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BEATRICE BORTOLOZZO - BUON LAVORO PAPA’

1.1.1999, da UNA CITTÀ n. 74 / Gennaio/Febbraio 1999
L’impegno solitario, costato tanti soprusi, ma alla fine vittorioso, di Gabriele Bortolozzo, operaio al petrolchimico di Marghera, per provare la tremenda nocività, fatale a tanti operai, dei reparti pvm. Intervista a Beatrice Bortolozzo.

Beatrice Bortolozzo vive e lavora in Olanda.

Noi non sapevamo niente, proprio niente. Nell’82 avevo già 14 anni, quindi ero abbastanza grande, però papà credeva fermamente che i figli non dovessero essere disturbati da problemi più grandi di loro. E se mi fa male scoprire che nella vita di mio padre ci son stati momenti difficilissimi dei quali non ho mai saputo nulla, ciò, dall’altra parte, mi fa ammirare ancora di più quella sua forza interiore che gli permetteva di tirare avanti, di superare le difficoltà e le sofferenze, senza farlo mai pesare agli altri. E di difficoltà ne ha avute tante. Pur essendo una persona mite, che non amava affatto mettersi in mostra, era incapace di far finta di niente di fronte a un problema, di fronte a un diritto calpestato. Ci teneva anche a far bene il suo lavoro, malgrado non gli piacesse per nulla. Lo diceva spesso, anche dopo: comunque quel lavoro l’ho sempre fatto, e bene. E d’altra parte quello era il lavoro che ci dava da vivere, che gli permetteva di far studiare i figli. Ma di tutto questo, allora, non ci aveva mai parlato. I racconti che ricordo, legati al suo lavoro, erano di vita quotidiana, di aneddoti della vita dei colleghi. Mi è sempre rimasto impresso, per esempio, che ci raccontò di aver preso le difese di una ragazza madre che serviva in mensa, derisa da alcuni operai: per lui era da ammirare per aver preso una decisione così impegnativa. Poi mi ricordo piccole cose e che adesso, magari, mi fan pensare. Quando lui partiva per il lavoro e io dicevo: "Papà, buon lavoro" e gli davo un bacio, lui il giorno dopo tornava e mi diceva: "Ma sai che mi hai fatto stare bene tutto il tempo che sono stato al lavoro?", e io dicevo: "Caspita, che potere che hanno i miei baci!". Pensare ora che fosse vero, che un po’ gli serviva, mi fa contenta perché vuol dire che il fatto che noi non sapessimo nulla in realtà lo aiutava: eravamo la sua isola, un’isola non contaminata da tutte le schifezze che invece doveva vivere durante il turno. Ecco, i miei ricordi riguardo alle condizioni del suo lavoro si riducono al fatto che faceva i turni, cosa che lui odiava. Questo lo sapevo: non poterci essere una sera a festeggiare qualcosa, casomai il Natale perché era di turno... Ma per tutto il resto non sapevo nulla.
D’altra parte il Petrolchimico è sempre stata una fabbrica tagliata fuori anche dalla comunità di Mestre, difficile da immaginare da fuori. Una volta sola mia mamma e mio fratello andarono a visitare la fabbrica. Io ero ancora piccola e non mi ci portarono, ma ricordo che al ritorno Gianluca era talmente sconvolto che, buttando la giacca, disse: "Non avrei mai pensato che mio padre lavorasse in un posto così schifoso!". E gli avevano fatto vedere soltanto le parti meno brutte, con un giro in pulmino. Sai, era il periodo delle "fabbriche amiche", "apriamo le fabbriche"...

