Gruppi etnici e minoranze: ostacolo o impulso ?
1.
Le minoranze etniche e i gruppi minoritari sono spesso – ma non sempre – il residuo di diversi e antecedenti assetti sociali. Spesso, ma non sempre, occupano posizioni periferiche, a livello economico, sociale, culturale, politico e – sovente – anche geografico.
Ad eccezione dei meno frequenti casi di minoranze e gruppi etnici innovativi, e talvolta pure privilegiati, dei quali la storia passata e presente fornisce interessanti esempi e che tuttavia non costituiscono oggetto di questa argomentazione, la maggior parte delle minoranze etniche e dei gruppi etnici minoritari si collocano in certa misura all’esterno del “progresso”, dello “sviluppo”, della “modernizzazione”. Se da un lato questo comporta svantaggi e rischi che è opportuno combattere (e di cui si sono finora prevalentemente occupati gli studi inerenti alle minoranze e i relativi movimenti sociali e politici), dall’altro può invece alimentare prospettive e opportunità a tutt’oggi troppo spesso ignorate o trascurate.
2.
Quanto più incisivamente i concetti di “progresso”, “modernizzazione”, “sviluppo”, intesi nella loro accezione corrente e predominante, plasmano la società e ne divengono parametri di valore, tanto più l’elemento della “diversità” si trasforma in inferiorità e perifericità.
“Minoranza” (e forse pure “ostacolo al progresso”) diventa chi è al di fuori di “progresso”, “sviluppo”, “modernizzazione”; assai meno conta la maggiore o minore consistenza numerica, e “minoranza” tende a diventare un concetto qualitativo più che quantitativo.
“Sottosviluppato” diventa chi non può o non vuole appoggiare l’attuale forma di “sviluppo”. In tale contesto, appartenere a “minoranze” significa innanzitutto essere “più deboli”, disporre di un minor potere di affermazione sociale finalizzato alla determinazione e alla realizzazione di una propria identità soggettiva e di propri obiettivi autonomi.
Il confronto con il “progresso” (“sviluppo”, “modernizzazione”) ha collocato le minoranze e i gruppi etnici in una nuova posizione che è solo parzialmente comprensibile e superabile facendo ricorso alla loro esperienza tradizionale, esperienza che è preservazione della loro specificità etnica e culturale di fronte all’estraneità della maggioranza etnica.
3.
Le minoranze e i gruppi etnici – ma anche altre categorie minoritarie esterne al “progresso” – sono oggetto di una composita pressione nel senso dell’uniformazione e, al tempo stesso, dell’emarginazione. L’antica alternativa tra cristianizzazione coatta e segregazione nel ghetto, si ripropone ora con assai maggior vigore – benché in Europa avvenga oggi in forme solitamente meno cruente che in passato – in nuova veste ed in numerose e svariate manifestazioni, dalla coercizione alla seduzione.
4.
Le minoranze e tutti i raggruppamenti analoghi avvertono solitamente la propria situazione come svantaggiosa e vivono nel costante dilemma se reagire mediante l’irrigidimento nella compattezza (autoisolamento, secessione...) o l’adeguamento (assimilazione...), o ancora se esplorare possibili terze vie che sappiano conciliare preservazione dell’identità e competitività: nuove vie che portino all’emancipazione non come risultato di tradimento ed alla conservazione della specificità senza l’incondizionato e volontario ritiro in riserve iperprotette.
5.
Al modello di progresso e di sviluppo predominante – contrassegnato dal primato della crescita economica e industriale e dall’egemonia del mercato – le minoranze etniche possono opporsi e negare la propria adesione sia per motivi di carattere più tradizionalistico (salvaguardare il patrimonio ereditario, rifiutare la modernizzazione), sia in base ad un attivo e critico processo di presa di coscienza che si arricchisca di nuove motivazioni, p.es. perché si scorge nel “progresso”, “sviluppo”, “modernizzazione” la ragione stessa che porta al sottosviluppo delle periferie e delle minoranze o all’omologazione, e che le sospinge inevitabilmente verso un processo di impoverimento spirituale e materiale.
In questo senso, i gruppi etnici minoritari possono consapevolmente trasformarsi in attivi e coscienti “ostacoli al progresso” – in virtù di un intreccio di motivazioni radicalmente tradizionalistiche e moderne – al fine di contrastare una tendenza degli eventi che li danneggia (e non loro soltanto). Ma ciò richiede un alto grado di consapevolezza e la messa in campo di strategie diversificate.
6.
