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Il ruolo dell’Europa nella crisi del Kosovo: Modello di nonviolenza o miccia del nazionalismo?

9.4.1994, Azione nonviolenta, ottobre 1994

Nel parlare del Kosovo per tentare di descrivere alcuni aspetti della cri­si e della disintegrazione jugoslava, vorrei trasportarvi in una situazio­ne in cui guardare ad alcuni influssi che vengono dal firmamento, dall’alto, e ad altri che vengono invece dalla terra, dal basso. 

 

È il “momento della terra”: il complesso assetto ex-Jugoslavo

Guardiamo per un attimo appunto al Ko­sovo che è stato il più importante punto di partenza della crisi e della disintegrazione jugoslava. Perché? Perché la pretesa e se vogliamo anche la vocazione possibile della federazione jugoslava multi-etnica come casa comune di molte etnie diverse con parità di diritti (e in un certo senso con una casa particolare per ognuno) è stata rotta prima di tutto nel Kosovo.

Infatti gli albanesi, uno dei popoli nume­rosi tra i molti popoli, etnie o minoranze, comunque li vogliamo chiamare, della fe­derazione jugoslava, sono stati i primi a vedersi fortemente deprivati dei loro dirit­ti, i primi nei confronti dei quali la pro­messa jugoslava non ha funzionato, anzi è stata sospesa, è stata messa fuori legge. In questo senso credo che si possa dire che fin dalla fine degli anni ’80 la revoca pra­tica dell’autonomia del Kosovo e la cre­scente oppressione e repressione sia poli­ziesca sia economica sia poi civile e culturale in quella regione sono stati un mo­mento fondamentale che ha fatto scoppia­re la precedente ipotesi di federazione multi-etnica e di equilibrio a volte anche molto complicato di popoli diversi con autonomie, pesi, contrappesi, garanzie reciproche. Questo lo prenderei come mo­mento “della terra”.

 

... e quello “dal firmamento”: la ristrutturazione dell’Europa

Se viceversa guardo a quello che viene “dal firmamento”, io credo che dobbiamo renderci conto che dalla fine dell’89, e cioè dal crollo dei regimi comunisti dell’Est, sta avvenendo qualcosa che è ancora ben lontano dall’essersi esaurito: una ri­strutturazione dell’Europa. Siamo di fron­te a una delle grandi cesure della storia europea: come l’equilibrio del congresso di Vienna è durato in un certo senso fino quasi alla prima guerra mondiale, così l’e­quilibrio della seconda guerra mondiale è finito con l’89. Quindi siamo in una situa­zione generale di destabilizzazione in cui chi ha o crede di avere forza economica, militare, politica o anche ideologica, cioè di idee che possano trascinare gente, oggi gioca le sue carte e tenta di intervenire in questa ristrutturazione a proprio favore. Oggi viviamo in una fase in cui tutti i confini in Europa si stanno spostando. Di­cendo confini non penso solo ai colori delle cartine geografiche dove questa o quella zona appartengono a questo o quel­lo Stato. Parlo anche di confini economi­ci, per esempio tra benessere e miseria. Parlo del riemergere di antichi confini, per esempio all’interno dell’Europa cristiana tra la cristianità occidentale e quel­la orientale, cioè tra il mondo cattolico e in parte protestante dell’occidente euro­peo, che finora ha vinto nella corsa euro­pea, e l’oriente europeo, il mondo essen­zialmente ortodosso che finora si è dimo­strato più lento e vischioso, meno competitivo; oppure dei confini tra la cristianità e l’Islam. I confini, cioè gli equilibri, sono oggi rimessi in discussione tra est e ovest e anche tra nord e sud in Europa. Si pensi anche alla discussione, che per ora in Italia è arrivata poco, sull’attuale allargamento dell’Unione Europea, che è un al­largamento che sposta il baricentro a nord, cioè con l’Austria ma soprattutto con i paesi scandinavi. Ripeto quindi che siamo in una situazione abbastanza fluida, in cui tutti quelli che pensano di avere una forza in campo da gettare, economica, po­litica, militare, ideologica, culturale, idea­le, per tirare la coperta dalla propria parte per ridefinire zone di influenza, lo fanno.

