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Le speranze di tanti soldati svejk

1.12.1992, Intervista al mensile "Una Città" a cura di Massimo Tesei, dicembre 92.
Il ritorno a "radici" vere o presunte sembra essere il tratto distintivo di questi ultimi anni. Ma questa necessità di identità, di radicamento, è un rifiuto della modernità, un voler tornare in qualche modo al passato, oppure rappresenta solo un modo, magari confuso, per entrare pienamente in una modernità che nei suoi presupposti è ormai mondializzata ed indiscutibile?

A mio parere tra questi poli estremi esiste uno spazio molto ampio, tutto da esplorare. Uno spazio che si situa tra l'internazionalismo cosmopolita, fatto di inglese, bancomat, jet-set e computer e la celebrazione di radici, che può portare anche all'uso di un finto veneto, di un finto lombardo e via dicendo. Ma gli esempi di questo tipo di spazio da esplorare sono molti. Si può prendere il femminismo, che si colloca tra l'accettazione di una società maschilista e la rivendicazione di un suo superamento, quindi di una obbligatoria ricostruzione sociale in chiave femminile. Oppure il problema rappresentato da un lato dallo stato laico, inteso come non connotato da valori e semplicemente attaccato a regole formali per cui chi rispetta le regole formali si sente a posto e, dall'altro lato, dallo stato etico, religioso o areligioso che sia, con coercizione ai valori e organizzazione integralista sui valori. Mi pare dunque che avvertire la perdita di identità e di radici sia un fatto reale e anche un grido di allarme. Non sono disposto a vedere, come accade da noi, tutto questo come una reazione anticomunista o antimodernista; io lo vedo soprattutto come un grido di allarme reale. Pensiamo all'estremo impoverimento della lingua che avviene attualmente. Me ne rendo conto partecipando a tantissime riunioni a livello europeo in cui, di fatto, la lingua dominante è l'inglese. Se io fossi inglese mi dispiacerebbe veder straziare la mia lingua da bocche tanto incompetenti, compresa la mia. In quelle sedi la ricchezza della lingua si perde nella necessaria compatibilità, si disperde. Recentemente una signora di oltre ottanta anni mi diceva della sua delusione per il fatto che noi non conosciamo più che tre o quattro specie di mele, mentre lei ne sapeva ancora elencare oltre trenta, comuni al tempo della sua giovinezza.

Lo stesso vale per la bio-diversità. Oggi si parla delle convenzioni per la salvaguardia della bio-diversità, ma in realtà si assiste ovunque allo stesso fenomeno. Ci si rende conto cioè, e relativamente tardi, che un patrimonio di diversità e di differenziazione sta scomparendo. Che se non si coltiva il terreno e non si piantano le piante adatte, che tengono fermo il terreno, quelle rischiano di andare giù. Poi si possono anche riportare su, ma solo artificialmente. Lo vediamo con le enormi scarpate lungo le autostrade: si può anche rimboschire, riportarvi il verde, ma si tratterà sempre di un verde artificiale. Così è per le identità etniche. Oggi assistiamo ad alcuni tentativi, anche riusciti, di rigenerazione di identità etnica, ma spesso si tratta di una rigenerazione attuata da una specie di banca del seme. Mi riferisco alle tre o quattro esperienze che abbiamo sotto gli occhi in Europa. Penso all'ebraico moderno, al gaelico in Irlanda, al greco moderno e al basco. Queste sono da sempre identità molto forti, in cui non c'è stata una perdita di contatto con le tradizioni, però il greco, per esempio, ha dovuto essere rianimato dopo essere stato quasi perso sotto strati molto forti dovuti alla dominazione turca, ai secoli di decadenza e degrado. L'ebraico moderno è, in un certo senso, addirittura una lingua da provetta, anche se si rifà ad una cultura antichissima. Una cultura in cui, non a caso, il rapporto di Israele con la diaspora diventa sempre più conflittuale, perché finché la cultura ebraica era solo quella della diaspora non importava in quale lingua fosse espressa, mentre oggi il patrimonio ebraico sempre più fa riferimento ad una lingua, ad uno Stato. Altrettanto vale per il gaelico, una lingua che ancora oggi non è veramente usata. Per quanto ne so io, il gaelico nelle campagne esiste, come esiste il gallese delle campagne o lo scozzese delle campagne, però la civiltà urbana gli lascia poco spazio e il gaelico scolastico è un surgelato di quello che doveva essere in passato. Lo stesso succede per il basco. Una volta c'era addirittura la battuta che per imparare il gaelico o il basco bisognava andare in galera, così da avere il tempo e la possibilità di trovarsi nel posto giusto, dove la lingua era viva.

