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Massimo Cacciari: La lezione di un uomo dell'apocalisse

3.12.2005, L'Europa nasce o muore a Sarajevo. Euromediterranea 2005
Volentieri ho raccolto l’invito a partecipare a questo convegno, non solo per la grande stima che avevo per Alexander Langer, ma anche per il carattere così tragicamente simbolico che la sua fine ha assunto agli occhi di tutti noi.

Se il termine non fosse usurato e troppo facile intenderlo in senso vagamente enfatico, si dovrebbe proprio dire che Langer è stato un uomo dell’apocalisse.
Il problema tutt’altro che risolto e che sempre più acutamente ci si impone, il problema dell’Europa, del senso dell’Europa, della necessità dell’Europa, Langer ce l’ha sbattuto davanti agli occhi (e chi più di Langer avvertiva la necessità dell’Europa?). E d’altra parte – ecco la tragedia – noi constatiamo qui anche una crescente impossibilità. Questo è il dramma che stiamo vivendo e che Langer ha vissuto in modo così intenso. Da un lato la consapevolezza che l’Europa è necessaria, dall’altra parte la drammatica domanda: è tuttavia possibile? Cercheremo di vedere perché necessaria e se possibile. Cercheremo di vederlo in modo il più possibile critico, nel senso letterale del termine, cioè, se si potesse mai, senza speranze e senza timori, in modo il più possibile obiettivo, come si dice anche da queste parti “wertfrei”.
Langer ha avvertito molto più acutamente di tanti suoi amici e compagni, anche di movimento, politici, eccetera, che con l’89-90, era finito un mondo. Le vecchie categorie, i vecchi modi di pensare, le vecchie appartenenze, erano finite. Aveva capito che all’interno di questo grande, davvero apocalittico, mutamento erano cambiate le forme della guerra, che non ci si poteva più appellare ai vecchi diritti, alle vecchie idee di diritto internazionale, che sono sostanzialmente appunto forme di accordo e di patto interstatale. Si era reso perfettamente conto che con la fine della guerra fredda era finito quel tipo di confronto fra grandi potenze, che ancora poteva essere letto in termini tradizionali di confronto appunto fra potenze statuali. Aveva avvertito tutti questi mutamenti in modo davvero drammatico, davvero sulla sua pelle, nei nervi, nelle ossa. Con una consapevolezza che era centomila leghe più avanti di tanti di noi, di tanti compagni anche del suo movimento e del suo partito. Da qui l’esigenza e la necessità dell’Europa.
Finito quel confronto fra grandi potenze, finita - diciamo - l’era precedente Azio (N.d.R. battaglia navale che vide la disfatta di Antonio e Cleopatra ad opera di Ottaviano, nel 31 a.C.), l’89 è come una grande battaglia che supera una contrapposizione tra aree e decide di un vincitore. Ma il fatto che si affermi un vincitore non significa, come molti ingenuamente o apologeticamente o ideologicamente ritenevano, che il mondo si sarebbe tranquillamente avviato verso un’era di democrazia, di pace universale, eccetera.
Nulla di più lontano in Langer da questa visione ideologico-apologetica. Da un lato - rivolto ai compagni di partito, a un certo popolo della sinistra – diceva: Badate che c’è stata la svolta, badate che non potete più ragionare come se fossimo a Trento nel ’68 o al tempo del Vietnam, qui c’è stata una svolta epocale. C’è stata Azio. E d’altra parte: Badate che questo non significa un impero di pace, al più significa un impero e un impero che sarà percorso da guerre sanguinose, efferate, da guerre apparentemente locali, ma che in realtà di locale non hanno niente, che sono già globali, che in ogni punto scatenano conflitti che hanno valenze planetarie. Com’è successo in Bosnia. La Bosnia non è stata una guerra locale. Ciò che è successo in questi anni non ha niente di locale. È stato il movimento sismico tra masse telluriche: civiltà, culture, etnie, nulla di locale, tutto “glocale”, come dicono i geografi. Anche le guerre sono così.