 

Tra egemonie serbe e croate riprende il nazionalismo albanese

Tornando un attimo alla questione del Kosovo e da lì alla ex-Jugoslavia, io cre­do che possiamo osservare che nella peni­sola balcanica dalla fine del dominio otto­mano, quindi dall’inizio del nostro seco­lo, le due nazioni principalmente protago­niste in conflitti sono state i serbi e i croa­ti. Gli albanesi erano abbastanza margina­li, nel senso che erano comunque confina­ti in una situazione di scarsa autonomia politica. La stessa Albania ha faticato a sorgere, è stata poi invasa e occupata dall’Italia, dopo aver riacquistato l’indipen­denza è vissuta per lungo tempo auto iso­lata sotto il regime di Enver Hoxha, quin­di è stata praticamente assente. Sembrava che su quell’area dei Balcani essenzial­mente due popoli si disputassero l’egemo­nia: quello serbo e quello croato, con con­flitti anche molto sanguinosi, in particola­re nel periodo della seconda guerra mon­diale. In questo quadro la questione alba­nese era relegata ad essere abbastanza marginale. II Kosovo poteva essere effettivamente una questione interna e la pre­senza di una popolazione da due a tre mi­lioni di albanesi nella ex federazione ju­goslava, principalmente nel Kosovo ma anche in Macedonia e Montenegro o co­me emigrati anche in Serbia e altrove, pa­reva una questione minore che sembrava poter essere risolta in termini interni di autonomia.

Ovviamente oggi la situazione è molto diversa perché in poco tempo è riemersa una questione albanese nei Balcani. Intanto l’Albania ha recuperato una situazione di maggior democrazia interna e questo è molto importante, perché prima difficil­mente gli albanesi che non vivevano in Albania avevano nostalgia dell’Albania, che era un grande carcere: l’albanese ko­sovaro, l’albanese in Macedonia e quello in Montenegro stavano in realtà meglio dell’albanese in Albania e non c’era una grande aspirazione ad unirsi.

Diversa la situazione oggi. Oggi il popolo albanese, per lungo tempo svantaggiato da molti punti di vista, comincia a contar­si e a dire: noi siamo, se ci mettiamo tutti insieme, quasi sette milioni. Sulle cifre non voglio sbilanciarmi particolarmente, ma è un popolo della stessa stazza nume­rica di altri popoli non grandissimi; è co­munque un popolo numeroso e quindi credo che non dobbiamo meravigliarci se oggi nella disintegrazione e nel riassetto generale va alla ricerca di fattori di integrazione nazionale.

Oggi il nazionalismo riprende fortemente quota: i precedenti fattori di federazione e di integrazione si sono in parte rivelati fallaci, il socialismo come obiettivo co­mune, che doveva essere il momento fe­derativo dell’Est, è praticamente dissolto. Gran parte dei nostri fattori federativi so­no inapplicabili all’Est: nell’Europa Oc­cidentale il fattore federativo degli ultimi 40 anni è stato il mercato, prima potevano esserlo la comune fede cristiana, o un principio dinastico; ma che mercato co­mune si può proporre nelle condizioni at­tuali dei paesi dell’Est? In quei paesi il mercato non può essere un fattore federa­tivo intorno al quale aggregarsi e in nome del quale impegnarsi. In quei paesi al massimo può esserci il tentativo di vince­re a gomitate una corsa in cui comunque ci saranno pochi vincitori e molti perden­ti. lo credo che non dobbiamo meravi­gliarci troppo dell’importanza del nazio­nalismo per chi non ha grandi patrimoni economici o materiali da spendere.

 

Le contraddizioni e il cattivo esempio dell’Europa

Questa forza di attrazione del nazionali­smo credo sia anche rafforzata da alcuni insuccessi e da alcune evidenti contraddi­zioni dell’Europa Occidentale. Ne indico solo due:

  1. Non siamo riusciti a proporre e realiz­zare veramente un’Europa dei diritti. Fin­ché c’era la cortina di ferro abbiamo det­to: noi possiamo fare l’Europa comune con tutti quelli che hanno democrazia, perché eravamo ben sicuri che quelli re­stavano fuori. Appena questa clausola di esclusione è scomparsa, abbiamo detto: sì, possiamo fare l’Europa comune con tutti quelli che hanno democrazia e che hanno anche una moneta forte. Si è aggiunta una clausola che ha sbugiardato sostanzial­mente l’intera promessa europea e che quindi ha reso molto più lontana una prospettiva di integrazione europea.
  2. La seconda promessa che non abbiamo mantenuto è che anche noi, pur con la moneta forte, non abbiamo in realtà co­struito veramente un’Europa comune. Il nazionalismo, per cui ognuno fa per sé e tenta di essere più forte degli altri, non è veramente debellato all’interno dell’Unione Europea. Noi assistiamo, e sul campo jugoslavo questi si sono scatenati peggio che mai, a una forte competizione di interessi nazionali, spesso divaricanti e a malapena ovattati nell’Unione Europea. Quindi anche l’esempio di integrazione sovranazionale che potevamo dare noi non è granché.

