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La lezione dei risorgenti nazionalismi

1.9.1991, Comuni d'Europa
la prospettiva regionalista e federalista

Dobbiamo chiederci cosa ha da imparare l'Europa dalla disgregazione jugoslava, dall'esperienza baltica e più in generale dalla dissoluzione dell'impero sovietico-zarista, e dai risorgenti rigurgiti di antiche o recenti domande di autoaffermazione etnica o nazionale, che possono affacciarsi dovunque, dalla Scozia al Sudtirolo, dalla Transilvania alla Catalogna. Bisognerà affrontare senza reticenze il dibattito sul disagio che ormai non poche strutture falsamente nazionali o insufficientemente sovra-nazionali ingenerano. E se non si vuole che la risposta consista in una miope ricaduta verso la fede negli stati nazionali (nuovi, da costruire, o vecchi, da difendere), bisognerà aprire coraggiosamente una prospettiva regionalista e federalista insieme. Un'Europa unita e federalista, ovviamente ben più larga dell'odierna C.E., dovrà saper essere fantasiosa nel ridisegnare la mappa dei tessuti regionali, anche al di là degli odierni confini di stato. Esistono in Europa situazioni di questo genere, e non di rado potrebbero offrire una soluzione pacifica e non troppo traumatica a domande da lungo tempo insoddisfatte di diversa aggregazione politico-statuale o di diverso assetto autonomistico-istituzionale. Basti pensare alla realtà dei Paesi Baschi (in Spagna ed in Francia), all'Istria e forse le regioni vicine (l'Istria viene ora a trovarsi divisa tra Slovenia e Croazia, ed ha comunque legami stretti anche con il Friuli-Venezia Giulia), all'antico Tirolo (oggi diviso tra Alto Adige/Sudtirolo, Trentino e Tirolo austriaco) e più ampiamente alle diverse comunità alpine inter-regionali già esistenti (ARGE ALP, ALPE ADRIA), o alla Savoia ed all'Occitania nelle Alpi occidentali, o alla regione che tra Basilea, Strasburgo e Lussemburgo si estende al di qua ed al di lá del Reno o ad altre situazioni ancora, che si stanno aprendo soprattutto nell'Europa centrale ed orientale. L'alternativa all'emergere di pericolosissime spinte all'esclusivismo etnico ("tanti gli stati quante le etnie", "ogni stato per un'etnia sola", "non si può star bene se non si è etnia esclusiva o maggioritaria sul territorio") o di tendenze a spostare confini, può essere solo superata rendendo tali confini sempre meno incisivi, e facilitando la ripresa di antichi rapporti di comunanza storica, culturale, linguistica ed economica, amputati spesso dalla logica di potenza degli stati nazionali. Ma ovviamente tale riattivazione o addirittura la crescita di nuovi tessuti regionali non potrebbe avvenire nella cornice degli attuali stati nazionali: si arriverebbe immediatamente a nuove controversie territoriali ed a pericolosissimi conflitti inter-etnici o inter-statuali. Ecco perché occorre pensare ad un'Europa unita e federalista, nella quale gli attuali stati nazionali via via si stemperino nella loro sovranità ed esclusività, e nella nitidezza dei loro confini, ed entrino a far parte di un comune tessuto federativo, nel quale il decentramento di reali poteri e la costruzione di nuovi rapporti tra regioni limitrofe possano crescere con il ritmo "omeopatico" della società civile e non invece attraverso le rotture "chirurgiche" di traumatiche secessioni o annessioni. E naturalmente le future regioni europee dovranno saper sviluppare tutta la loro vocazione pluri-lingue e pluri-culturale, per far crescere la convivenza e le inter-relazioni tra popolazioni che insieme abitano e curano territori contigui.

Regioni ed integrazione europea

A questo proposito va preso atto, finalmente, che la costruzione dell'unità europea, cui giustamente i cittadini italiani hanno assegnato da tempo, ed anche attraverso la loro massiccia e convinta risposta al referendum contemporaneo all'elezione del Parlamento europeo nel 1989, un grande valore, si trova oggi davanti ad un bivio cruciale. Abbiamo da scegliere tra la routine dei piccoli passi verso una più compiuta "Europa dei 12+..." (cioè più qualcuno che sarà via via ritenuto degno di entrare in questo club), sempre però ancora dominata dalla logica degli Stati nazionali tra loro più o meno confederati, o viceversa una decisa svolta in avanti verso una Unione dell'Europa democratica che ovviamente non può più partire dal carbone, dall'acciaio, dal nucleare, dalle sovvenzioni agricole, dall'economia o dalla comune moneta europea, ma che dovrà basarsi sul comune patrimonio storico e culturale, sui comuni valori dei diritti umani e della democrazia, oggi finalmente più liberi di affermarsi al di là ed al di qua della profonda ferita che aveva spaccata l'Europa, e su un comune progetto di solidarietà europea verso il resto del mondo, ed in particolare l'emisfero meridionale del pianeta.