L’appello di Langer, Europa bada che lì in Bosnia, bada che lì nei Balcani, non si tratta di un fatto locale, periferico, si tratta di qualcosa che mette in discussione, in crisi l’assetto internazionale chiama l’Europa a decidersi. Chi sei Europa? Qual è il tuo gioco in questo nuovo scenario che si è aperto dopo Azio? Quale sarà il tuo ruolo? Vuoi deciderti? Puoi? Hai la forza di deciderti? E con consapevolezza, con rigore? Hai la forza, sì, anche la forza, di condurre un’azione militare in prima persona se necessario? Non è con i buoni consigli o con le buone intenzioni che si mette pace a Sarajevo. Tu Europa vuoi deciderti? Puoi deciderti? Ovvero puoi avere la potenza per fare ciò che eventualmente hai deciso di fare?
Queste erano le domande che ci aveva sbattuto addosso. Nette, chiare, coerenti, rigorose, realistiche. Del realismo di tutti i veri utopisti. L’utopista quando non è realista, è un chiacchierone. Bisogna avere le grandi idee, chiamiamole pure utopie, ma se sono vere utopie, c’è anche il percorso, c’è anche il realismo, c’è anche il disincanto che ci permette poi di vederle con chiarezza e di tentare di realizzarle. Questa era l’impostazione, questo il dramma che stava di fronte a Langer e di fronte a noi allora. E ancora sta di fronte a noi, esattamente in quei termini, pur sperabilmente con l’esperienza nel frattempo accumulata.
Ciò significa che in questo nuovo contesto, in cui anche il conflitto più apparentemente locale diventa globale, l’Europa deve decidersi. I Balcani, l’Afganistan, ogni tipo di guerra, ogni tipo di conflitto, proprio perché è un conflitto in una dimensione imperiale, immediatamente, si comunica a tutti i livelli del sistema. Proprio perché il mondo è sempre più sistema: immediatamente ogni conflitto locale non è più possibile che resti in sede, entra immediatamente nella rete globale. In questa situazione, quale ruolo vuoi giocare Europa? Pensi di poter giocare un tuo ruolo di potenza meramente economica? Cattiva utopia. Utopia, ma cattiva, cioè non realistica. Apparentemente ultrarealismo, in realtà cattiva utopia. E lo stiamo vedendo drammaticamente. Un’Europa che decide di giocarsi soltanto come potenza economica, declinerà anche come potenza economica. È esattamente quello che sta avvenendo. Un’Europa che si chiama fuori dall’essere protagonista nei grandi conflitti politici, nelle grandi contraddizioni politiche della sua epoca, a un certo momento decade anche come potenza economica. È fatta fuori anche come potenza economica. È quello che sta avvenendo, una cattiva utopia. Una grande potenza economica, necessariamente, deve sviluppare una propria potenza politica, com’è sempre stato e come sempre sarà nella storia. Anche da questo punto di vista va ripresa la lezione di Langer, fino in fondo…
Europa!, tu sei chiamata a intervenire come potenza politica nel conflitto balcanico. Dev’essere un conflitto in cui intervieni per deciderlo tu, non per delegare ad altri la sua decisione, non per delegare al sistema impero la tua decisione. Altrimenti, bada Europa, questa tua impotenza politica, questo tuo miserabilismus politico, si tradurrà prima o poi in decadenza anche economica. Ciò che sta avvenendo.

