Alexander Langer Alexander Langer bibliografie - recensioni 2005-decennale-Testimonianze

Scritti di Alex Langer Racconti e ricordi Dediche bibliografie - recensioni
2005-decennale-Testimonianze
2010 - convegno Cenci 10 punti x convivenza- traduzioni 10 punti convivenza - riflessioni Recensioni opere 2019 - Pongiluppi-minimapersonalia
Tesi e ricerche Riviste Video - Audio L’archivio di Alex Eventi
alexander langer (22) Cassar-Simma: Abbi cura - Trag Sorge - Take Care (11)

Francesco Palermo: La linea vitale della complessità

2.12.2005, L'Europa nasce o muore a Sarajevo. Euromediterranea 2005
Nessuno sa bene cosa sia l’Europa, eppure se ne parla come se lo si sapesse. L’accezione comune contemporanea del concetto di “Europa” è di tipo istituzionale. Tale accezione tende a identificare un continente dai confini incerti con un numero indefinito di Paesi, accomunati da un legame sovranazionale che ne determina la riduzione di onnipotenza, entro il quale essi si assoggettano volontariamente ad un sistema di poteri limitati. Il legame sovranazionale più intenso, il nucleo duro, è rappresentato dall’Unione europea (è questo che comunemente si intende dicendo “Europa”, come spesso si hanno in mente gli Stati Uniti dicendo “America”), anche se essa stessa è tutt’altro che un monolite giuridico: molte politiche importanti, dalla difesa alla moneta, dall’immigrazione allo stato sociale, sono (variabilmente) comuni solo ad alcuni Paesi, e non ad altri. Talvolta, specie pensando all’area balcanica e alla parte più orientale del continente, si ha di “Europa” un concetto istituzionale più vasto, coincidente con il Consiglio d’Europa o con l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE), forme di integrazione più deboli ed ampie e tuttavia frutto del medesimo processo di limitazione del potere.
Questo per dire che nessuno sa bene cosa sia l’Europa in senso concreto, e tuttavia sembra di rinvenire un dato comune a tutte le sue accezioni: fare qualcosa insieme, e dunque concepire il potere in modo non assoluto. Qualunque cosa sia l’Europa, essa significa potere limitato. Limitato dalla complessità del suo agire e dal pluralismo degli interessi di cui è portatrice. L’Europa è il frutto della complessità e del pluralismo moderni, ontologicamente insofferenti alla concentrazione, dunque alla semplificazione, del potere.

Questa premessa contiene già in sé un tentativo di soluzione al quesito langeriano su cui siamo chiamati a riflettere: l’Europa rinasce o muore a Sarajevo? La risposta sta nel modo con il quale l’Europa affronta e gestisce il problema della complessità, e sa agire e reagire ad esso. Ma proprio questo sembra essere l’aspetto deficitario dell’Europa di oggi, che rende ancora attuale l’initerrogativo iniziale.
La risposta alla domanda d’Europa – una domanda anche pressante, urlata dalle fosse comuni della Bosnia e in seguito da molti altri luoghi di dolore – è stata finora un goffo tentativo di politicizzare l’Europa come fosse uno Stato, rincorrendola con simboli, con richiami culturali, con sovrastrutture che complessivamente hanno finito per nuocere alla sua reale capacità di cogliere i problemi.
Tre domande fondamentali aiutano a chiarire il rischio di stallo nel quale l’Europa si trova e le possibili vie d’uscita: quali sono le ragioni dell’attuale blocco costituzionale? Come può efficacemente porsi l’Europa di fronte alle crisi regionali, dai Balcani al resto del mondo, acquistando una capacità di azione esterna che al momento ancora le manca? Quali strumenti ha a disposizione, e come può utilizzarli?

L’attuale impasse costituzionale era in buona parte prevedibile, e lo era proprio per l’errata valutazione della complessità su cui l’Europa necessariamente si fonda. Si è voluto semplificare troppo proprio nel momento in cui il modo di funzionare dell’Europa ha preso atto della sua inevitabile complessità istituzionale e decisionale e del pluralismo delle sue legittimazioni. L’Unione europea e l’integrazione che produce sono qualcosa di molto diverso da uno Stato, e la legittimità del suo potere non può stare solo nella ricerca del consenso “democratico”, ma sopravvive solo nella diversità delle origini del suo potere. Purtroppo, anziché sforzarsi di ricercare vie nuove e adatte ai nuovi contesti, ci si è pigramente accontentati di scimmiottare uno Stato. Cosa che l’Europa non è né, fortunatamente, sarà mai. Si è cercato così di rispondere alla richiesta di chiarimento istituzionale in una logica banale e vecchia, quella del consenso e della legittimazione democratica, che è solo una delle molte forme di legittimazione possibili.
A ben vedere, il Trattato costituzionale del 2004, che sembra politicamente morto dopo la bocciatura della ratifica nei referenda francese e olandese, è il documento costituzionale sovranazionale più democraticamente legittimato che sia mai stato prodotto. La sua elaborazione è stata affidata ad una apposita assemblea (la Convenzione), rappresentativa di molti soggetti, inclusi in Parlamenti nazionali, ha dato eccezionale pubblicità ai suoi lavori, ha persino fornito ai singoli cittadini la possibilità di intervenire. Eppure, nonostante la sua natura “quasi-democratica”, il Trattato costituzionale è l’unico tra i trattati europei che ha fallito. Perché? Forse proprio per il suo tentativo, maldestro e irrealizzabile, di imitare uno Stato. Di cosa c’è bisogno in Europa? Di più “statualità”, di elezioni che formino i parlamenti, di governi in fotocopia rispetto agli Stati, o piuttosto bisogno di formule politiche e istituzionali nuove?
L’handicap dell’Europa in questo momento costituente è stata la sua incapacità di uscire dalle logiche maggioritarie del consenso, o quanto meno dalla loro esclusività. La stanca ripetizione dei canoni della politica classica (statuale), invece della creazione di formule per allargarle ed integrarle con logiche diverse e più complesse, è alla base delle difficoltà dell’Europa di oggi.