Da dove possono venire le forze capaci di immettere nuovi stimoli ed impulsi finora inediti nella costruzione europea? Difficilmente dal Consiglio dei 12 governi, o da essi singolarmente presi, visto che obbediscono ad una logica di sovranità nazionale. Altrettanto vale, temo, per gran parte dei Parlamenti nazionali dei 12 Stati membri della Comunità (ma mi auguro di sbagliare per eccesso di pessimismo). Ma neanche la Commissione esecutiva della C.E., pur assai più vicina al ruolo di un governo europeo comunitario (nominato però dai governi nazionali, non certo da una rappresentanza democraticamente eletta dei cittadini d'Europa), è oggi in grado di rappresentare ed affermare un punto di vista che vada coraggiosamente oltre il miraggio del "mercato unico" che sembra poi essere la quintessenza dell'attuale progetto europeo. Sotto questo profilo, tra le istituzioni in campo, il Parlamento europeo - pur nella sua cronica carenza di poteri - può essere già più indicato a svolgere un ruolo propositivo e di intensa messa in mora delle procedure e delle logiche attualmente prevalenti. Ma non basta: oggi si sente il bisogno di una nuova spinta, una sorta di nuovo mandato che venga dai cittadini d'Europa che vogliono arrivare all'unità politica democratica del nostro continente ed al superamento degli Stati nazionali ereditati dal passato, in nome del superamento di vecchi steccati, ma anche di una domanda di maggiore e più reale partecipazione.

Ecco dove si vedono entrare in campo due nuovi protagonisti, sinora (forzatamente) troppo assenti o marginali nella costruzione europea: i popoli dell'Europa centrale ed orientale, da un lato, e le autonomie locali - ed in particolare le regioni, i Länder, le altre autonomie territoriali sovracomunali - dall'altro. Entrambi postulano un'Europa unita più convinta, più reale e più larga, ma anche più articolata e più democratica, più capace di accogliere e valorizzare le diversità e le peculiarità, più attenta a non diventare davvero una superpotenza economica (e in futuro magari anche politico-militare) telecomandata dagli eurocrati di Bruxelles e dai grandi gruppi finanziari.

Alle regioni, alle autonomie, alle "democrazie locali" non serve, penso, una futura rappresentanza corporativa, nè semplicemente dei terminali più efficaci tra centro e periferia. Esse esigono, al contrario, una costruzione europea veramente policentrica, capace di far convivere le diversità senza annullarle e di sviluppare la cittadinanza europea senza umiliare ed appiattire la cittadinanza regionale, in tanti casi ricca di valori ed identità cresciute ed affermate nella storia.

Di fronte alle conferenze inter-parlamentari, inter-governative ed inter-istituzionali sul futuro dell'Unione europea che si stanno svolgendo, c'è un gran bisogno che si levino voci che chiedano queste tre cose:

1) che si acceleri e si approfondisca il processo di integrazione europea, dandogli finalmente una qualità democratica e politica che assegni il primato all'"unione politica" invece che al "mercato comune"; ciò richiederà - fra l'altro - un serio rafforzamento del Parlamento europeo ed il riconoscimento del suo potere costituente;

2) che l'Europa unita non si accontenti dei 12 attuali soci comunitari, ma si apra ad una reale unità europea, dove la comune eredità storica e culturale faccia premio su presunte ragioni di omogeneità socio-economica;

3) che l'unione europea si faccia in termini davvero federalisti, ridisegnando una mappa dei poteri, delle competenze e delle autonomie tale da garantire che dei poteri attualmente detenuti dagli Stati c.d. nazionali altrettanti vadano a finire "verso il basso" (le autonomie locali, i cittadini) quanti "verso l'alto" (l'Unione europea, la federazione), e che i vecchi confini statali comincino a diluirsi soprattutto là dove il buon vicinato inter-regionale consente la maturazione verso "regioni europee".

Non sarebbe tollerabile (e diventerebbe giustificata l'eventuale resistenza dei parlamenti nazionali) un trasferimento di sovranità e di poteri dalle attuali assemblee rappresentative "nazionali" verso organi sovra-nazionali privi di legittimazione e controllo democratico, e sarebbe altrettanto intollerabile un accentramento di poteri e competenze che finisse per esautorare di fatto non solo le istanze locali, ma soprattutto i cittadini, che si troverebbero in tal caso alle prese con interlocutori sempre più lontani e più inafferrabili. In tal caso non dovremmo meravigliarci troppo se sempre nuove spinte isolazioniste e secessioniste emergeranno.

Penso che le assemblee legislative delle Regioni (e Province Autonome) che vorranno intervenire e far sentire la loro voce in relazione alla tappa oggi matura dell'unificazione europea, potrebbero dare un importante contributo a far maturare queste (ed ancora altre) istanze che oggi molti cittadini avvertono, sapendo di essere al contempo pienamente "europei" e pienamente "indigeni" nelle loro realtà locali e sul territorio affidato alla loro cura.

Da "Comuni d'Europa"
Settembre 1991
pro dialog