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Non basta l'antirazzismo

1.5.1989, Nigrizia
E' una brutta bestia, quella che sta nascendo o rinascendo in giro per l'Europa, in forme aperte o sottili, ma sempre pericolose e qualche volta subdole. Parlo del razzismo, e non solo di quello aperto e palese che si scarica senza tanti complimenti sui "vú cumprà", sui figli degli immigrati a scuola, sugli "zingari" o più in generale su diversi e stranieri soprattutto se poveri. Ne sono testimonianza gli episodi ormai numerosi e talvolta anche sanguinosi di violenza razzista che colpiscono con parole e con armi persone di diversa pelle o lingua, quando in Francia e quando in Italia, quando in Germania e quando in Olanda. E da quando anche nel nostro paese la scheda elettorale insinua la possibilità di "dare una lezione ai terroni" (o ai negri, o ad altre "razze inferiori"), viene da considerare meno strani certi risultati elettorali di alcune città tedesche (Francoforte, Berlino, Brema..), il massiccio voto francese a Le Pen, la ricorrente iniziativa xenofoba in Svizzera e taluni umori anti-stranieri persino in paesi come la Danimarca o la Svezia: cose che danno da pensare.

Certamente (e non solo dal 1989, con John Masslo ucciso e Dacia Valent bistrattata) non si può neanche più dire che l'Italia sia immune, come per troppo tempo ci si affrettava ad assicurare: uno spirito razzista ormai non più esorcizzato si fa vivo in tante occasioni, dal giudizio sui meridionali alle palesi discriminazioni in materia di lavoro, alloggi, diritti civili, assistenza sanitaria, scuola, luoghi di culto e così via che colpiscono i "Gastarbeiter" immigrati (per ora prevalentemente di provenienza africana) non meno che i nomadi.

Qualche volta le forze conservatrici europee (certe democrazie cristiane o partiti liberalnazionali, nonchè le nuove formazioni e "leghe" anti-stranieri o anti-immigrati) sembrano correre dietro all'esplosione razzista e xenofoba, cercando di riprenderne in versione moderata le rivendicazioni più aspre: non la cacciata generalizzata di tutti gli stranieri, ma leggi e controlli più severi, divieto di farsi raggiungere dai propri familiari, tagli nell'assistenza sociale, emarginazione scolastica, incentivi per il rientro in patria... Una linea che si è mostrata generalmente perdente, perchè anzichè contenere il flusso elettorale verso le formazioni xenofobe, finisce per accreditarne e nobilitarne l'ispirazione.

Le sinistre invece tradizionalmente sono inclini a gridare "al lupo" (fascista o neonazista), salvo poi perdere clamorosamente grosse percentuali di elettori che passano direttamente dai comunisti a Le Pen (come in Francia), o al MSI (come a Bolzano) ed alla "Lega lombarda" (come in Brianza) o dalla socialdemocrazia ai "Republikaner": una dimostrazione che la pura esecrazione e la condanna verbale di voti ed atteggiamenti bollati come "razzisti" non fanno poi grande impressione e non dissuadono più di tanto. Anzi, i paladini delle varie organizzazioni anti-stranieri rivendicano apertamente la necessità di una correzione in chiave fortemente "nazionale" delle politiche e delle società diventate troppo "mescolate" e prive di identità riconoscibile. La Germania ai tedeschi, la Svizzera agli svizzeri, il Veneto ai veneti, l'Alto Adige all'Italia (o, rispettivamente, ai soli sudtirolesi di lingua tedesca) sono slogans già usati con successo.

Come negare, d'altra parte, che la presenza di tante persone che dai loro paesi fuggono per miseria o per ragioni di persecuzione politica, crea degli effettivi imbarazzi e delle vere difficoltà nei paesi ospitanti? Le nostre società sono da qualche secolo diventate "nazionali", comprimendo ed omologando le diversità che stanno sotto quella soglia (i dialetti, le autonomie locali, le identità regionali, le minoranze etniche...) e fomentando diffidenza e spesso aperta ostilità verso quelle altre diversità che stanno oltre e fuori di essa: le altre nazioni, religioni, tradizioni, mentalità. Quante generalizzazioni semplicistiche ed ingenerose tocca sentire tutti i giorni: "i meridionali sono tutti... gli inglesi/i tedeschi/gli slavi...sono tutti..."! Quindi siamo poco abituati all'idea che la multiformità etnica e culturale di una società, di una città, di una regione possa essere una ricchezza anzichè una condanna ed un fardello negativo. La stessa crisi manifesta di alcuni ordinamenti volonterosamente, ma un po' troppo forzatamente pluri-nazionali - come l'Unione Sovietica o la Jugoslavia - sembra postulare un ritorno di fiamma dell'idea di nazione e di compattezza etnica: un modo come un altro per sottrarsi al peso della complessità, inseguendo la pretesa semplificazione.

Eppure non c'è altra prospettiva: finchè la nostra civiltà industrializzata ed opulenta, consumistica e competitiva imporrà a tutti i popoli la sua legge del profitto e dell'espansione, sarà inevitabile che gli squilibri da essa indotti sull'intero pianeta spingeranno milioni e miliardi di persone a cercare la loro fortuna - anzi, la loro sopravvivenza - "a casa nostra", dopo che abbiamo reso invivibile "casa loro". Perché meravigliarsi se in tanti seguono le loro materie prime e le loro ricchezze che navi, aerei ed oleodotti dirottano dal loro mondo verso il nostro?

Attrezzarsi ad un futuro multi-etnico, multi-culturale e pluri-lingue è dunque una necessità, anche se non piacesse. Tanto vale che gli europei se ne convincano e cerchino tempestivamente i modi per sviluppare una cultura della convivenza. Cominciando, per esempio, dalla scuola e dalla scuola materna, che sempre più spesso diventerà luogo di incontro e - si spera - di reciproca accettazione tra bambini "diversi" per colore di pelle, religione o madrelingua. O dalle organizzazioni dei lavoratori, che non possono più limitarsi a difendere i diritti dei soli "connazionali". O dal diritto di voto amministrativo a chi ormai è diventato parte della comunità locale, anche se avesse un passaporto diverso. O dalle organizzazioni giovanili - religiose e non - che possono diventare un'egregia scuola di positiva convivenza ed inter-azione.

In questo senso anche le manifestazioni contro il razzismo, come quella bellissima di Roma del 7 ottobre 1989, non possono limitarsi a denunciare la politica o a chiedere leggi diverse: occorre proprio manifestare e praticare la volontà di avere a che fare con i "diversi", di conoscerli, di intersecare i nostri modi di vivere e di pensare. La migliore risposta ai delitti razzisti probabilmente non sarebbe il solo corteo, ma cento inviti a cena per altrettanti immigrati presso altrettante famiglie italiane.

Solo la positiva costruzione di una cultura della convivenza (e quindi della reciproca conoscenza e stima, senza per questo annullare culture differenti o altre diversità) può offrire un'alternativa alla crescita del razzismo.

Da "Nigrizia"

Maggio 1989
pro dialog