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L'Europa e il riemergere delle questioni etniche

1.6.1991, Terre & Acque - Venezia


Un demone che si riteneva domato, rialza un po’ dovunque la testa. In Jugoslavia l’odio etnico tra i diversi popoli – ed in particolare tra serbi e croati e tra serbi e albanesi del Kossovo – sembra portare davvero sull’orlo di una guerra civile. Scontri etnico-religiosi insanguinano il Caucaso.

Rivendicazioni di indipendenza nazionale e di separatismo si moltiplicano, anche in Europa. Qualche bomba autonomista (o separatista?) basca o corsa non manca mai. In Irlanda del nord si è ancora assai lontani da una composizione pacifica e democratica del conflitto, e continuano a contarsi i morti dell’una e dell’altra parte. Tra Romania ed Ungheria, ma anche tra Ungheria e Jugoslavia, Bulgaria e Jugoslavia, Albania e Jugoslavia, Grecia e Turchia... ed in chissà quanti altri posti le questioni etniche e di confine sono tutt’altro che assopite. La firma del trattato tra Polonia e Germania rinfocola questioni mai veramente chiuse (Slesia, Pomerania ecc.), e persino le parole di richiesta di perdono che il presidente cecoslovacco Havel ha trovato nel 1990 per i sudeti hanno suscitato (tra cecoslovacchi) inquietudine e disagio; per non parlare di una risorgente incompatibilità tra cechi e slovacchi, delle preoccupazioni per un possibile nuovo pangermanismo, della sempre latente tensione tra fiamminghi e valloni in Belgio e dei mille segni allarmanti di un nuovo razzismo anti-immigrati in tanti “civilissimi” paesi e regioni, a cominciare dall’Italia che si compatta nel respingere “l’assalto dei profughi albanesi”. Senza dimenticare Cipro, e per non andare fuori dall’Europa, dove subito incontreremmo la guerra tra ebrei e palestinesi, in Israele e nei territori occupati, e tra fazioni confessionali in Libano, la questione berbera ed altre ancora, restando solo nel bacino mediterraneo.

Perché questo sommario ed assai incompleto elenco di focolai di conflitto etnico, religioso, nazionale?

Per dire innanzitutto che oggi, di fronte alla marcia trionfale della omologazione industrial-consumista, dopo la caduta di tanti regimi repressivi, ma anche di fronte alla scomparsa di alcune grandi idee di “salvezza dell’umanità” (o ritenute tali), si stanno sprigionando in forma spesso violenta tremende eruzioni di auto-affermazione collettiva che prendono volentieri il segno etnico o confessionale o razziale. Non sempre si tratta di fertile esplicitazione di identità o di processi di liberazione, spesso si manifesta anche una pericolosa ricerca di forza, l’espressione di egoismi collettivi, la rivendicazione di esclusivismi etnici o religiosi assai difficilmente componibili in un comune disegno di cooperazione e di pace. Il valore della propria identità etnica o nazionale, confessionale o culturale - come nel Sudtirolo abbiamo faticosamente imparato ed ormai ben sappiamo - non cresce certamente per il fatto di pretendere l’esclusiva o di voler far piazza pulita degli “altri”.


Più che mai, dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, è richiesta nella fase storica presente una forte tensione ideale verso obiettivi di convivenza pluri-nazionale, di culture ed ordinamenti pluri-etnici, di nuove forme di autonomismo e di federalismo.

Se oggi – giustamente – molti popoli non si riconoscono più nei confini e negli stati nazionali loro imposti, e se quindi vacillano i tabù apparentemente più solidi dell’attuale diritto internazionale (la definitività e l’inviolabilità dei confini, la sovranità nazionale, la non-ingerenza negli “affari interni”, il diritto dei popoli all’autodeterminazione e ad un proprio stato nazionale..), la risposta teoricamente potrebbe essere di due tipi: spostare (“correggere”) i confini... o lavorare per diluirli e gradualmente superarli.

Proprio la nostra piccola esperienza sudtirolese ci insegna quanto illusoria e generatrice di nuovi conflitti sarebbe la prima delle due soluzioni teoriche: riaggiustare i confini, spostandoli, e superare gli stati nazionali, moltiplicandoli, non è una soluzione di pace, ma sarebbe la premessa di molti nuovi lutti e di sicure insoddisfazioni.

Al contrario gli stati nazionali di oggi sono al tempo stesso troppo piccoli (e ritagliati spesso male) e troppo grandi (e ritagliati spesso male) per garantire efficacemente il buongoverno dei popoli e la pace tra essi. Grandi questioni comuni all’umanità e non risolvibili su scala “nazionale” (dai problemi ecologici a quelli dei diritti umani) non ammettono più la tradizionale politica di non-ingerenza e di autosufficienza all’interno di una sovranità nazionale. Altre grandi questioni, come l’esigenza di autogoverno e di democrazia, non riescono a trovare soluzione soddisfacente in ordinamenti troppo grandi.

Ecco perché occorre superare l’attuale dimensione della maggior parte degli “stati nazionali” (o pretesi tali) contemporaneamente in due direzioni: verso il basso (con nuove e ricche autonomie) e verso l’alto, con ordinamenti federalisti sovranazionali, come in Europa si sta faticosamente sperimentando.

La capacità di attrazione del processo di integrazione europea come una sorta di nuovo “mito fondatore” verso molti popoli europei (soprattutto quelli più piccoli o a lungo oppressi da egemonie altrui) oggi è considerevole, in parte sicuramente superiore alla realtà. La dimensione tutta centrata sui mercati e sull’economia che contraddistingue l’attuale Europa dei 12 e che tende a relegare la parte centro-orientale del continente in una indefinita sala d’attesa, appare insufficiente a colmare questa forte domanda. Ma non esiste altro processo di integrazione e di pacificazione sovra-nazionale più convincente e più capace di irradiazione anche verso lontane regioni geografiche del pianeta.

Occorrerà, dunque, riesplorare con coraggio molte delle potenzialità ancora inespresse o sottosviluppate del processo europeo e rivedere le tappe, il ritmo, l’ampiezza e gli strumenti dell’integrazione europea, facendo presto e bene. Se non si vuole rischiare una brusca ricaduta nelle incompatibilità etniche in Europa e nei conseguenti conflitti, spesso incontrollabili e senza ritorno nei tempi brevi, bisognerà affidare alla “casa comune europea” molto più che in passato il compito di elaborazione di una politica per la convivenza pluri-etnica, all’interno degli Stati e tra essi.


Da "Terre & Acque" - Venezia
giugno 1991

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