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Antonio Slavich, il compagno di scuola: Ma a Bolzano c’è l’Andreina …

19.11.2005, Dal libro Andreina Emeri, 2005

Fra i  flussi immigratori che occupavano Bolzano negli anni ’20 e ‘30 vi era anche quello dei funzionari asburgici delle altre zone di confine: vi si insinuò anche mio nonno italo-ungaro-serbo-tedesco,  alto funzionario dell’amministrazione finanziaria a Fiume. Aveva visto tramontare le opportunità autonomistiche della Repubblica Fiumana dannunziana, nella quale aveva avuto un ruolo importante ma effimero. Era poliglotta, conosceva benissimo le leggi e le regole asburgiche e i modi in cui esse dovevano essere adattate al nuovo imperio. Nei primi anni ‘30 si trasferì a Bolzano installandosi comodamente nella comunità italiana, come consulente /mediatore degli interessi forti della borghesia mercantile tedesca. Nel 38’ aveva chiamato da Fiume mio padre ingegnere, a far fortuna con l’edilizia pubblica di regime; nel 39’ arrivò mia madre con mia sorella e me; ma nel 40’, ancor prima dell’entrata in guerra, nonno e padre erano già  morti. Ai primi bombardamenti il resto della famiglia trovava asilo prima nella Canonica di S.Genesio, poi in un un paese di campagna in Friuli.

A Bolzano siamo tornati nel 45’, con un gran bisogno di normalità come tutti i ragazzini e le ragazzine, italiani e tedeschi. Quando ho iniziato a frequentare le scuole superiori, il Liceo Classico “Carducci” in piazza Domenicani era la naturale destinazione dei figli della ristretta borghesia italiana, come i “Francescani” lo erano per quella tedesca. Per gli italiani che come me avevano sempre abitato al di quà della Talvera, il ponte rappresentava già allora una specie di confine naturale: di là l’orizzonte inglobava al più viale Venezia la libreria Cappelli e la scuola Longon. Il centro della città era lo spazio esclusivo di svolgimento della vita quotidiana, lo studio, le compagnie, le ragazze in via Museo, tutto era lì. Il tedesco non era lingua in uso, se non al mare in estate (per impararlo davvero ho dovuto andare da giovane assistente alla Nervenklinik di Würzburg).

Era piccolo, il nostro Liceo. In prima c’erano solo 17 maschi e 9 ragazze, e in due classi distinte. Noi avevamo alcuni ottimi insegnanti, Moggio, Collareta, Bruni; della sezione femminile sapevamo poco o nulla. Ma le letture fondanti private, le entusiaste frequentazioni culturali, il cineforum, gli ascolti (alla radio, al Conservatorio “Monteverdi” o dai pochi “78 giri”) erano gli stessi per tutti. A me piaceva frequentare la biblioteca americana dell’USIS nel nuovo “ grattacielo” di piazza Sernesi, potente veicolo anche delle novità della letteratura americana tradotte da poco da Pavese, Vittorini, Pivano, dei libri d’arte e di critica musicale (impazzivano tutti e tutte per il jazz, io no).

A scuola me la cavavo piuttosto bene; ma di Andreina Ardizzone tutti in città sapevano che era di gran lunga la prima della classe: studiosa, colta, sempre preparata, bella. Con lei sempre altre due compagne (le”tre Grazie”) che volavano alte come aquile: la Paola Invernizzi e (last but not least) la Adriana Ferrari: stavano molto fra di loro, parlavano, parlavano, e passeggiando a braccetto ridevano. Noi della classe parallela ronzavamo come uno sciame di mosconi, ma loro preferivano frequentare ragazzi appena più grandi di noi, come Ettore Frangipane o Nino Angelucci, o un po’ più danarosi, come il Rabbiosi, il Rebora o i Maestranzi, che esibivano fiammanti Lambrette e si permettevano di offrire qualche consumazione verso sera al Caffè. Sempre formalmente cortesi, l’Andreina e le altre due, ma con un po’ di puzza sotto il naso; e noi, ciascuno si consolava come poteva.