Dalle minoranze etniche può scaturire un rilevante impulso a postulare una diversa forma di “progresso”, “sviluppo”, “modernizzazione” segnata da una minore uniformazione rispetto al “centro” e da un accresciuto valore intrinseco delle “periferie” (fino a giungere alla messa in discussione di tale rapporto), nonché da una dimensione entro la quale “altro” non significhi “inferiore”.
La multiforme insorgenza dei gruppi etnici minoritari potrebbe conseguentemente aprire a loro (e alla società tutta) nuove prospettive, e quella che è una condizione comunemente percepita come svantaggiata, potrebbe invece rivelarsi foriera di notevoli benefici: l’esclusione dal “progresso”, potrebbe mutarsi in una consapevole estraneità e trasversalità rispetto al “progresso”. Coloro che sono gli ultimi sulla via dello sviluppo “tradizionale”, potrebbero divenire i primi sulla via di un “altro” sviluppo. L’attuale passiva sottomissione a una condizione imposta potrebbe suscitare una “critica del progresso” di tipo creativo. Infine il tentativo illusorio (dimostratosi una reale minaccia per le minoranze) di scimmiottare il modello di “progresso” predominante, potrebbe venire superato a favore della ricerca di percorsi autonomi proiettati verso nuovi sviluppi.
7.
In relazione ai concetti di “progresso”, “modernizzazione”, “sviluppo” (“development”), si configurano numerose analogie tra la situazione e le prospettive delle minoranze etniche e quelle di altri gruppi e movimenti sociali, i quali rispecchiano identità, esperienze e necessità esterne al “progresso” (o trasversali rispetto ad esso). Ricordiamo per esempio le donne, il cosiddetto terzo mondo, talune correnti religiose e spirituali, gli anziani ecc.
Si tratta ancora una volta di stabilire se “gli ultimi” debbano tentare l’entrata in gara, allo scopo – assai improbabile – di diventare “competitivi”, o se invece debbano piuttosto promuovere modelli di vita e di società entro i quali possano perlomeno mantenersi “vitali”.
In altri termini occorre stabilire se essi debbano perseguire modelli di vita conviviali, ma meno all’altezza del mercato (e sotto certi aspetti svantaggiosi nei confronti del “progresso”) oppure modelli industrialistici, e pertanto concorrenziali, ma meno conciliabili con la loro specificità.
8.
L’attiva consapevolezza dell’“essere e voler rimanere altro” è presupposto essenziale della facoltà di sviluppare le forze necessarie per riuscire a collocarsi trasversalmente rispetto al modello di “progresso” dominante.
Il perseguimento di uno sviluppo autonomo il più possibile dotato di ampia indipendenza e libertà (personale e collettiva) nella scelta delle istanze e dei metodi, e quindi il perseguimento di una società conviviale e aperta alla molteplicità, esige oggi una strategia di inter-azione estremamente complessa e differenziata.
Sia il pregiudiziale ed unilaterale rifiuto della “modernizzazione” (e l’autoisolamento che ne deriva) sia lo “zelo di adeguamento” che spera nella rapida integrazione nel “progresso”, rappresentano entrambi – come indica l’esperienza fin qui vissuta dalle minoranze laterali al “progresso” – tentativi di soluzione illusoria e astratta, che non liberano dall’inferiorità, dalla dipendenza e infine dall’estinzione, e che peraltro potrebbero realizzarsi compiutamente e nel modo sperato solo in un ristretto numero di casi.
Sono pertanto necessari paradigmi di pensiero e di azione differenziati che siano in grado di combinare rifiuto, critica e partecipazione e che, nella scelta degli strumenti, lascino trasparire la consapevolezza che nessun singolo provvedimento (es. riconoscimento e istituzionalizzazione delle lingue, dei diritti, disposizioni protettive, riserve ecc.) può garantire l’auspicato successo. Anzi, potrebbe persino rivelarsi controproducente.
Né il mantenimento di una ormai inesistente “innocenza” rispetto al progresso, da parte delle minoranze etniche, né il semplice recupero tardivo del “progresso” dominante su scala magari compatibile con le esigenze delle minoranze sono realmente possibili per quanto magari qualcuno se lo possa augurare.
Ne consegue che l’unica alternativa realmente percorribile è quella più ardua: al di là dell’astratta alternativa tra autoisolamento e adeguamento, non resta che la difficile sperimentazione di esplorare e misurare la scala dei possibili conflitti, le interazioni, i compromessi, le misure protettive, emancipazioni e sganciamenti parziali, la conquista di spazi franchi e così via.
9.
La sapienza che contraddistingue coloro che – come le minoranze etniche – vivono l’esperienza dell’“essere e voler rimanere altro”, può rappresentare un considerevole arricchimento anche per altre persone e altri gruppi, e per le stesse “maggioranze”. Un patrimonio prezioso per chi sappia e voglia porre in discussione le relazioni correnti e dominanti tra centro e periferia, sviluppo e sottosviluppo, valore di scambio e valore d’uso, mercato e sussistenza, omologazione e molteplicità, quantità e qualità, maschile e femminile.
