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ESPERANZA MARTINEZ - Discorso di ringraziamento
4.7.2002, da UNA CITTÀ n. 106 / Agosto-Settembre 2002
Vorrei iniziare invitandovi a riflettere su quanto sia assurdo dover riconoscere che la ricchezza può generare povertà, che i paesi più ricchi del mondo ora, in realtà, sono quelli più poveri. Noi sosteniamo sempre di essere paesi ricchi, non poveri, perché la prima assurdità cominciò quando si iniziò a misurare la ricchezza in denaro. Noi siamo paesi molto ricchi di biodiversità, abbiamo acqua, sole, terra, cultura e storia, e abbiamo risorse naturali, non bisogna dimenticarlo, perché è sicuramente così che si spiega l’attuale povertà, infatti per i paesi del Sud avere risorse naturali diventa un male. I paesi ricchi di minerali, diamanti, petrolio, sono quelli che devono sopportare maggiori umiliazioni, maggiori distruzioni, inclusa la guerra, perché viene giustificato tutto in nome della possibilità d’accesso alle risorse, e immagini come quelle che potete vedere all’ingresso, in quelle grandi fotografie, sono le immagini che accompagnano l’idea di ricchezza del petrolio. A noi resta l’inquinamento: il petrolio si esporta, viene bruciato e incentiva un modello che, dal punto di vista economico, si considera sviluppato. Allora vorrei invitarvi a riflettere: cos’è lo sviluppo? Perché lo sviluppo non può nascondere dietro di sé una faccia così sporca; forse dovremmo cambiare termine.Potrei parlare per ore dei casi di cancro, della distruzione dei fiumi, della povertà e dell’espropriazione che ha sofferto la popolazione indigena quando ha perso le sue terre per consentire l’estrazione di queste risorse. Però non è di questo che volevo parlarvi. Io volevo condividere con voi alcune esperienze della gente che ha deciso che adesso basta, che ha deciso di cominciare a prendere nelle proprie mani una possibilità di trasformazione. Molte sono lotte sconosciute, perché di norma quello che succede nel sud del mondo difficilmente si può arrivare a conoscere. Noi riceviamo informazioni solo dalla Cnn o da grandi gruppi televisivi che sottostanno a precisi interessi, quindi difficilmente potrete aver accesso all’informazione su questi fatti positivi che ci aiutano a continuare a lavorare. Io lavoro in una rete che si chiama Oilwatch, che assomma organizzazioni di quasi tutti i paesi tropicali possessori di petrolio. Abbiamo membri in Africa, in Nigeria, Congo, Gabon, Camerun, Mozambico, Sudafrica, Ciad. Inoltre lavoriamo con organizzazioni asiatiche, soprattutto nel Sud Est asiatico, zone anch’esse ricchissime di biodiversità e che, disgraziatamente, hanno petrolio; paesi come l’Indonesia, per esempio, attraversata da centinaia di conflitti e di guerre civili, o come il Bangladesh, considerato il paese più povero del mondo per il debito della sua popolazione, ma che ora ha il petrolio, e poi la Malesia, la Thailandia, Timor, nazione di recente formazione. Tutti hanno la stessa caratteristica, essere paesi molto ricchi e nel contempo avere petrolio, fatto che li condanna alla decapitalizzazione.
In America latina succede la stessa cosa: dal Messico alla Terra del Fuoco, ci sono attività di esplorazione petrolifera in tutti i paesi, con poche eccezioni, come il Salvador, perché già in passato l’esplorazione della costa si rivelò infruttuosa, e probabilmente l’Uruguay.
Ma in tutti gli altri paesi ci sono attività di esplorazione e ricerca petrolifera. E’ una cosa abbastanza assurda: nonostante si sappia che l’estrazione del petrolio provoca tutto questo impatto sia a livello locale che globale, ci sono sempre più paesi con attività petrolifere; 95 in più negli ultimi dieci anni, e l’attività petrolifera è quasi raddoppiata. La situazione dunque è abbastanza difficile, però in tutti questi paesi la gente sta lottando, in alcuni casi per salvare i suoi territori (quando si tratta di popolazioni locali) oppure per proteggere i suoi municipi (quando si tratta di amministrazioni locali) o il suo paese.
Voglio darvi una buona notizia che mi è giunta ieri: il presidente del Guatemala ha deciso di ritirare una concessione petrolifera che danneggiava un bellissimo lago, il lago di Saval, e di ritirarne un’altra che danneggiava il corso superiore di un fiume che sfocia in questo lago. Sembra poco, perché il pianeta è grande e ne abbiamo mille di laghi, ma è così che si comincia. Un paio di mesi fa il Costarica ha deciso di essere un paese libero dal petrolio; il presidente della repubblica ha stipulato un accordo col quale si impegna a dichiarare il paese libero dal petrolio e a controllare l’attività mineraria, che lì è distruttiva. Ci sono lotte dolorosissime, come quella degli Ooni in Nigeria, che, a forza di lottare e di morire, hanno ottenuto il ritiro delle compagnie petrolifere dal loro territorio. C’è stata la lotta del popolo Ugua, lunga e difficile, perché era contro una delle imprese più potenti e con maggiori capacità d’influenza negli Stati Uniti, l’impresa che creò e facilitò la realizzazione del Piano Colombia; ebbene, hanno ottenuto il ritiro di questa impresa dal loro territorio. C’è infine il caso degli indigeni equadoregni del sud dell’Amazzonia, che con la loro tenacia hanno ottenuto che queste imprese non entrassero. Queste lotte hanno ottenuto risultati positivi, ma non ci permettono di dire che è finita, perché le imprese non demordono, lanciano sempre nuove strategie per tentare di accedere a quelle che considerano risorse che appartengono a loro.