Allora non è questa la strada che dobbiamo imboccare. Ma qual è la strada? Quella di adeguarci e di seguire questa “intolleranza liberatrice” che caratterizza la politica americana? (L’espressione è molto circolata in quel tentativo di costruire un sistema-mondo che è proprio della politica e dell’ideologia americana.) Non faccio assolutamente un discorso antiamericano, così come non lo faceva assolutamente Langer. È un’analisi di una grande potenza che si è affermata, che ha vinto come nessuna potenza aveva mai vinto nella storia dell’uomo. Una vittoria di questo genere, così definitiva, non c’era mai stata. Roma non ha mai sconfitto i Parti.
Io l’altro giorno ero in Iran, ci sono le sculture rupestri in cui si vede il povero Valeriano in ginocchio davanti al re Sasanide ed era il III secolo d.C., pieno Impero. Non c’è mai stata una potenza sulla faccia della terra che fosse inattaccabile dal punto di vista militare, che non potesse mai perdere militarmente, che non potesse mai essere affrontata sul piano militare… Mai.
Questo la dice lunga sulle conseguenze. Perché chiunque entrerà in conflitto con questa potenza non potrà, a priori, ricorrere a forme di guerra tradizionali. E se lo farà perderà in partenza.

Questa è una situazione assolutamente inedita sul piano della storia, inaudita. Stiamo vivendo un’epoca eccezionale. Se ce l’abbiamo con qualcuno, non possiamo più affrontarlo come si è sempre fatto, tra amici e nemici. Non possiamo. Dobbiamo trovare altre forme. È inevitabile da un punto di vista logico e strategico. Cambia radicalmente la forma della guerra. Cosa che Langer aveva detto e analizzato.
Dunque, l’Europa deve decidersi, adeguarsi, dire – come qualcuno ha detto negli USA – la storia è finita! Certo, la storia come l’abbiamo conosciuta, come confronto tra potenze statuali, tra volontà statuali egemoniche in qualche modo comparabili (con anche dissimetrie, certo, ma dissimetrie tra potenze equiparabili, quindi forme di guerra diverse, sì, ma tutto sommato riconducibili a una logica che possiamo individuare, eccetera). Tutta questa storia è finita. Quindi occorre adeguarsi a chi ha compiuto la storia. Occorre adeguarsi a questa dimensione politico-economico-imperiale che non solo è egemone dal punto di vista militare, ma è egemone anche dal punto di vista culturale. Perché il suo modo di affrontare i problemi dello sviluppo, i grandi temi della convivenza, i grandi temi dell’economia, della società, eccetera, questa dimensione è larghissimamente egemonica e ogni giorno che passa più egemonica sul piano planetario. Quindi poche ciance!
La differenza – per citare il grande poeta latino – è tra chi segue il carro del destino volentieri, a testa alta, e chi lo segue in catene. Quindi questa è la decisone che l’Europa dovrebbe prendere: lo segui da libero, con le tue gambe o lo segui trascinato in catene. Deciditi!
Ma Langer si ribellava a quest’idea. E di nuovo si rivolgeva all’Europa dicendo: No!, tu Europa devi decidere una tua politica autonoma. Grande tema l’autonomia. Possiamo noi europei avere un nostro “nomos”, nostre strategie, nostre prospettive, in questa epoca che realisticamente Langer vedeva essere un’epoca “post-aziaca”? Possiamo essere autonomi dopo che ha vinto Ottaviano? Questa era la drammatica domanda. E quanto è attuale per l’Europa?

Vedete, l’allargamento (che Langer voleva, avrebbe auspicato, come il sottoscritto, e che va benissimo, tra virgolette) comprende però paesi che quella scelta l’hanno fatta, esattamente nei termini che ho appena detto: nell’epoca “post-aziaca” comanda Ottaviano e io intendo seguire liberamente, non in catene, il destino. Tutti i paesi che hanno raggiunto l’Europa non hanno certo portato, all’interno della costruzione europea, una tale domanda di autonomia politica. Hanno invece espresso una visione puramente atlantica della politica europea. Quindi la domanda di Langer è ancora più drammaticamente attuale, perché la politica di allargamento (necessaria, perché altrimenti non c’è Europa: chiaramente la devo allargare, devo giungere a una dimensione europea che inglobi l’Europa dell’Est) nelle condizioni storiche determinate in cui sta avvenendo, rende ogni giorno più difficile la risposta positiva alla domanda di Langer: è possibile un’autonomia europea? Immaginatevi cosa succederebbe se entrasse la Turchia: ottanta milioni di persone, più della Germania riunificata. A quel punto tutta la politica europea – necessariamente tutta – ne sarebbe determinata. Per questo non è antieuropeismo dire: “Piano!”. Per questo tutti quelli che vedono l’Europa schiacciata sulla costa atlantica, spingono per accelerare l’allargamento alla Turchia. Perché di fatto, rispondendo alla domanda di Langer, significherebbe: no, un’autonomia politica europea è impossibile, o meglio ancora, non è neppure auspicabile. Questo per sottolineare come l’urgenza della domanda e la possibilità di rispondervi positivamente, lungi dall’aumentare, stia paurosamente declinando.