Un problema analogo si pone sul versante esterno. Perché l’Europa finora non è stata un attore di primo piano sullo scenario delle crisi mondiali e regionali? Perché ha dimostrato di sapere, al massimo, reagire, ma non agire, di fronte alla complessità, specie quella etnica e dei conflitti? L’Europa (peraltro in buona compagnia sullo scacchiere internazionale) è intervenuta (quando lo ha fatto) solo per separare le parti in conflitto e tenerle separate, per risolvere il problema nell’immediato ma senza mostrare una capacità strategica per il dopo, per come ricomporre una società lacerata. Le regole sulla normalizzazione post-conflittuale rispondono a logiche diverse rispetto a quelle che gestiscono un conflitto in corso. A differenza di queste, che sono per forza di tipo segregativo (separazione delle parti in conflitto per evitare che la violenza continui), le regole post-conflittuali devono avere natura integrativa, e mirare alla ricostruzione di un tessuto sociale lacerato. Limitarsi ad imporre (o ad assecondare) regole segregative come quelle di Dayton (certamente indispensabili nella fase storica della loro approvazione), senza porsi seriamente il problema delle regole che dovranno disciplinare la fase successiva al conflitto, è un altro sintomo di insufficiente gestione della complessità. La Bosnia e i Balcani mostrano il paradosso di regole che hanno funzionato in qualche modo, per separare le parti in conflitto, ma adesso sono queste stesse regole che impediscono il superamento per via politica della segregazione che hanno imposto. È una spirale negativa che impedisce alla Bosnia di ammodernare le proprie regole, il proprio modo di concepire il consenso.

Infine, quali sono gli strumenti per il governo della complessità? Sono metodi, più e prima che contenuti. Sono i metodi della limitazione del potere, della rule of law. Il nuovo diritto della complessità, il nomos che l’Europa potrebbe darsi (ed ha davanti a sé il rischio di non darsi, se continua a seguire queste logiche iper-semplificate), è fatto di regole asimmetriche, pluralistiche, e negoziali.
Asimmetriche, perché oggi pare indispensabile allontanarsi dall’idea del diritto uguale per tutti. È molto difficile uscirne, perché è un’idea che che ci ha accompagnato per secoli, ma è inevitabile. La complessità sociale e istituzionale richiede strumenti diversi da applicarsi a soggetti diversi, con metodi prestabiliti per l’accesso alle regole differenziate. Pluralistiche, perché prodotte da soggetti diversi. L’utopia parlamentarista e assemblearista rischia di paralizzare l’Europa, limitando fonti di produzione parallele, come le normative tecniche, l’elaborazione giurisprudenziale, le fonti di procedura. Cosi’ come non possiamo pensare a regole uniformanti, allo stesso modo non possiamo immaginare che ci sia un’unica fonte per ogni regola. Infine, negoziali. Pensiamo nuovamente alla Bosnia e a tutti i conflitti etnici. Quale alternativa c’è alle rivendicazioni di determinati gruppi, in uno Stato di diritto? Giustificate o meno che le si ritenga, per uno Stato di diritto non vi è alternativa alla trattativa. Il potere autoritario reprime, lo Stato di diritto negozia anche con coloro di cui non condivide la posizione. E negoziare significa uscire dalle logiche maggioritarie, uscire dalle posizioni dei “numeri che contano”, altrimenti non si fa un buon servizio alla complessità.

La politica, insomma, sempre più deve diventare sostanzialmente un metodo, e questo metodo è la concretizzazione odierna del realismo utopista che Langer mise al centro del suo impegno. In definitiva un’Europa (e tutto ciò che ne fa parte, tutte le creature istituzionali che essa produce e che in essa si immaginano) che teme la complessità (etnica, di governo, religiosa, culturale, sociale, istituzionale), è un’Europa che inaridisce e muore. L’Europa può può fiorire soltanto se irrorata della linfa vitale della complessità.

Francesco Palermo insegna diritto costituzionale comparato all'Università di Verona e Trento
pro dialog