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NATASA KANDIC, COSI’ STANCHI E NAUSEATI (11.99)
UNA CITTÀ n. 81 / Novembre 1999
L’impegno di una donna serba per i diritti umani e civili dei kosovari e a fianco del tribunale internazionale. Quando, nel 98, le milizie e l’esercito serbo hanno dichiarato guerra ai civili. L’attuale situazione di illegalità. Intervista a Natasa Kandic.Natasa Kandic è responsabile del "Fond za humanitarno pravo" (Humanitarian Law Center). Il centro è stato fondato a Belgrado nel 1992 e conta oggi anche quattro uffici in Kosovo.
La nostra organizzazione, l’Humanitarian Law Center, è nata nel 1992, in seguito allo scoppio della guerra in Croazia. Il nostro compito è innanzitutto quello di investigare sui casi di violazione dei diritti umani. E devo dire che l’organizzazione è stata avviata fin dall’inizio in modo molto serio e professionale. Abbiamo quindi cominciato con i rifugiati serbi in fuga dalla Croazia, ma anche coi croati presenti qui in Serbia, in particolare in Vojvodina, che a quel tempo venivano minacciati da alcuni partiti politici, in particolare da quello di Seselj, che cercava di spaventarli al fine di far loro lasciare la Vojvodina, così da far posto ai serbi in arrivo dalla Croazia.
Noi abbiamo raccolto molte relazioni sulla situazione al tempo di quel conflitto, e abbiamo documentato molti casi di "crimini di guerra" in Croazia e in Bosnia, sempre sulla base di indagini accurate e testimonianze verificate. E’ stato anche grazie alla nostra documentazione che si è potuto creare il tribunale dell’Aja per la ex Yugoslavia nell’agosto nel 1994. Noi infatti siamo stati la prima organizzazione non governativa dell’ex Yugoslavia ad essere invitata all’Aja per discutere di una eventuale forma di collaborazione. Tuttora lavoriamo in stretta collaborazione con l’ufficio dell’accusa e l’intero tribunale. Per gli avvocati dell’Aja è fondamentale raccogliere informazioni adeguate sui conflitti in corso per decidere se aprire o casomai sospendere un’indagine.
Oltre alla condizione dei croati e musulmani qui in Serbia, noi abbiamo documentato molti casi di violazione dei diritti umani anche rispetto agli albanesi, in particolare dal 1992.
Nel 1997 avevamo anche aperto un ufficio a Pristina. In quel momento infatti ci trovavamo in una posizione privilegiata in Kosovo, nel senso che molti albanesi ci conoscevano e, benché serbi, avevamo conquistato la loro fiducia come organizzazione imparziale. Per questo avevo ritenuto importante che ci fosse una nostra presenza più concreta in Kosovo. Nel 1998 però tutto è cambiato. Le violazioni della polizia serba si sono intensificate, tanto che noi nel maggio del 1998 in seguito alle indagini svolte nei mesi precedenti, abbiamo deciso di rendere pubblici i risultati delle nostre inchieste in cui veniva riportato, sulla base di varie indicazioni, che un conflitto armato era in corso in Kosovo. A quel punto abbiamo invitato il governo serbo ad aumentare l’azione di protezione della parte di popolazione meno tutelata in questo conflitto. Naturalmente il governo yugoslavo non ha voluto sentire ragioni sul fatto che stava scoppiando un conflitto armato in Kosovo. Le spiegazioni ufficiali rimanevano che il governo stava legittimamente combattendo contro i terroristi in Kosovo. Tramite le nostre indagini, noi però avevamo avuto l’opportunità di verificare le informazioni pubblicate dalle fonti ufficiali in Serbia scoprendo così che, per l’ennesima volta, la maggioranza di queste informazioni non erano veritiere. Per esempio parlando con testimoni e vittime sul campo, siamo riusciti a controllare e scoprire che le notizie ufficiali sui terroristi albanesi uccisi non trovavano conferme. Nel senso che i racconti dei testimoni, regolarmente verificati incrociando i loro resoconti, portavano invece ad affermare che le vittime erano civili, o gente che era stata precedentemente arrestata, ma senza armi.
E così tutto lo scorso anno è stato molto duro e difficile perché le violenze contro i civili erano costantemente in aumento. E anche il permesso -"eccezionale" per il governo yugoslavo- all’Osce di entrare in Kosovo non aveva portato ad alcun miglioramento della situazione.