Tutto questo per dire che certo il bisogno di identità è molto forte, per dire che tutti quelli che esprimono questo bisogno di identità, di radici, di rapporto con il territorio, direi anche di continuità generazionale in un mondo diventato molto mobile, molto migrante, esprimono un bisogno reale. Ma per dire anche che, sfortunatamente, attualmente nella nostra civiltà conosciamo solo forme molto alienate di espressione e di organizzazione di questo bisogno: fare uno Stato, per esempio. Ivan Illich diceva che, piuttosto che a Colombo, bisognerebbe guardare a quel tipo che, all'epoca stessa di Colombo, regalò alla cattolicissima coppia regale spagnola una grammatica castigliana. Dice Illich che quell'uomo con la grammatica ha scritto anche la mappa del nuovo mondo, perché da allora in poi chi non parlava nel modo codificato era considerato un semi-selvaggio e chi invece si muoveva entro quella grammatica era nel solco giusto. Da questo punto di vista mi pare che oggi siano poche le esperienze che sappiano unire una porzione sufficiente di originalità, e quindi anche di irriducibilità al progresso, a una forma che poi non standardizzi questa originalità, misurando su questo la conformità o meno; per cui chi non parla il veneto non può far parte della Liga Veneta, chi non ha antenati sloveni non può diventare cittadino sloveno e così via.

Io penso che in Europa non ci sia, oggi, un'esperienza in qualche modo esemplare, che sia riuscita a recuperare radici di originalità senza trasformarle in camicie di forza. Forse in contesti meno industrializzati è più possibile, ma ne dubito. In questo cinquecentenario della "scoperta" dell'America si è avviato un discorso sulla terra degli indigeni, i quali non esigono che sia una terra statale, cioè che necessariamente sia organizzata in Stato, però poi si arriverà a questo. Oggi varie Costituzioni prevedono il riconoscimento di sovranità india sulla terra però, come vediamo per la nuova Costituzione brasiliana, questo riconoscimento esige tanti e tali processi di misurazione, di canonizzazione, di collocazione di confini, che di fatto va a discapito soprattuto delle identità più deboli che, non protette da un codice, da una grammatica, da un esercito, da una bandiera, da una divisa, sanno di avere pochi strumenti di difesa della loro identità. Nella piccola esperienza locale del Sudtirolo noi abbiamo, all'inizio intuitivamente, cercato di sviluppare una politica e una cultura di una possibile identità tirolese che lasciasse sufficientemente indefinite le cose. Che potesse essere, per esempio, abbastanza condivisa al di qua e al di là del confine politico e del confine linguistico, cioè che fosse accessibile sostanzialmente ad alto-atesini e a sud-tirolesi di tutte e tre le lingue, accessibile anche a chi stava nel Tirolo austriaco o nel Trentino. Senza però fare discendere da questo la rivendicazione di una regione pan-tirolese, o, come ha fatto la Volkspartei, di una delimitazione fatta col censimento, dove ognuno doveva fissare la propria identità addirittura sulla carta, restandovi così inchiodato a tutti gli effetti.

Ma, per quanto possa essere una scimmiottatura, il bisogno di radici non può offrire quella risposta al bisogno di sentirsi a posto nel mondo che è venuta meno anche con la fine del comunismo e delle ideologie? In qualche modo questo bisogno non tradisce proprio la voglia di cercare ancora un futuro possibile che non sia quello dell'omologazione capitalistica?

E' diventato molto difficile immaginare un futuro possibile, indicare un obbiettivo possibile per il futuro. Si può parlare di eliminazione della mortalità infantile o della fame dal mondo, ma è diventato molto difficile indicare obbiettivi futuri positivi, perché nessuno ci crede davvero, perché suonano come finzioni.

