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Maurizio Rosenberg Calorni: Indonesia: 17.000 isole e 1600 lingue

5.9.2006, foundation foto Ida Haag
L’Indonesia: un insieme di 17.000 isole, circa 1600 lingue e quasi altrettante etnie (molte delle quali concentrate in Irian Jaya cioè Papua, la più grande riserva di diversità ecologica e culturale della Terra), cinque religioni monoteistiche ufficialmente riconosciute su un piede di parità (con quasi il 90% di musulmani su un totale di 240 milioni di abitanti, il che fa dell’Indonesia il più grande Paese musulmano del mondo) ma anche qualche centinaio di religioni animiste, ben vitali: questi pochi dati forniscono già un’idea piuttosto vivida della complessità di questa zona della Terra.

L’Indonesia ha conquistato la propria indipendenza 51 anni fa. I trenta anni di una dittatura (regime di Suharto) che ha spogliato il Paese e certo non ha favorito la maturazione di spazi democratici hanno al tempo stesso tenuto unito il Paese sotto un pugno di ferro. L’apertura democratica degli ultimi anni da un lato mostra spesso una grande maturità culturale, dall’altro contribuisce a mettere in evidenza profonde differenze, tra le quali spiccano quelle dovute alla radicalizzazione connessa alla religione e quelle delle tendenze autonomistiche di molteplici ed ampie regioni (Aceh, Papua, Manado).
L’arcipelago indonesiano è immerso da un lato nel Mar Cinese Meridionale, dall’altro nell’Oceano Indiano: la sua stessa posizione geografica lo pone nello snodo tra i due grandi colossi asiatici, Cina e India, potentemente emergenti, mentre d’altro canto la sua collocazione politica (che un tempo – conferenza di Bandung del 1956 – era ‘terzista’, cioè fautrice di una terza via tra socialismo e capitalismo) e la sua debole struttura economica lo rendono assai dipendente dall’Occidente, nonostante la verticale caduta di popolarità degli Stati Uniti nei sentimenti comuni della popolazione.

E’ in questo contesto, composito, multiforme e complesso, che ha scelto di lavorare Robin Lim, dopo avere vissuto in vari Paesi dei diversi continenti.
Esiste a Bali (luogo della Terra dove, come in pochi altri, si possono godere i fasti e i nefasti della globalizzazione) la consapevolezza di una frattura e di un conflitto forse ancora più profondo di quelli precedentemente citati: quello fra modernità e tradizione, fra ricchezza spirituale e ricchezza materiale, fra l’idea di ‘sviluppo’ e l’idea di armonia.
Come altrove, a Bali avanza la modernizzazione (soprattutto nella sua versione americana e australiana) e i suoi valori; più che altrove, però, è presente a Bali una cultura locale e tradizionale che resiste ed offre proposte ‘forti’ nel campo dell’arte, della musica, del teatro, della danza, dei valori mitici e religiosi.

Nel campo specifico di cui Robin si occupa, quello dell’ostetricia e della salute delle donne e dei neonati, tutto ciò prende l’aspetto di un conflitto tra la ‘medicina scientifica’ importata dall’Occidente e la ‘medicina tradizionale’ , dove con questo secondo termine intendiamo non tanto e non solo i medicamenti naturali, quanto tutte quelle pratiche di salute e di assistenza reciproca, di trasmissione delle sapienze da madre in figlia che costituiscono la grande ricchezza di Bali e che rendono i balinesi il popolo forse più sorridente della Terra, ed i bambini felici e sprizzanti gioia come neanche possiamo più immaginare, nelle nostre città di oggi.
La medicina occidentale, per di più mal digerita, in questo contesto rappresenta una specie di avanguardia dei valori del capitalismo che entra nell’ esistenza delle persone, dettandone le regole e i valori : - il parto tecnologico, a proposito e a sproposito, invece di quello naturale e conviviale – una quantità di medicine potenti e costose, che pretendono di ‘uccidere’ la malattia più che rinforzare l’ organismo - ospedalizzazioni per i più futili motivi… ma in compenso molto costose.
Pratiche che portano a risultati disastrosi, anche in temini puramente quantitativi: una mortalità materna di 718 eventi su 100.000 nascite (la più alta percentuale in tutto il Sudest asiatico, nonostante che Bali sia una delle zone economicamente più ricche).
Il parto cesareo frequentissimo, la spinta verso l’allattamento artificiale, lo svuotamento del valore esistenziale del parto e della gravidanza e l’insinuazione nella donna della sfiducia nelle proprie forze e capacità… sono questi i corollari che ben conosce anche chi, in Occidente, opera con lo stesso atteggiamento con cui lavora Robin.
Una medicina privata , esercitata in luoghi privati, e a fini di profitto privato, che va sostituendosi a una medicina sociale che si esercita all’interno della collettività del villaggio, e che inizia dalla conoscenza delle pratiche del corpo, dei cibi, delle erbe e dei loro valori salutari e simbolici.
E’ qui, in una società che sta conoscendo questa fase di ‘sviluppo’, che Ibu Robin ha scelto di lavorare, senza peraltro dimenticare il suo bagaglio scientifico (è un’ostetrica diplomatasi negli Stati Uniti), ma anzi portandolo in tal modo al suo più alto e autentico livello.

Infine, ecco una frase che Ibu Robin cita frequentemente:
‘‘Una rivoluzione potrà avvenire nella nostra visione della violenza quando comincerà ad aversi la consapevolezza che il processo della nascita è un periodo determinante per lo sviluppo della nostra capacità di amare’’.
E’ stata detta da Michel Odent, un medico che in Occidente è portatore di un messaggio analogo di convivialità e di maturità etica e sociale.

Ed ecco la frase di Ibu Robin che a me piace ricordare più spesso:
“Io credo che un inizio della vita dolce e sano sia il vero fondamento di una vita felice. La pace del mondo può venire costruita, cominciando oggi, un bambino alla volta”.


Maurizio Rosenberg Colorni, fondatore delle RED edizioni, da qualche anno vive e lavora a Bali. A lui un sentito ringraziamento per la preziosa collaborazione.
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