In un certo senso potremmo affermare che chi ricerca percorsi autonomi orientati verso un “progresso” (“sviluppo”, “modernizzazione”) qualitativo, può beneficiare dell’esperienza delle minoranze. Il fatto, ad esempio, che in Europa esistano popolazioni prive di lingua scritta o leggi scritte, o minoranze per le quali il denaro non rappresenta il sommo valore, costituisce una ricchezza incalcolabile (e oggi gravemente minacciata), che sta ad indicare la concreta possibilità che le cose vadano anche in una diversa direzione.
10.
Pertanto, le minoranze etniche e i gruppi etnici minoritari possono non limitarsi ad assumere una posizione semplicemente difensiva ma riuscire a diventare una sorta di cartina tornasole indicativa della qualità del “progresso” (“sviluppo”, “modernizzazione”). Una qualità che non si misuri soltanto dai beni materiali, economicamente valutabili ed industrialmente producibili. Di fatto le etnie minoritarie interpellano, anche in nome e per conto di altri gruppi “marginali” nello sviluppo, il “progresso” su una questione di fondo: quale spazio esso garantisca alla diversità, alla molteplicità.
In questo senso le etnie minoritarie possono cogliere un’opportunità singolare e fungere in maniera consapevole e programmata quali ostacoli a certe forme di “progresso” (che accrescono ad esempio la dipendenza e l’alienazione) e quali impulsi allo sviluppo di certe “altre” forme di “progresso”. E questo non soltanto in nome proprio e nel proprio interesse, né possibilmente operando isolatamente.
11.
Il processo di unificazione europea cui ci troviamo di fronte (da non intendersi evidentemente solo come compimento dell’attuale processo di formazione della Comunità Europea), mette a dura prova la preservazione della molteplicità di presenze culturali, linguistiche, etniche e regionali.
In considerazione del pericolo, sensibilmente accresciuto, di una tendenza all’omologazione e ad un ulteriore e molto più profondo dislivello tra centro/centri e periferie, l’esperienza di quelle minoranze europee e gruppi etnici che hanno ormai imparato come autoaffermarsi ed autoconservarsi, malgrado le forti pressioni tendenti all’assimilazione, possono apportare un fondamentale contributo al delinearsi di una particolare originalità europea.
Possono indicare, infatti, una prospettiva europea che non ripercorra la via tradizionale di formazione degli stati nazionali, comportandone la medesima omologazione, svalutazione delle periferie, ed il riprodursi della dipendenza e di varie forme di povertà materiale e spirituale, ma scopra piuttosto gli aspetti positivi della preservazione della molteplicità e della realizzazione di una cultura della convivenza tra diversi gruppi, identità ed esperienze. Chi avrà esperienze in questo campo, potrà servire da buon esempio emblematico.
Il contributo che le minoranze e i gruppi etnici, che avranno saputo efficacemente difendersi dall’uniformazione, dall’adeguamento e dall’estinzione, possono dare a tutti gli europei, può essere sintetizzato come segue:
a) la preservazione e l’affermazione dell’identità rimangono elementi validi e costruttivi anche di fronte ad altre forme di sviluppo prevaricanti e predominanti, e ciò anche quando richiedono notevoli sforzi e il pagamento di qualche prezzo;
b) la preservazione e l’affermazione dell’identità non sono il risultato di unilaterali strategie difensive, di isolamento o autoisolamento, ma possono derivare semmai da un complesso intrecciarsi di soggettività e convivenza con altri, nel quale risiede una forte potenzialità di reciproco arricchimento e di espansione; ogni esclusivismo etnico, di qualunque natura esso sia, non può che condurre a prove di forza che registrano poi immancabilmente la vittoria del più forte;
c) non è l’integrazione in un “progresso” senza volto e aggressivo verso la natura a rappresentare la prospettiva futura dei gruppi etnici e delle culture minoritarie, bensì è proprio la ridiscussione di questo “progresso” che può essere portata avanti dalle minoranze etniche e culturali in virtù del loro maggior grado di consapevolezza e della loro particolarità. Minoranze che possono al tempo stesso lanciare un importante messaggio e il più plausibile esempio di “altra” ed autonoma forma di crescita, anche verso quegli strati di popolazione non ancora o non più consapevoli della propria specificità.
Intervento al Simposio scientifico internazionale su “minoranze per l’Europa di domani”
Lubiana, 8-9 giugno 1989
Traduzione a cura di Raffaella Roncarati