Ci troviamo, e mi pare anche comprensibile, nel mondo dei mali minori, in cui è già molto far fronte a quello che viene. Ci troviamo nella situazione di chi ha subito diversi infarti e deve condurre una vita molto attenta. Da Chernobyl alle varie deforestazioni molte cose sono avvenute, compreso l'estremo affollamento della nostra "navicella spaziale", un affollamento che rende tutto più fragile. Dal mio punto di vista è principalmente venuta meno l'idea che si possa attuare una specie di grande sperimentazione progettuale e questo è, probabilmente, un bene. E' probabilmente un bene che non si pensi più ad un modello, la stessa parola "modello" suona male; che non si pensi più che il mondo sia plasmabile, come se fosse possibile ripercorrere le tappe di una creazione del mondo. In questo senso il comunismo era probabilmente l'ultima grande idea di ricreare il mondo. Anche se poi bisogna dire che meno conclamata, ma più efficace, è l'idea capitalistica che vuole rendere il mondo il più solutivo possibile, che vuole tirare fuori il meglio e anche superare, con la tecnocrazia, tutti i limiti esistenti. Mandando, casomai, nello spazio tutti i nostri rifiuti se non sappiamo dove collocarli o ricreando le specie che si degenerano con le bio-tecnologie. Insomma l'idea di fare tutto quello che è diventato possibile. Però mi sembra anche che tutto questo susciti nella gente più paura che speranza; che si abbia molta paura di come sarà l'uomo della provetta, di come sarà la soluzione tecnologica alla mancanza di acqua potabile. Da questo punto di vista mi pare giustificato cercare rifugio nel già conosciuto, nel già sperimentato. In passato la sinistra campava quasi sempre sulla speranza e la destra sull'esperienza, la destra su quello che si ha e la sinistra su quello che si vorrebbe avere o diventare e questa, in fondo, è una buona ragione perché la sinistra apparisse meno credibile, perché era tutto ancora da vedere.

Il maggior rischio dell'eredità comunista, ma anche, se non di più, del presente capitalistico, sta in un approccio fortissimamente totalitario; sta nel concepire, in nome dell'identità o dell'efficienza o del profitto, il totalitarismo come risposta più adeguata. E, per convincere, il totalitarismo ha bisogno di valori condivisibili, mentre i soli valori dell'efficienza o del profitto non bastano. Anche se guardando a paesi a privatizzazione selvaggia, come l'Inghilterra, si ha l'impressione che il totalitarismo del profitto mobiliti la gente. Recentemente, in alcuni negozi inglesi ho visto una scritta che, prospettando un popolo di consumatori sguinzagliato per la città, più o meno diceva così: "Questo articolo da noi costa tot, se voi riuscite a trovare in città un altro negozio che lo vende a meno, noi vi rimborseremo la differenza". A me pare che il totalitarismo sia la tentazione che sta dietro alla riscoperta di identità che, avendo a che fare con interlocutori molto forti come la civiltà industriale, la città, la produzione, la tecnologia, l'elettronica, portano al bisogno di una armatura senza sbavature; vale a dire ad una autorappresentazione che dia un senso opposto a quello del presente, che protegga e che in un certo senso stabilisca dei confini. In questo mi sembra che non si sia superato il tentativo comunista, almeno nel suo aspetto totalitario. Havel, in un articolo apparso recentemente su "Le Monde", chiama il suo tentativo una rivoluzione antitotalitaria, quasi mai lo chiama anticomunista; il criterio che usava per giudicare non era "comunista o anticomunista", ma "bugia o verità". In ogni caso la questione del totalitarismo mi sembra molto forte e non c'è dubbio che oggi sia venuta l'ora dei piccoli totalitarismi, dei totalitarismi fatti in casa, come alternativa ai grandi totalitarismi. Quindi il piccolo stato, il piccolo nazionalismo, la piccola lega. Io temo che il totalitarismo sia moderno, probabilmente lo sbocco più moderno_

Ma se è lo sbocco più moderno vuol dire allora che non si può sfuggire al destino totalitario dell'Occidente?

Io credo che, nonostante tutto, ci siano molti spazi, magari non bianchi ma certo poco colorati, sulla mappa del nostro universo.

In realtà, e forse questa è una realtà del tutto inesplorata, il totalitarismo organizza attivamente soltanto minoranze. Non voglio dire che i non totalitari siano una maggioranza, ma certo sono un'assai consistente minoranza, nel globo sono certamente una maggioranza. A me pare che se si guarda a quella fetta di realtà organizzabile rappresentata dai motorizzati, da quelli che fanno politica, forse anche da quelli della carta di credito e del bancomat, cioè da quelli che interferiscono attivamente con questo mondo, si riscontra certo che sono in tanti, ma anche, mi pare, che ci sia una grande fascia di passività intorno, che il coinvolgimento nel totalitarismo sia solo passivo. A volte pensiamo che appena un Funari apre bocca tutti cadano in estasi, in realtà quelli che dovrebbero stare in estasi intanto vanno al gabinetto, cucinano, stirano o giocano a carte. Mi pare dunque che il grande spazio da esplorare sia, sempre pensando ad Havel, quello dello "svejkismo" di massa; l'atteggiamento del "Buon soldato Svejk", cioè quello di non farsi coinvolgere dai titoli eccitati dei giornali, dai servizi dei telegiornali.

