alternativi, però bravi; avevano anche una videoteca di parti assistiti in tutte le posizioni, veramente utile per chi vuole imparare e fare esperienza. Le donne si erano autopreparate, non avevano fatto delle scuole ufficiali, ma erano veramente molto competenti.
In Francia ho fatto un’altra esperienza importante in un piccolo ospedale dove il primario aveva organizzato un modo di partorire molto particolare. Lui infatti aveva scoperto che lasciando le donne molto libere, in un posto dove potevano crearsi la loro “cuccia”, come gli animali, potevano tirare fuori i loro istinti, e attivare le loro risorse migliori. Ho portato là anche due ostetriche di Poggibonsi. E’ stato fondamentale perché le ostetriche sono la base su cui si fonda questo tipo di lavoro e invece sono abituate a fare un po’ le infermiere e le assistenti del ginecologo. In questo modo si ritrovano a lavorare con molta più responsabilità, ma anche in modo più creativo e affascinante.
Parlando dell’Olanda, hai accennato alla “selezione del rischio”: di cosa si tratta?
Uno dei passaggi fondamentali quando si vuole proporre il parto naturale è riconoscere che in certi casi il travaglio e il parto hanno bisogno di più attenzione, di più controlli, ed è il motivo per cui, in realtà, i ginecologi, o anche i pediatri servono in certi casi, però servono in casi selezionati. Allora, bisogna sapere riconoscere quando c’è bisogno di una assistenza più intensiva. La selezione del rischio si riferisce a questo. Però in circa l’80% dei casi le gravidanze sono fisiologiche, quindi una donna può scegliere.
Come reagiscono le donne di fronte a questa opportunità?
Oggi la maggior parte delle donne, anche da noi, si sente più sicura se ha il ginecologo vicino, se è in sala parto, perché le sembra che lì ci siano tutti gli strumenti necessari in caso di urgenza. Però c’è una fetta variabile di persone che invece ci hanno riflettuto, hanno letto, hanno ascoltato l’esperienza di altre donne e che decidono di non andare in sala parto, ma di sperimentare un parto diverso, meno medicalizzato. Comunque a fare questa scelta non sono solo le donne più provviste di strumenti culturali, quelle che scelgono modi diversi per curarsi come l’omeopatia, che fanno molta attenzione all’alimentazione, o politicamente di un certo tipo. Ci sono anche le donne semplicemente terrorizzate dagli strumenti, dalla sala parto, dalle medicine, dalle punture... C’è una popolazione variabile.
Per chi decide di fare la scelta tradizionale c’è ugualmente una preparazione?
Nel corso di preparazione al parto vengono spiegate le due alternative, con delle visite guidate in ospedale dove vedono anche la sala parto e la stanza del parto naturale. Comunque la scelta finale dipende anche dai mariti, dalla famiglia, da tante cose. Per esempio, quelle che vengono seguite dal primario, vogliono che ci sia lui al loro parto, e quindi vanno in sala parto. Dall’altra parte ci sono anche quelle a cui semplicemente piace l’idea. L’acqua, per esempio, evoca nella fantasia delle donne gravide il parto dolce, e quindi c’è un sacco di gente a cui l’idea dell’acqua, di partorire nell’acqua porta a fare questa scelta. E va bene così, anche se magari non sono così consapevoli del discorso generale, dell’importanza di essere attive, di fare delle scelte.
Le donne che hanno partorito in questi modi si sono trovate bene?
Assolutamente sì. C’è un notevole entusiasmo nelle donne per questo. Poi, ovviamente, ci sono stati pure parti difficili, duri, delle volte abbiamo dovuto fare anche il cesareo. Non è che il fatto di poter utilizzare questa stanza, con questa atmosfera, con questo aiuto sia sufficiente a garantire la buona riuscita. Però, in linea di massima, vedo che le donne sono molto contente di aver fatto questa scelta. Il fatto di uscire dall’esperienza del parto con un senso di soddisfazione, di orgoglio, è un buon modo per iniziare a sentirsi dei genitori bravi e sereni, fiduciosi.
Purtroppo nell’ambito di questa nuova mentalità aziendale in cui si vuole recuperare clientela, talvolta negli ospedali si aumentano i comfort, casomai si mettono le vasche da bagno, e però tutto ciò non viene accompagnato da una crescita più profonda, dalla messa in discussione dei modi e degli atteggiamenti di ginecologi e ostetriche. Quindi è difficile. Oltretutto, i medici non sempre ci stanno ad abdicare a questo ruolo che hanno sempre avuto. Del resto, in un certo senso, sono chiamati a stare fuori. Poi l’Italia è il paese dove c’è la più alta densità di ginecologi al mondo, quindi è un discorso delicato, dato che anche l’attività privata è molto basata sulla ostetricia...

UNA CITTÀ n. 79 / luglio-agosto-settembre 1999

BARBARA GRANDI, triestina, dal 1982 lavora come ostetrica a Poggibonsi (Si), dove dal 1984 ha introdotto all'Ospedale la "Stanza del parto naturale" e dal 1991 la pratica del parto nell'acqua. Socia fondatrice di "Andria", associazione italiana di Ginecologi e Ostetriche per la promozione dell'umanizzazione in Ostetricia e l'appropriatezza delle cure secondo l'EBM ( medicina basata sull'evidenza).
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