Qual era secondo me l’idea? Parlo con un linguaggio mio, più filosofico, ma credo di cogliere almeno quello che era lo spirito del dramma che Langer viveva, quello che intendeva parlando di quest’Europa necessaria e possibile. E allora, necessaria perché?
Intanto rifiutando le due vie che ho indicato, quella puramente economica e quella di una politica subalterna, eteronoma. Tutte due vie ben fondate. La prima fondata sulla storia di una costruzione unitaria di tipo mercantile, economico e la seconda su una constatazione realistica: ma come puoi sognarti di fare una politica autonoma nelle condizioni “post-aziache” che si sono determinate?

Sono tesi assolutamente da non sottovalutare. Contro queste tesi non si sbandierano fiocchetti di speranza, contro queste tesi ci vogliono un pensiero forte e organizzazioni politiche forti e un’Europa politicamente unita e forte. E questo per avviare un percorso che ancora soltanto balbettiamo, mentre le vie sinora seguite in gran parte contraddicono questa prospettiva.
Qual era la filosofia che sottostava all’analisi di Langer quando pensava appunto alla necessità dell’Europa? Quale Europa avrebbe voluto intervenisse a Sarajevo e non crepasse a Sarajevo, come temeva e come forse ha temuto all’ultimo e come noi dobbiamo disperatamente cercare che non avvenga?
Io non credo che l’Europa sia morta a Sarajevo, non solo non spero che sia così, ma non lo credo. Perché sostanzialmente nella mente europea, nella tradizione europea, nel linguaggio europeo, c’è qualcosa che eccede, che trascende lo spazio della prospettiva e del ragionamento economico e lo spazio e la prospettiva del ragionamento da “intolleranza liberatrice”, dell’atteggiamento imperiale.