Ma questa è anche la gente che, mentre bruciano le botteghe degli ebrei, continua a guardare se bolle il latte

Anche questo è vero. Ma chi come me viene da una generazione con una tradizione di attivismo, che ricercava una nuova politica, che cercava una nuova partecipazione, che pensava di cambiare il mondo, dovrà forse esplorare di più questi spazi meno intensamente colorati. In tutti i movimenti etnici quelli che gridano più forte hanno un ruolo apparentemente più grande degli altri, ma se non c'è un fondo popolare al quale attingere tutto resta solo uno sforzo di agitazione

Nella ex Jugoslavia è stata una minoranza ad iniziare; una minoranza che però, per mezzo della propaganda, ora è diventata maggioranza

Tutti i movimenti attivi della storia sono partiti da una minoranza. In questo senso il leninismo o il giacobinismo sono stati una interpretazione plausibile del ruolo delle minoranze; un'interpretazione in alcuni casi anche efficace. Oggi potrebbe avere più senso lavorare, anche come minoranze, per rendere meno esposti e meno permeabili al totalitarismo le paludi, le masse. Questo non è un programma politico sufficiente?

Parli di contrastare una influenza, ma se si prende una influenza si guarisce prima facendola esplodere, andando alla radice...

Parlando di malattie, vorrei attenermi al paragone che ho fatto prima: operare in condizioni in cui c'è un organismo già molto scosso. Mi viene molto difficile pensare ad una integrità originaria, andrebbe invece messa in conto la possibilità di convivere con le malattie. Secondo me, per esempio, non esiste una soluzione al problema degli zingari. Credo che si possa cercare di affrontarlo in modo meno violento, che si debba diminuire il tasso di violenza e di esclusivismo, aumentando quello di convivenza, di interscambio e di interrelazione. Ma credo anche che siamo in una situazione in cui chiunque voglia rivendicare torti subiti in passato abbia molte ragioni per farlo. Prendiamo la questione delle ex minoranze tedesche. I tedeschi in Polonia adesso hanno uno status più riconosciuto di prima, ma recentemente hanno cominciato ad esibire le croci di guerra, quelle dell'esercito tedesco e questo fa, comprensibilmente, imbestialire i polacchi. In Slesia ci sono giovani tedeschi che non rispondono più alla chiamata militare perché non vogliono servire nell'esercito polacco, il governo fa ancora finta di non accorgersene, ma mettiamo che questa specie di sedizione contro l'autorità della Polonia si allarghi e contamini altri giovani_.

In Cecoslovacchia Havel è stato molto criticato quando ha detto ai boemi che la cacciata dei tedeschi dai Sudeti dopo la guerra non è stata una pagina di gloria della loro storia. In quelle situazioni ognuno ha materiale per rivendicare; i torti subiti dai polacchi, ma anche dai tedeschi, sono molti. Dunque sia rispetto alla natura che alle relazioni tra popoli, sia nelle relazioni tra città e campagna che tra strati sociali, si parla di una realtà in cui la densità delle ferite accumulate è già molto alta ed ho l'impressione che una specie di pompieraggio generale sulle inevitabili frizioni sia soprattuto un'esigenza. In questo senso mi pare che siano da apprezzare quei modelli, apparentemente "deboli", in cui non si rivendica che uno Stato o un partito incarnino un ideale forte; uno di quegli ideali che incarnino di più una sapienza del vivere, delle condizioni vivibili. Ma su questo è più difficile entusiasmare la gente, è più facile entusiasmarsi per chi combatte per l'indipendenza in Angola. Con la morte di Brandt è quasi di moda usare la parola "compassione", invece di "passione". Willy Brandt aveva usato spesso il termine "compassione" intendendolo non come una forma di pietismo, ma come un atteggiamento di condivisione della sofferenza. Sicuramente la passione riempie più facilmente una piazza che non la compassione, però, guardando meglio nel territorio.... Abbiamo l'esempio molto forte, in +Croazia, in Slovenia, in Vojvodina, di gente che ospita in casa persone che se fossero parenti forse apparirebbero più ingombranti. Abbiamo almeno due milioni di persone piazzate in casa di altri. Un altro esempio è il volontariato, un termine che usiamo volentieri quando vogliamo dare una lettura attiva della compassione. Insomma, c'è un potenziale di condivisione che mi pare molto importante.

Intervista al mensile "Una Città" a cura di Massimo Tesei, dicembre 92.
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