Credo non dobbiamo meravi­gliarci troppo che la seduzione nazionali­stica oggi sia così fortemente in crescita, praticamente, è un po’ l’unica idea forte che circoli. E in un certo senso un’idea federativa, però non di più popoli, perché per l’appunto l’idea nazionalistica difficilmente federa più popoli, anzi generalmente li aizza uno contro l’altro. Credo che oggi dobbiamo realisticamente riconoscere che nello spazio ex-jugoslavo si affrontano tre aspirazioni di pari dignità e di sempre più pari virulenza: l’aspirazione alla grande Serbia, quella alla grande Croazia e quella alla grande Albania; que­sto trascurandone altre minori. La guerra bosniaca in questo senso probabilmente rischia di dare un primo premio all’aspi­razione alla grande Serbia e di aiutare un po’ l’aspirazione alla grande Croazia. Se questo sarà l’esito della guerra bosniaca, cioè un rafforzamento rispettivamente dell’idea della grande Serbia e dell’idea della grande Croazia, allora sarà ancora più difficile che si neghi legittimità alla stessa aspirazione da parte albanese. Si potrà dire che gli albanesi sono più deboli, che Tirana non ha né lo stesso poten­ziale militare di Belgrado né le stesse amicizie economiche di Zagabria, però sarà difficile negare questa legittimità. Questo mi pare venga fuori rimettendo in­sieme il “firmamento” europeo e il “suo­lo” del Kosovo. Peraltro esso è considera­to sacro da parte di due popoli, quello serbo e quello albane­se; e sapete che i conflitti intorno alle ter­re sacre sono particolarmente inestricabili, perché ne va dell’anima dei rispettivi popoli e quindi succede che sia ancora più difficile che altrove intravedere una solu­zione non dico facile, ma abbastanza sod­disfacente.

 

La spartizione etnica: inclusione ed esclusione forzate

La possibilità di guarigione dipende forte­mente dalla soluzione generale che si darà al conflitto. Sarà una soluzione etnica, cioè quella di, un po’ come si illudeva il presidente Wilson alla fine della prima guerra mondiale, “poter ritracciare i confi­ni europei secondo principi chiaramente riconoscibili di insediamenti etnici”? Sappiamo benissimo che questo principio è stato disapplicato; io vengo da una terra, l’Alto Adige, che in quel caso non avreb­be dovuto andare all’Italia. Allora i prin­cipi del presidente Wilson non sono stati rispettati, ma ancora più difficile sarebbe applicare criteri così in una regione del mondo in cui l’intreccio tra popoli è molto più variegato.

Dico però che se la comunità internazio­nale, le grandi potenze singolarmente pre­se, la NATO e le Nazioni Unite alla fine decidessero, come mi pare stia succeden­do, che la spartizione etnica, e diciamo pure con parola brutale l’epurazione etni­ca, è alla fine la soluzione più semplice e cominciassero ad applicare questa solu­zione in Bosnia con separazioni ab­bastanza nette, tracciando confini che via via si solidificano, allora sarà molto diffi­cile che nel Kosovo si applichi un principio diverso.

Ovviamente quando parliamo di soluzioni etniche io credo che si possano intendere varie cose. Credo che ci siano due moda­lità per soluzioni chiaramente etniche: una è quella della inclusione forzata delle et­nie diverse, cioè dell’assimilazione, della negazione di identità (intendendo semplicemente con etnia un gruppo che ha in comune la religione o il colore della pelle, e non etnia nel senso più lato, di ciò che dà il senso del noi). Nel caso del Kosovo per esempio questo significa dire: è terra ser­ba, punto e basta! Che poi parlino un dia­letto locale che si chiama albanese non ci interessa, ma fa parte della Serbia. L’esclusione forzata invece può andare dalla ghettizzazione alla cacciata fino alla solu­zione più tragica dello sterminio. Entram­be queste soluzioni io le chiamo soluzioni etniche, perché vince una linea chiara di demarcazione etnica, l’esclusivismo etni­co, cioè un monocolore etnico. Dall’altra parte ci sono quelle soluzioni che in qual­che modo puntano alla convivenza, che sono quindi contrarie all’esclusivismo etnico e prevedono invece esplicitamente possibilità di pluralismo etnico e di convivenza. Questo non vuol dire solo non venire massacrati o sterminati, vuol dire anche poter sviluppare la propria lingua, cultura, religione, scuola; insomma tutto quello che fa parte del noi collettivo.