Nel ‘54 c’era stata però una occasione di conoscenza reciproca più autentica e ravvicinata, la partecipazione alla trasmissione RAI “Terza Liceo” ( competizione di cultura generale  fra Licei italiani). La squadra designata era composta da Andreina Ardizzone (ovvio), da Dino Bressan e da me. Superammo bene un paio di turni poi cedemmo con onore al “D’Azeglio” di Torino. Ma Andreina, che era stata preziosa nella preparazione delle singole puntate, mentre era “in onda” era rimasta pressoché silenziosa. Non capivo il perché. Lo ho capito solo da grande imparando qualcosa sul carattere e la sensibilità delle persone. Era il preside Fata ad amare smodatamente “la Vittoria”. Io e Bressan ci sentivamo in dovere di essere competitivi, ma Andreina no. Ho conosciuto poche persone meno competitive di lei: ascoltava  pallida immobile e con l’aria incredula quel confuso battibeccare di giovani galletti ansiosi di prevalere l’uno sull’altro.

 

Dopo la maturità ho lasciato subito Bolzano per l’Università a Padova e in Germania, e poi in giro per l’Italia con Franco Basaglia a svelare manicomi, cominciando da quello di Gorizia. Tornavo qui solo per le feste comandate e, a fine agosto. per il “Busoni”. In una di queste occasioni ho saputo dai benpensanti bolzanini (tra questi la mia famglia) che Andreina aveva sposato “un noto comunista”, aveva quattro figli, faceva l’avvocatessa delle cause perse. Trovava pure il tempo per farsi venire in mente delle strane idee e per manifestarle anche in piazza. Io trovavo tutto questo molto naturale, ma nel frattempo anch’io ero molto cambiato.

Le idee “goriziane” cominciavano a diffondersi, specie dopo la nascita di “Psichiatria Democratica”. Nella miriade di incontri in tutta Italia spesso entravo in contatto con collettivi femministi. In questi casi, se qualche compagna veniva a sapere delle mie origini bolzanine subito esclamava:“…ma a Bolzano c’è l’Andreina ! “. Io non la vedevo da vent’anni, ma ne ero lo stesso orgoglioso, e vieppiù curioso di incontrarla. L’occasione si presentò nel ‘76: Grazia Barbiero, consigliera comunale a Merano e di lì a poco segretaria della Federazione del PCI/KPI, mi aveva invitato per alcune conferenze pubbliche e incontri con operatori d’area. Dovevo anche, per conto mio, fondare una sezione interetnica di ”Psichiatria Democratica” a partire da  un gruppetto clandestino di infermieri  di Stadio resistenti ai metodi di cura del Dr. Frick). E mi aveva indicato indicato proprio nella sua amica Andreina Emeri la persona alla quale fare riferimento organizzativo in quei tre giorni. E pensavo che se Andreina aveva accettato una designazione del PCI - figurarsi! -  voleva dire che anche lei aveva qualche curiosità di ri-conoscere più da vicino quel suo antico compagno di scuola.. Fu un incontro per me indimenticabile: lieto, sereno, esatto. Conoscevamo già le opere e i giorni rispettivi, lei al solito aveva già letto tutto. Ci era stato subito evidente che, a dispetto dell’apparente distanza delle nostre pratiche sociali e professionali, avevamo un sentire e una finalità comuni nel tentare, almeno, di aprire tutte le gabbie che imprigionano le coscienze, manicomiali, etniche, relazionali, di genere. Mi è toccato di lavorare parecchio in quei tre giorni, ma c’è stato anche il tempo per ricordare gli anni belli, e per scambiarci idee sul presente e sul futuro.

Poi non l’ho più rivista, ma ora potevo dire anch’io dentro di me “...ma a Bolzano… c’è l’Andreina!”. Di più non ricordo, se non lo sgomento nel leggere della sua morte improvvisa sul Manifesto.

(Il ricordo di Antonio Slavich, psichiatra, che ha frequentato con lei il Liceo Classico di piazza Domenicani).

 

 

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