Papà era entrato al Petrolchimico nel ’56, a 22 anni, con la qualifica di manovale comune. All’epoca alla Montedison c’era una sfilza infinita di mansioni, addirittura all’interno della funzione di manovale c’erano tante sottofunzioni e ognuno riceveva il suo numero... Papà in seguito ne avrebbe fatto una lista completa. Lui fin dal primo giorno di lavoro era stato adibito al reparto Cv 6, l’impianto di polimerizzazione Cvm in emulsione, come turnista. E’ il reparto famoso: alla fine papà diceva sempre che si sentiva un sopravvissuto perché di sei operai che erano all’inizio 4 erano morti di tumore e uno era malato. Ha lavorato lì praticamente tutta la vita. Aveva iniziato molto presto a lottare, ma fu nel ’73, quando venne a sapere dall’Oms che il Cvm era cancerogeno, che prese avvio la sua lotta riguardo al cloruro di vinile. Allora, la sua prima azione fu di andare dal responsabile dell’infermeria di fabbrica a lamentarsi, perché le persone che si ammalavano non venivano curate. Era evidente che l’infermeria praticamente serviva solo ad assicurarsi che le persone fossero a posto per lavorare: una persona la si spediva a casa solo quando era troppo ammalata. Così, non ottenendo alcuna soddisfazione, dal ’75 papà si rifiutò di farsi visitare nell’infermeria di fabbrica dichiarando di voler essere visitato soltanto da una struttura indipendente perché non si fidava. E questa è stata una presa di posizione che ha continuato a tenere sempre, anche quando uscì una legge che costringeva tutte le persone che lavoravano in ambienti non sicuri a sottoporsi a visite regolari in fabbrica.

Papà era una persona molto sensibile, ma non nel senso che si emozionasse facilmente, quanto piuttosto perché era molto attento, interessato a tutto quello che gli succedeva attorno. Poteva rimanere seduto per ore in un certo posto a guardare la gente, a osservare, era molto attento ai dettagli e godeva delle piccole cose.
Per noi figli papà era soprattutto "papà": lui aveva un grandissimo senso di paternità, era il tipo che va di moda adesso, con quelle attenzioni che forse ci si aspetterebbe di trovare più nelle donne... Cito spesso un episodio quando sento persone che dicono: "Mia madre non mi ha spiegato niente...". Quando avevo 7 anni lui venne con dei libri di educazione sessuale per bambini e ci spiegò in modo naturalissimo cose che per gli altri genitori erano dei tabù assoluti. Portai infatti il libretto a scuola e la mia insegnante ebbe quasi un infarto.
Nostro padre rispondeva in modo attivo a tutte le nostre curiosità. Ti creava un mondo magico attorno, per le storie che raccontava. Se io dicevo: "Voglio una storia sugli animali", lui poteva stare delle ore a raccontarmi tenendomi incollata alla poltrona ad ascoltare a bocca aperta. Per esempio: da piccola non capivo bene cosa fossero le frontiere, mi chiedevo se ci fossero poliziotti lungo tutta la frontiera. Allora lui un giorno mi prese e mi portò in montagna ai confini tra Austria e Italia a saltellare per 5 giorni di qua e di là dalla frontiera. Ricordo benissimo i rifugi in cui c’era una stanza in Italia e una stanza in Austria. Passai giorni bellissimi. E poi il fatto di lasciarmi andare in Inghilterra a 13 anni per imparare l’inglese, il che, allora, non era comune, soprattutto in una cultura operaia. Spesso infatti le famiglie operaie, benché aperte nelle lotte, erano molto tradizionaliste, reazionarie... Fin da piccola avevo sempre espresso il desiderio di imparare le lingue, di viaggiare, di fare esperienze e lui mi ha sempre stimolata malgrado tutti dicessero: "Ma non ha paura che sua figlia poi vada via, non ha paura di perderla?", e lui: "Ma io non perdo mia figlia. Mia figlia la cresco perché sia felice, l’appoggerò sempre...". Certo, avrà anche sofferto del fatto che sia andata a vivere in Olanda, però non l’ha mai dimostrato; diceva: "La tua felicità viene prima di tutto e la mia felicità viene dal fatto che tu sei felice". Lui poi era anche fiero di questa figlia che riusciva a cavarsela in un paese straniero, ad avere una buona posizione; era orgoglioso del fatto che avessi fatto l’università quando lui aveva fatto le medie e che potessi gestirmi da sola e perseguire anche traguardi ambiziosi.