Nello spazio ex-jugoslavo purtroppo la conflittualità oggi è ancora in alto mare pur essendovi stata una prima decisione in favore dell’opzione etnica. Le secessioni erano anche un’opzione in favore della delimitazione etnica. Oggi in Croazia e in Serbia si tenta di costruire una forte omo­geneità nazionale; in Bosnia emerge un’identità musulmana che prima era un fatto culturale, ma che oggi sempre più diventa senso dell’identità e dell’incompatibilità albanese nel Kosovo; un sentimento simi­le è destinato a crescere nella Vojvodina tra gli ungheresi. Così la Slovenia è di­ventata oggi una nazione molto fiera di sé, che non vuole confondersi con altri ed essere confusa nel calderone balcanico. In vari modi la corsa verso una netta affermazione etnica è oggi l’opzione pre­valente, ma non ha ancora totalmente vinta.

 

La convivenza non si può imporre

Ora è evidente che noi non possiamo da fuori dare lezioni a nessuno e dire: voi dovete scegliere la convivenza invece della separazione etnica. Non abbiamo diritto, tanto più se la nostra esperienza di convi­venza non è tra le migliori e comunque è per ora una convivenza per ricchi, in cui molti conflitti possono essere coperti da una certa abbondanza di mezzi che per­mette di attutirli. È ovvio che se c’è un’acuta lotta per il pane e per il tetto è anche molto più facile che i fattori di differenziazione si trasformino in fattori di esclu­sione. Se il lavoro è poco, perché dobbia­mo spartirlo con qualcuno? Se avere una casa è difficile, perché dobbiamo ammet­tere altri che non facciano parte del nostro noi? E così via. È chiaro che la diversa si­tuazione socio-economica influisce molto e che la povertà esaspera tendenzialmente i conflitti etnici.

Allora cosa si può fare oggi per sostenere la convivenza senza pensare di imporre soluzioni il meno possibile violente e in­giuste? Innanzitutto credo sia abba­stanza evidente che le soluzioni nonviolente, o meno violente, vanno nella direzione della convivenza e non della epura­zione o della demarcazione etnica, perché la demarcazione etnica può essere ot­tenuta solo con un grande impiego di vio­lenza: con guerre, massacri, attacchi, re­pressioni, discriminazioni, espulsioni, campi di prigionia. Lo stiamo vedendo, e non solo in Jugoslavia, ma anche in realtà da noi geograficamente più lontane e quindi meno percepite, come nel Caucaso ed in altre zone della ex Unione Sovietica. In questo contesto io credo che soluzioni nonviolente debbano andare nella direzio­ne di sostenere il più possibile gli elemen­ti di convivenza, di compatibilità, gli ele­menti che puntano non all’esclusione et­nica, ma in qualche modo a processi di reintegrazione. Questo non vuol dire ricostruire la vecchia Jugoslavia, fare una fe­derazione Balcanica; tutto questo è pre­maturo immaginarlo, però sostenere i fat­tori di integrazione credo che dia alcune possibilità e abbiamo su questo anche una grande responsabilità.

 