Gli albanesi del Kosovo avevano accolto con grande speranza la presenza di una qualche organizzazione internazionale che monitorasse la situazione, ma in realtà siamo stati tutti presto delusi perché non abbiamo visto alcun cambiamento rispetto alle azioni della polizia e dell’esercito yugoslavo: non erano state affatto sospese. Insomma, tutto è rimasto invariato fino all’intervento militare della Nato.
Francamente il periodo dell’intervento è stato molto duro. I primi giorni ho subito deciso di andare a Pristina per vedere cosa stava succedendo al nostro ufficio, alla gente impiegata.
Arrivare in Kosovo è stata veramente un’impresa. Quel giorno ho preso un taxi per la stazione nella convinzione di trovare un autobus diretto in Kosovo. Non trovandolo, ho chiesto a un autista di portarmi almeno a Bujanovac, un luogo a circa 100 km da Pristina; da lì avrei poi trovato un passaggio per entrare in Kosovo. Lui ha accettato. Anzi, raggiunta Bujanovac, e al prezzo di una lauta mancia, è proseguito alla volta di Pristina. Se non fosse stato per lui, quella volta non sarei mai riuscita a portare fuori tre albanesi dal Kosovo. Devo dire che il suo modo di chiacchierare coi poliziotti, quell’aria di nonchalance ai vari posti di blocco mi hanno lasciato l’impressione che fosse uno di loro. Sono andata con lui altre due volte. A quel punto si limitava a chiedermi: "Chi stiamo portando fuori questa volta?".
In Kosovo ho visto innanzitutto una grande paura, e non soltanto tra il mio staff evidentemente; tutti gli albanesi erano terrorizzati e si aspettavano di essere attaccati da un momento all’altro dalle forze serbe. In particolare, dopo l’assassinio di un famoso avvocato di Pristina, Bajram Kelmendi, tutti in città si aspettavano che le forze serbe avrebbero tentato di eliminare tutti gli intellettuali albanesi.
Così, in quei giorni a Pristina, tutti rimanevano riparati nelle proprie case senza mai muoversi; nelle strade ho visto solo serbi, donne e anziani, tutti gli altri, i più giovani, erano al chiuso, seduti a guardare la tv, senza mai uscire. Allora, ho cercato innanzitutto di recuperare la gente della mia organizzazione e di portarli fuori dal Kosovo. Durante l’intervento Nato io ho viaggiato parecchie volte in direzione del Kosovo. In questo modo ho potuto constatare di persona quanto fosse importante per loro che qualcuno venisse da Belgrado per vedere come stavano e per stare con loro in una tale situazione.
Perché gli albanesi erano spaventati, ma in modo diverso dai serbi. I serbi, la gente normale, avevano paura del bombardamento Nato; gli intellettuali a Belgrado erano preoccupati di un’eventuale aggressione da parte della polizia, ma la gente normale in Kosovo, era molto più preoccupata della repressione della polizia che non dei bombardamenti della Nato. Questo vorrei che fosse chiaro: erano terrorizzati all’idea che i poliziotti arrivassero e li espellessero o che infliggessero loro qualsiasi tipo di violenza.
Gli intellettuali albanesi poi temevano di essere arrestati, messi in prigione, assassinati e veramente non sapevano cosa fare: se tentare di fuggire o rimanere, cambiando quotidianamente il luogo in cui dormivano, perché a quel punto questa era la soluzione migliore per essere relativamente al sicuro.
Dopo alcuni di questi viaggi in Kosovo ho tentato di scrivere e molte delle mie relazioni sono state pubblicate nei media internazionali, perché in quel momento ero nella condizione di poter raggiungere il Kosovo e di riportare cosa stava accadendo.
Dopo la fine della guerra, appena è stato possibile rientrare in Kosovo, abbiamo trasferito l’ufficio aperto in Montenegro nella città di Pec. Abbiamo poi riaperto l’ufficio di Pristina, anche se solo alcune delle persone che vi erano impiegate sono tornate, altre si sono trasferite in altri paesi. Allo stato attuale abbiamo 4 uffici in Kosovo e uno qui a Belgrado.