Agli inizi degli anni 80, la serie dei soprusi nei confronti di papà si intensificò. Ogni volta che papà spediva un esposto veniva trasferito. In quel periodo ha dovuto subire l’isolamento più duro. La magistratura assente, l’autorità latitante, i sindacati complici...
Nell’82 venne spedito in un altro reparto, e secondo papà, e io sono sicura che avesse ragione, il consiglio di fabbrica, sottobanco, aveva dato il suo consenso. Passò dal Cv 6 al Cv 14-16, che è un altro reparto in cui c’è Cvm e così ricominciò con esposti, con denunce e venne spostato nuovamente. Pensa che al Petrolchimico, una volta maturata una certa anzianità come turnista, si passava giornaliero. Ebbene, lui nell’84, con ben 29 anni di anzianità, era l’unico a non essere diventato giornaliero. I continui spostamenti, poi, tendevano a demotivarlo psicologicamente, a sfinirlo, perché gli cambiavano continuamente la funzione da svolgere, anche nel corso della stessa giornata, facendogli fare anche lavori, che non so se è giusto chiamare umilianti, ma certamente molto diversi dal tipo di lavoro che poteva fare lui dopo tutti quegli anni di esperienza. Questo nel disprezzo di tutte le regole dello statuto dei lavoratori che dicono che tu non puoi essere spostato se non c’è una ragione basata su fatti concreti e comunque non puoi svolgere funzioni al di sotto della tua.
Sempre nell’82 papà subì un altro sopruso: essendo risultato il primo dei non eletti come delegato di fabbrica, quando due delegati si ritirarono, avrebbe dovuto subentrare. Annullarono le elezioni, pur di non farlo entrare nel consiglio di fabbrica. Lì papà voleva veramente andare a fondo, ma l’avvocato cui si era rivolto gli consigliò di non fare niente: "Guarda, fossi venuto un po’ di anni fa avremmo avuto l’appoggio della massa, adesso ti risparmio solo delle spese".
Nell’85 quando prese avvio un procedimento penale nei confronti delle persone contro le quali lui nell’83 aveva esposto denuncia per fatti di inquinamento ambientale, venne messo in cassa integrazione, per altro subito rientrata. Doveva servire come minaccia, e poi, senza nessuna spiegazione, venne messo fuori organico, "a disposizione" come si diceva. E in attesa di "collocazione" venne relegato in un magazzino in cui veniva accatastato il Pvc. Era un magazzino di Pvc grande quasi quanto un campo di calcio e lui doveva stare in un bugigattolo da solo, a non fare niente. Dopo una trentina d’anni di lavoro si ritrovò circondato da queste cataste di sacchi di pvc, che poi lui conosceva bene perché aveva iniziato come manovale portandoseli sulle proprie spalle. Ricordo bene che ogni volta che partivo per un viaggio mi pesava lui la valigia, perché aveva portato talmente tanti sacchi da 25 Kg che subito sapeva dire se la valigia era al di sotto o al di sopra. E questo appunto senza nessuna giustificazione ufficiale, senza niente di scritto, niente di niente.
Ogni volta che ripenso a questa storia mi sento male. L’unica consolazione che ho è quella di pensare che la Montedison con ognuna di queste azioni ha dimostrato di avere avuto una gran paura di papà. Che un colosso così si sia accanito tanto contro una sola persona, caspita, vuol dire che proprio li ha fatti tremare!