La somma di tutte queste lotte però ci permette di affermare che grazie alla suprema risorsa della resistenza sta iniziando un cambiamento del pianeta. Tuttavia queste lotte, che si svolgono a un livello locale, hanno bisogno di una risonanza, di un sostegno internazionale. A livello internazionale questi popoli che resistono non solo non dovrebbero essere repressi come lo sono attualmente, o castigati e condannati perché si oppongono allo sviluppo, ma dovrebbero senza dubbio essere premiati, perché sono gli unici che stanno dando segnali concreti e che stanno adempiendo agli accordi internazionali. Se non fosse per questi popoli, nei dieci anni di lotta per risolvere il problema del cambiamento di clima non sarebbe successo nulla; i governi infatti hanno sistematicamente disatteso agli obblighi; alcuni più di altri, bisogna riconoscerlo. Gli unici che danno segnali concreti, reali, attuali per affrontare problemi come questo, sono questi popoli, storicamente emarginati, violentati, repressi e che, nonostante ciò, stanno dando una battaglia collettiva, per tutti noi, e lo fanno con assoluta generosità, se pensiamo che a livello internazionale sono stati espropriati dei loro territori e dei loro diritti.
Penso allora che questo premio lo meritino loro e che la fondazione Langer assegnandolo a me lo assegni a loro.
Il mio primo ringraziamento va quindi a questi popoli che mi hanno permesso di essere parte della loro lotta e, in qualche modo, di accompagnarli.
Il secondo ringraziamento è per tutti i compagni e i colleghi della sezione ecologica, che non hanno lavorato solo su temi petroliferi, anche se il petrolio è il simbolo dello sviluppo e quindi uno dei temi centrali di cui ci si occupa. Ma lo sviluppo è accompagnato da altre facce, che hanno nome e cognome: imprese minerarie, aziende floricultrici, allevamenti e fabbriche di gamberetti e tutte le altre imprese che per soddisfare un lusso dei paesi sviluppati distruggono le risorse del Sud del mondo, come avviene in Ecuador. Allora il premio va un po’ anche a questi colleghi, che, per altro, sono in maggioranza donne e, adesso che so chi ha ricevuto il premio Langer prima di me, mi rendo conto che è una situazione piuttosto comune. Il terzo ringraziamento va ovviamente alla fondazione Alexander Langer.
Credo ci sia un profondo merito nel non permettere che i morti muoiano in maniera definitiva nella dimenticanza; nel far sì che Alexander Langer continui ad essere presente. Mio padre mi ha insegnato che san Tommaso dice che quando muore una persona cara una parte di noi muore con essa, ma, allo stesso modo, una parte di essa vive in noi. Penso che la fondazione Langer abbia permesso ad Alexander di continuare a vivere e a tutti i presenti di tirar fuori un po’ del piccolo Alexander che hanno dentro per condividere e continuare a lottare per quelli che erano i suoi obiettivi e il suo impegno.
Vorrei ringraziare anche gli amici di Bolzano; noi abbiamo mantenuto relazioni di amicizia per dieci anni e per per me il 2002 non è il decennale di rio de Janeiro, ma segna i dieci anni di una profonda amicizia, in cui abbiamo tentato di fare proposte che non arrivino solo alla testa, ma che impegnino il cuore. Abbiamo lavorato su simboli come quello della farfalla, che propone una trasformazione interiore, fondata sul riconoscimento della bellezza, sul desiderio e la capacità di continuare a sognare, di volare, d’iniziare un processo di cambiamento sicuramente urgente e che sia sostenuto e ispirato da due parti, il Sud e il Nord. Per questo abbiamo sempre parlato della necessità di costruire ponti. Ora noi abbiamo riflettuto su cosa implica la costruzione di questi ponti. Io penso che cominci col riconoscere chi siamo e da dove veniamo, che cosa implica essere del Nord e quale responsabilità ho su questo e che cosa implica essere del Sud e quali responsabilità comporta. Con gli amici di Bolzano abbiamo lavorato molto su questo, riflettendo sui paradigmi che dobbiamo cambiare, su come e se sia possibile coltivare la speranza in questo impegno di tutti.
Infine voglio ringraziare il mio compagno, che è qui. Prima ho ringraziato i colleghi che per la maggior parte sono donne, bene, le donne sanno che quando si fanno le cose con un compagno è tutto più facile.
Da ultimo i miei figli: qui c’è il più piccolo in rappresentanza dei tre, e siccome questa lotta sarà lunga conviene che anche i più piccoli si uniscano. L’applauso, il denaro e l’affetto li trasmetterò ai membri di Oilwatch.
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