Ho potuto visitare molti luoghi in Kosovo, soprattutto villaggi al fine di vedere e capire cosa fosse accaduto durante l’intervento militare della Nato. Infatti, avevo continuato a viaggiare nel frattempo, ma ero riuscita a raggiungere solo le città, non i villaggi costantemente circondati dalle forze di polizia, e resi così inaccessibili. Dopo il 12 giugno invece, con l’entrata della Kfor, ho avuto il permesso di visitare diverse zone.
In molti villaggi ho visto fosse comuni, e poi ho ascoltato i resoconti della gente espulsa e che dopo il ritorno in Kosovo aveva cominciato a girare alla ricerca dei familiari scomparsi.
Devo dire che sono stata veramente sorpresa alla vista di quanti crimini sono stati commessi durante l’intervento Nato. In un così breve periodo non avevo mai visto, nemmeno in Bosnia e Croazia, tante violazioni dei diritti umani, tanti crimini, tante violenze. Così, dopo aver riaperto l’ufficio in Kosovo, coi vari avvocati, abbiamo continuato a raccogliere informazioni su cosa è accaduto durante l’intervento. Naturalmente il nostro lavoro è tuttora focalizzato a scoprire cosa ne è stato della gente scomparsa. Fortunatamente abbiamo potuto controllare le informazioni sui prigionieri detenuti nelle prigioni in Serbia. Infatti, le autorità serbe appena poco prima dell’arrivo della Kfor hanno trasferito i detenuti albanesi in Serbia. E al momento sappiamo che 2000 albanesi sono detenuti qui; la maggior parte di loro sono detenuti politici, alcuni sono stati condannati ancora l’anno scorso con l’accusa di terrorismo e per essere membri dell’Uck. Purtroppo, ancora non siamo riusciti a capire cos’è accaduto degli albanesi arrestati in aprile, maggio, fino all’inizio di giugno, durante la loro espulsione in Albania. Infatti in quei giorni, in molti villaggi, la polizia serba arrivava all’improvviso, ordinando alla gente di lasciare i villaggi. A quel punto però, mentre i civili erano in cammino alla volta dell’Albania, spesso venivano nuovamente attaccati dalla polizia, che li separava portando qualcuno con sé, e forzando il resto dei familiari ad andare in Albania senza metterli in condizione di sapere alcunché del destino degli arrestati. Finora non sappiamo cos’è successo, sappiamo che qualche migliaio di persone risultano scomparse.
Data questa situazione abbiamo deciso di fare pressioni perché il problema delle persone scomparse venisse tenuto nella dovuta considerazione. E poi siamo riusciti a organizzare una sorta di tutela per gli albanesi detenuti. Tre albanesi dal Kosovo del mio ufficio a Pec e Giakovica, sono venuti qui, hanno visitato gli albanesi prigionieri e così abbiamo raccolto informazioni da fornire nei loro uffici, anche sulla possibilità per i familiari di venire qui, sui bisogni dei detenuti. Tuttavia, finora le nostre pressioni sul governo yugoslavo per il rilascio dei detenuti in cattive condizioni fisiche, malati o giovani (in base alle nostre informazioni, ci sono almeno 20 ragazzi minorenni) non hanno avuto successo. Comunque finora siamo riusciti a sostenere alcune famiglie in Kosovo, ad informarle sulle visite dei nostri avvocati ai prigionieri e a mantenere il problema detenuti all’attenzione generale.
Dall’arrivo della Kfor, i serbi, i rom e gli altri non-albanesi rimasti vengono attaccati quotidianamente dall’Uck, da altri gruppi armati e da alcuni gruppi criminali arrivati dall’Albania. Fino a questo momento le violenze contro i gruppi rimasti infatti non sono state fermate. L’uccisione, o la scomparsa di varie persone è avvenuta soprattutto nella seconda metà di giugno e in luglio, quando la maggioranza dei non-albanesi è stata costretta a lasciare il Kosovo, ad eccezione di alcune enclaves sotto la protezione della Kfor, dove si sono concentrati serbi e rom.
Allo stato attuale la situazione in Kosovo è molto complicata. Da un lato, gli albanesi sono molto felici, perché hanno l’impressione di aver ora conquistato la libertà, si sono liberati della polizia e delle autorità serba. E ora hanno innanzitutto la preoccupazione di ricostruire le proprie case, trovare lavoro, insomma problemi individuali, e poi di come organizzare i vari servizi. E adesso è ancora il tempo in cui sono gli albanesi le vittime.