E qual è questo qualcosa? Credo veramente in ciò di cogliere una dimensione essenziale e profonda del pensiero di Langer. L’Europa, certo è volontà egemonica, è volontà di potenza, è conflitto tra volontà egemoniche, sono le tragedie del Novecento, le guerre mondiali, ma l’Europa è anche il luogo-non-luogo, in cui si è elaborata una straordinaria idea.
L’idea di un essere insieme, di un “communis”, di uno stare insieme che non è lo stare insieme perché si hanno le stesse idee o perché si è della stessa razza, della stessa religione, e così via, ma perché si mira a un fine comune. Si sta insieme non perché si hanno le stesse radici, ma perché si hanno gli stessi fini. E si perseguono per strade diverse. Si sta insieme non perché c’è un possesso comune, ma perché c’è un bene assente a cui si aspira. Quest’idea è profondamente europea, a partire dai primi filosofi, a partire da Platone: Vi è un bene cui tutti anelano, ma che non è visibile, non è nominabile, non è calcolabile o matematizzabile, non è mai possedibile e si congettura tutti insieme verso quel bene. L’idea di “bene comune”- di cui tante volte ci riempiamo la bocca - è una grande idea europea e significa questo: il bene comune non è di nessuno di noi, non appartiene a me o a te. Il bene comune è qualcosa che ci unisce, ma è assente e della sua assenza soffriamo insieme. “Cives futuri” diceva Agostino. Non cittadini di questa città (e questa città è mia, e questo luogo è mio, e questa etnia è mia e questa famiglia è mia), ma cittadini di una città che dobbiamo insieme costruire per le nostre diverse vie. L’Europa è anche quest’idea che circola nella “mente europea”. E fintanto che quest’idea non tace, non è ammazzata, c’è l’Europa da fare! L’Europa attuale è l’Europa del possesso, dice: noi stiamo qui, questa è la nostra terra, qui abbiamo avuto sviluppo e benessere, guai a chi ce la tocca. Dobbiamo quindi essere assieme perché possediamo insieme. Certo che c’è anche questo. L’Europa è sistole e diastole. L’Europa è Amleto. Qualcosa che è costantemente chiamata a decidersi. Ma se siamo chiamati a decidere vuol dire che c’è sistole e diastole, che c’è canto e controcanto…
Quindi, fintanto che c’è il linguaggio europeo, fintanto che parliamo “le” lingue d’Europa, questa possibilità esiste, questa possibilità resiste. Questa, io sono convinto, è la speranza che c’era in Langer, anche nel momento in cui ha manifestato la massima disperazione. È un appello a che si creda a queste lingue, a quest’eredità europea che proprio vive nelle nostre lingue, nella famiglia contraddittoria delle nostre lingue, sempre da reinventare.
Certo se dobbiamo misurare quest’idea d’Europa alle realizzazioni dell’Europa, ci troviamo, diciamo, un po’ a disagio… Però anche qui: resistiamo. Con tutte le difficoltà che ho già indicato: la costituzione debole, senza un’idea di welfare europeo, con l’idea del mercato unico e della lotta a ogni forma che falsi la libera concorrenza, cioè un mezzo, il mercato, che diventa il fine. È chiarissimo che nella Costituzione europea il mercato da mezzo diventa fine, il pilastro fondamentale. Una cosa che non era mai avvenuta in nessuna delle costituzioni europee del secondo dopoguerra. Oppure la politica estera, art. 41: gli stati membri operano in stretta cooperazione con la Nato; un vincolo di eteronomia sancito nella carta costituzionale… Debolezze estreme. È un trattato – quindi non una vera e propria costituzione, ma qualcosa che ha ancora a che fare con un contratto tra Stati – che tuttavia ha portato nel nostro dibattito (se sapremo curarlo, continuarlo adeguatamente) l’idea di una Costituzione, di una “Verfassung” europea, e questo è importante. L’idea della necessità di pensare la nostra “communitas” e dunque la possibilità di pensarla - nel senso di quel “cum” che prima indicavo - che non è lo stare insieme per ragioni etniche o religiose o di possesso, ma lo stare insieme perché si è capaci di elaborare una meta comune.

Quindi io vi inviterei a vedere - e credo davvero nello spirito di Langer - con spietatezza tutti i limiti e le contraddizioni del percorso unitario, politico ed economico, che l’Europa sta compiendo, ma a tenere ferma l’idea della sua necessità. Senza quest’Europa il sistema mondo si chiude e vinceranno coloro che hanno sempre ritenuto, non già che i conflitti, ma che il dialogo, la relazione, la contraddizione tra persone sia qualcosa, non già di superfluo, ma di dannoso, di pericoloso. Vinceranno quelli, come diceva il grande liberale Isaiah Berlin, che ritengono che il mondo sia una sorta di puzzle: tutti pezzi sconclusionati, ma comunque c’è un disegno. Si tratta semplicemente per un politico abile di mettere insieme il disegno, che è certo, è sicuro, è a priori ed è quello che il politico ha in testa. L’abilità allora consiste soltanto nel risolvere l’indovinello...
Se non ci sarà l’Europa a cui pensava Langer, che è necessaria per sconfiggere queste ideologie, queste ideologie vinceranno.

Massimo Cacciari, filosofo, è ora sindaco di Venezia

(Testo non rivisto dall’autore)

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