All’inizio degli anni 80 papà aveva cominciato ad accorgersi che c’erano colleghi che sempre più spesso stavano male, che morivano, e il fatto era ancor più strano perché alcuni di questi conducevano una vita estremamente sana. Uno di loro, che mio padre conosceva bene, si era addirittura trasferito in campagna, si interessava di alimentazione naturale, di macrobiotica. Il fatto che all’improvviso a persone come queste venissero riscontrati tumori diffusi per tutto il corpo a mio padre risultava sospetto. Aveva trovato anche un rapporto sulle società che producevano Cvm in diversi paesi europei, secondo il quale i casi di tumore in Italia erano i più bassi di tutti quelli della Comunità europea. Com’era possibile? Lui sapeva benissimo che le fabbriche nel nord Europa erano più attente alle problematiche legate alla salute dei lavoratori e non capiva come a tutte quelle persone che lui vedeva morire corrispondessero poi delle percentuali così basse. E si era messo da solo a lavorare, a cercare dati. Dall’87, poi, quando fu messo in prepensionamento, iniziò a lavorare a tempo pieno su queste cose. Passava le notti al computer, a battere i suoi appunti. Diceva: tanto sono qui, ho tutto il tempo che voglio.
Svolse una ricerca veramente enorme, da certosino, procurandosi tutti i dati disponibili della Montedison, dell’Oms, di fabbriche simili all’estero, di altri studi che erano stati fatti e poi fece una vera e propria indagine sul campo, andando dalle persone che conosceva, e allargandosi poi anche alle persone che queste gli indicavano. Cominciò a mettere insieme delle liste di nomi, divisi per i tipi di reparto. Avendo in testa tutto lo schema dei reparti, delle lavorazioni che venivano fatte nei diversi reparti, cercava le persone nei determinati reparti e andava a parlare con loro, le rintracciava, raccoglieva le schede mediche, parlava con le vedove. Andò addirittura dai parroci di alcuni paesi per sapere se conoscevano queste persone. Raccolse decine e decine di casi, li catalogò, dati che poi sono apparsi su Medicina Democratica -papà scriveva su Medicina Democratica già da alcuni anni, era il corrispondente da Venezia. A detta di molti è stato un lavoro degno di un professionista. Mio padre era diventato veramente un esperto delle malattie causate dal quel tipo di produzione in Italia, ma anche negli altri paesi, ed era molto bravo anche nel lavoro statistico e di raccolta dati. Poi con questo stesso rapporto papà, nel ’94, si presentò dal pm Casson. Sia io che Gianluca ricordiamo molto bene che quello, per papà, è stato forse il primo momento veramente felice, perché si trovò di fronte una persona che aveva i mezzi per fare qualcosa, che l’ascoltò, cosa che non si aspettava assolutamente, e che riconobbe anche il valore del suo lavoro, al punto da voler iniziare da lì delle indagini. Ormai di tutta la vicenda se ne parlava apertamente a casa, e ricordo che papà ogni volta che otteneva qualcosa era contento, ma aggiungeva sempre: "Lo dico solo a te, perché non voglio che poi la gente pensi che mi son montato la testa". In realtà era semplicemente soddisfatto per il fatto che un qualcosa per cui aveva lavorato 20 anni venisse finalmente riconosciuto valido. Ma continuava a stupirsi che poi lo invitassero a convegni, a dibattiti, di vedere che la gente cominciava a riconoscerlo, che lo applaudiva. Fu invitato anche in alcune scuole e a questo ci teneva particolarmente. Una volta che era stato chiamato in una scuola di Mestre a parlare agli studenti io, ricordando che certe volte, quando venivano delle persone a parlare a scuola, ci dicevamo: "Che barba!", chiesi: "Ma papà cosa fai se queste persone non han voglia di sentirti, fanno altre cose?", e lui mi rispose: "Guarda, se un solo ragazzo mi ascolta per me ne vale la pena".

Purtroppo le cose non erano cambiate all’interno della fabbrica. Lì ci sono stati degli attacchi molto duri, i sindacati hanno anche distribuito dei volantini che attaccavano papà personalmente e questo è veramente pazzesco, se si pensa che poi, al processo, il sindacato (ma quello nazionale!) si è costituito parte civile. Il sindacato locale invece continuò sempre ad attaccare papà perché tutti credevano che se fosse successo qualcosa, se andava male la Montedison, avrebbero perso il lavoro. Ma arrivare a dare volantini in cui si diceva che papà era stato un capetto all’interno della fabbrica, che lui stesso aveva sfruttato le persone!
Contemporaneamente, poi, in quegli anni, la Montedison non aveva mai smesso di mettere in giro le voci che papà fosse finanziato da qualche concorrente, da qualche potenza, mentre lui, con la sua pensione, si era sempre fatto tutte le telefonate a proprie spese, si era sempre autofinanziato... Comunque ci sono state persone che l’hanno appoggiato e seguito, ha avuto degli amici che gli sono sempre stati vicini, quello bisogna riconoscerlo. Pochi, ma ci sono stati. La cosa triste è che papà non sia riuscito a vedere l’inizio del processo, sapeva che ci sarebbe stato un seguito, ma non ha potuto vedere fino a che punto sarebbe arrivato. Io però ricordo che lui, nonostante gli attacchi che continuavano, era comunque contento perché ce l’aveva fatta.