L’esperienza del Verona Forum

Io cerco in conclusione di indicare alcuni passi in base all’esperienza di un organi­smo che sta praticando questa reintegra­zione. L’organismo al quale mi riferisco si chiama Forum di Verona per la Pace e la Riconciliazione nella ex-Jugoslavia. La prima riunione è stata fatta a Verona nel ’92 e oggi la rete, pur sempre piccola, è la più consistente tra forze democratiche di tutta la ex-Jugoslavia. Vi cooperano qual­cosa come 150 persone di tutte le parti della ex-Jugoslavia, dal Kosovo alla Macedonia, dalla Slovenia a tutte le parti bo­sniache e a tutte le regioni della Croazia, Istria e Dalmazia comprese. Il Forum di Verona ha lavorato finora attraverso mo­dalità molto complicate: vi partecipano persone che normalmente non si possono neanche parlare, cioè che si possono in­contrare solo se invitate all’estero – se si riesce in tempo a provvedere a tutti i visti e a tutte le complicazioni aggiuntive – o che si possono parlare per telefono se noi da un paese nostro riusciamo a collegarci contemporaneamente con Belgrado, Zagabria, Prishtina e così via. Quindi que­ste persone affrontano enormi difficoltà solo per mantenere aperto un filo di di­scorso e di confronto reciproco, invece che parlarsi dai pulpiti delle rispettive te­levisioni e giornali, che sono normalmen­te pulpiti di odio e di istigazione e non di dialogo. Cercherò di riassumere quello che oggi è lo stato delle proposte rivolte in particolare alla società civile e quindi a chi si riconosce in questo convegno.

 

Nove punti per la convivenza etnica

  1. Come ho appena detto, una prima ri­chiesta immediata e fondamentale è quel­la di agire, e mi pare che questo stesso convegno lo stia facendo, per riaprire le comunicazioni, riattivando ad esempio le linee telefoniche, dove a volte basta inse­rire un jack. È una questione politica e non tecnica: non sono distrutte. Riaprire tutte le comunicazioni: posta, telefoni, strade, ferrovie, aeroporti.

  2. Una seconda richiesta è quella di soste­nere un’ampia e assai più robusta offensi­va di informazione. Oggi esistono mi­gliaia di giornalisti di tutte le parti della ex-Jugoslavia che sono ridotti al silenzio nei rispettivi paesi, perché non cantano nel coro nazionalista. Quindi non si tratta di paracadutare la CNN, ma sostanzial­mente di dare mezzi, cioè microfoni o emittenti, perché in questa area ci sia di nuovo un’informazione non dipendente da singoli regimi. Una delle proposte che da lungo tempo si discute, ma non si rie­sce a rendere operativa, è di prendere a questo scopo la ex Radio Free Europe, la radio che da Monaco e poi da Budapest si rivolgeva all’intero Est Europeo. Purtrop­po un’esperienza sostenuta dalla Comu­nità Europea, tentata l’anno scorso e salutata da noi con grande favore, cioè quella della nave nell’Adriatico, è stata un’esperienza troppo debole (non arrivava ad ab­bastanza interlocutori, copriva appena un pezzo di costa) e forse anche, mi permetto di dire, troppo caratterizzata dalla nostal­gia per la vecchia Jugoslavia: aveva un fondo di ipotesi politica in cui molti degli attuali protagonisti e contendenti non si riconoscevano abbastanza.
    Non ho difficoltà ad ammetterlo: perso­nalmente sono un nostalgico della vecchia Jugoslavia, nel senso che avrei fatto tutto il possibile per mantenerla, anche se so che era piena di errori. Però non solo non pretendo che altri condividano questa convinzione, credo anche che oggi sareb­be un grave errore insistere a vedere come fattore di dialogo, di convivenza e di inte­grazione solo coloro che erano fan della vecchia Jugoslavia. Questo non portereb­be da nessuna parte e quindi bisogna che oggi i protagonisti del dialogo, della ri­conciliazione, della reintegrazione venga­no cercati anche tra coloro che aborrisco­no la vecchia Jugoslavia, anche nel Koso­vo, ovviamente.
  1. La terza richiesta, e qui mi rivolgo di nuovo in particolare alle autorità locali, anche se poi sono gli Stati che la devono sostenere, mi pare riguardi una volta in più la questione dell’accoglienza, non so­lo di profughi in generale, ma in partico­lare di coloro che si sottraggono alla guer­ra.
    Credo che non esista metodo più efficace per sottrarre forza alla guerra che ospitare le persone che si rifiutano di prendervi parte, cioè disertori e obiettori di coscien­za. Oggi per esempio in Germania si co­mincia a rispedire indietro le persone che in varie parti della ex-Jugoslavia hanno ri­fiutato il servizio militare.
  1. Credo anche che ci sia il bisogno, al di là del dibattito se debbano essere italiani o non italiani, di rafforzare molto la presen­za di truppe dell’ONU nell’ex-Jugosla­via. Credo che da questo punto di vista, lo dico sapendo che forse urto la sensibilità di qualcuno, un ultimatum come quello della NATO, peraltro richiesto dal Consi­glio di Sicurezza, sia stato salutare e quin­di personalmente dissento da coloro che hanno subito gridato all’orribile ultima­tum della NATO. La NATO ha accolto una richiesta del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e mi pare che la pres­sione su Sarajevo si sia molto allentata.
    Adesso forse ci vorrebbe la stessa cosa per Gorazde, però mi sembra che esista la necessità, al di là di singoli momenti, del ripristino di una situazione di autorità in­ternazionale, visto che le autorità locali sono fortemente in conflitto tra loro. Pen­so in particolare al problema degli arma­menti pesanti. Certo si muore anche di ar­mamenti leggeri, ma fa una grande diffe­renza essere cannoneggiati o bombardati dal cielo, dove c’è una disparità tale che chi possiede armi pesanti può evidente­mente colpire molto fortemente.
  1. Credo ancora che sia importante che si sostenga il Tribunale internazionale per i crimini contro l’umanità commessi nell’ex-Jugoslavia, che sulla carta già esiste, nel senso che esistono i giudici, un codice di procedura, un piccolo finanziamento iniziale. Questo Tribunale chiaramente non può risolvere i problemi politici, ma tutti i democratici nell’ex-Jugoslavia lo chiedono come condizione essenziale an­che per riabilitare il loro buon nome. Per esempio i democratici serbi dicono che se non si distinguerà mai tra criminali e per­sone civili e democratiche, tutto verrà im­putato come colpa collettiva. Questo tri­bunale è un po’ come un figlio messo al mondo con due risoluzioni quasi rivolu­zionarie del Consiglio di Sicurezza dell’ONU nel febbraio e nel maggio dell’anno scorso, che adesso è come esposto davanti ad un convento e non si sa ancora se qual­cuno veramente lo alleverà. Io credo che noi, in particolare nell’Unione Europea, dobbiamo crederci fortemente: il che vuol dire recepirne i provvedimenti, dare la necessaria assistenza, finanziarlo; assistenza vuol dire anche fornire giuristi e persona­le perché possa funzionare, altrimenti c’è il rischio che venga utilizzato come sem­plice arma di pressione politica, e le po­tenze lo tengano lì in serbo, minacciando: o bombardiamo o usiamo il Tribunale, o vi mettete d’accordo. Se vi mettete d’ac­cordo allora mettiamo una pietra sopra e chi si è visto si è visto. Invece quella so­cietà oggi, se non vogliamo che ci siano odi lunghissimi, ha un forte bisogno di giustizia; poi magari potrà anche amni­stiare e riconciliare, ma deve stabilire le responsabilità.