Lui era nato a Campalto, la famiglia era della zona. Il papà del papà era sarto e aveva una fattoria, la nonna lavorava con lui, in casa. Avevano 5 figli, due maschi e tre femmine. Papà penso sia stato l’unico ad aver fatto le medie, perché come figlio maggiore maschio era quello che poteva studiare un po’. Per il resto da ragazzo aiutava in casa, in sartoria, e mi raccontava che i momenti più belli erano quando poteva andare a recapitare gli abiti pronti perché aveva la possibilità di fare dei bellissimi giri in bicicletta anche molto lontano. Amava la natura e la bicicletta e quella era la possibilità, lavorando, di fare delle cose che gli piacevano, perché poi, per il resto, a quei tempi la vita era abbastanza dura. I divertimenti erano andare con gli amici a giocare nella laguna, a nuotare quando era ancora pulita e poi i giri in montagna, nelle Dolomiti. Aveva la sua lambretta con cui faceva tantissimi giri quando era ancora fidanzato.
Aveva poi una grande passione per la lettura. Lui era autodidatta, e ho trovato tantissimi libri, che aveva comprato da giovane, alcuni anche molto impegnativi. Ha sempre tenuto un diario. Per lui scrivere era importantissimo, era il modo migliore per buttare fuori tutti i pensieri, per parlare di tutto, di quello che faceva, di quello che pensava, della famiglia. Lui stesso, fin da piccola, mi aveva spiegato come fosse importante per se stessi scrivere e se io poi ho iniziato a 7 anni a tenere il mio diario è stato grazie a lui. I suoi diari sono bellissimi, e sono la vera ricchezza che ci ha lasciato, la sua eredità. Grazie a quei diari Mattia, il figlio di mio fratello Gianluca, e i figli che avrò io, un giorno potranno conoscere chi era, cosa pensava, cosa ha fatto, il loro nonno.
Era una persona che non mollava mai e pensava che ci fosse sempre il diritto ad essere felici. Anche il fatto che poi, dopo la separazione con mia mamma, avesse ricominciato a vivere da solo, a costruirsi una vita da solo, quando non era neanche più giovane, e una vita piena di cui era molto felice e soddisfatto, mi ha sempre colpito. Nei suoi diari ho letto una cosa che mi è piaciuta tantissimo: "Io non mi annoio mai, perché ci sono tantissime cose di cui gioire, godere, e tantissime cose da fare...".
Quando è andato in pensione penso sia stato uno dei periodi più belli della sua vita perché è riuscito a dedicarsi a tantissime battaglie, trovando però anche il tempo per curare i suoi hobby. Organizzava dei giri ciclo-botanici nei dintorni. Papà, a detta di tutti, era un patrimonio vivente di conoscenza, non solo del problema della salute dei lavoratori, ma anche del territorio, della flora e della fauna di quest’area. Conosceva centinaia di uccelli dal suono, dal canto! Erano famosi poi i suoi giri a tema: ad esempio un giro per visitare tutti i posti citati da Hemingway nei suoi libri, o su un particolare pittore o su un particolare periodo storico. Preparava anche delle schede da distribuire. Contattava i proprietari delle ville del Terraglio o della riviera del Brenta, affinché fosse possibile visitarle e questi accettavano sempre. Oppure, per dimostrare l’importanza della navigazione, organizzava giri nei piccoli paesi qui dei dintorni. Faceva vedere come erano stati costruiti attorno al fiume, o al canale, non già attorno a una piazza.
Papà è morto proprio lì, sulla strada che va da Mestre a Treviso, quella delle ville. Era in bicicletta ed è stato investito da un camion.





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