  2. Sugli aiuti umanitari non credo di aver bisogno di parlare qui, perché altri lo han­no fatto e soprattutto perché mi rivolgo a persone che sono già informate perché li stanno attuando.

  3. Credo inoltre che sia importante chie­dere gli stessi diritti per tutte le minoranze ed etnie in tutta la ex-Jugoslavia, qualun­que sia la situazione statuale.

  4. Credo che per il Kosovo in particolare sia necessario che oggi ci si muova forte­mente a livello governativo e che si dia visibilità e riconoscimento particolare alla scelta nonviolenta finora mantenuta. Cre­do che questa scelta debba essere anche nobilitata, cioè debba essere internazionalmente riconosciuta come una scelta che non è semplicemente di debolezza, cioè di uno che non ha abbastanza armi o appoggi per combattere. Se viene ricono­sciuta e valorizzata come scelta politica, c’è anche la speranza che in un momento in cui i rapporti di forza cambiassero ven­ga mantenuta e questo sarà cruciale, per­ché altrimenti guai alle vendette!

  5. Concludendo credo che si debba forse da parte della nostra società civile rilan­ciare una proposta che ogni tanto ci viene fatta da varie parti della ex-Jugoslavia e che oggi può sembrare anche assurda, ma che vorrei fare mia con piena convinzio­ne, cioè chiedere che a tutti coloro che intendono rappacificarsi nell’ex-Jugoslavia venga offerto uno status di associazione speciale (la formula la si potrà inventare) con l’Unione Europea, valorizzando la lo­ro scelta di pace come una scelta di Europa.

 

Intervento al Colloquio internazionale di Venezia “I paesi dell’Est fra transizione pacifica ed esplosione di conflitti” - Trascrizione da registrazione del 9 aprile 1994

Azione nonviolenta, ottobre 1994

 

 

 

 

 

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