Tuttavia, la popolazione albanese sa che quanto sta avvenendo non li favorisce. La gente normale pensa infatti che i criminali debbano essere sottoposti a regolari processi e che tali violazioni dovrebbero essere vietate. Il problema è che la Nato e l’attuale amministrazione Onu non hanno il potere, veramente, di fermare tali violenze. Questo adesso è impossibile. Credo comunque che la comunità internazionale, le organizzazioni non governative e i media dovrebbero convincere gli albanesi che la loro libertà dovrebbe essere una libertà di cui tutti devono poter usufruire.
Inoltre, è fondamentale che il Kosovo organizzi le proprie elezioni a breve termine, perché in questo modo gli albanesi eleggeranno le proprie istituzioni, che dovranno così rispondere di quanto avviene. Oggi infatti chiunque può essere ucciso in Kosovo; senza alcun preavviso chiunque può entrare in qualunque casa e fare qualsiasi cosa. La Kfor non può essere dovunque per proteggere la proprietà privata; loro hanno il compito di vigilare sulle chiese ortodosse, sui monasteri. E l’amministrazione dell’Onu, che pure dovrebbe essere responsabile per la tutela dei diritti umani, inclusa la proprietà, è troppo debole. Finora solo 600 membri della polizia internazionale sono in Kosovo e tale forza non è sufficiente neanche per vigilare e garantire una vita normale su tre strade. Non possiamo parlare quindi di una polizia in grado di fornire protezione in Kosovo. Comunque, considerando cos’è accaduto in Kosovo negli ultimi dieci anni, e avendo al momento solo 600 poliziotti, la situazione potrebbe essere anche peggiore di come è adesso. Tuttavia, è fondamentale che molte questioni vengano risolte nell’ambito dell’amministrazione Onu, ma anche delle istituzioni serbe, perché i detenuti albanesi si trovano ora nelle prigioni serbe e quindi nelle mani delle forze e degli ufficiali serbi e il destino dei serbi scomparsi è nelle mani degli albanesi. Questo significa che è essenziale arrivare a qualche forma di contatto attraverso le istituzioni internazionali. Perché migliaia e migliaia di albanesi sono tornati in Kosovo alla ricerca dei propri familiari; molte madri, sorelle vogliono visitare i loro parenti detenuti, ma per loro resta molto difficile. E finora nessuno è riuscito a risolvere questo problema.
Il fatto è che i rom non hanno una propria nazione dove fuggire, dove mettersi al riparo. Sono stati costretti a venire qui in Serbia e in Montenegro. Ma i rom in Kosovo conducevano una vita migliore rispetto ai rom che vivono in Serbia, perché in Kosovo appartenevano alla parte più tutelata della società. Loro infatti sono sempre stati molto più vicini ai serbi. E ora credo ne stiano pagando il prezzo, perché gli albanesi li hanno accusati di aver collaborato con la polizia serba e coi gruppi paramilitari, e li hanno espulsi dal Kosovo. Probabilmente è vero che i rom hanno sostenuto la polizia serba, tuttavia in molto casi sono stati costretti a partecipare alle rapine e in alcune azioni militari della polizia. Tuttavia, se il mondo civile vuole veramente capire i rom, dobbiamo innanzitutto capire la loro particolare posizione: loro sono sempre nella necessità di essere vicini al potere, perché senza il supporto di tale autorità non possono esistere proprio come popolo.
Ora per loro la situazione è veramente molto difficile perché, a differenza dei serbi kosovari, che qui hanno familiari e quindi abitazioni, appartamenti, proprietà, i rom non hanno familiari con appartamenti in Serbia, hanno solo parenti rom più poveri di loro, che quindi non possono assolutamente aiutarli, neanche con del cibo, o un rifugio. Per questo i rom stanno tutti tentando di trasferirsi in altri paesi. Ad esempio, molti stanno tentando di entrare in Italia. E sembra che nessuno voglia parlare dei rom. Infatti finora nessuno ha fatto delle proposte su come aiutare e sostenere i rom. E adesso la guerra in Kosovo è finita, ma io ho visto che noi tutti appartenenti alla comunità internazionale non proviamo gli stessi sentimenti, emozioni per queste diverse popolazioni. Tutti si sono commossi profondamente per gli albanesi, come era giusto, ma nessuno si è mostrato preoccupato per il destino dei rom. E ora, francamente, tra i paesi europei, chi accetterà entro i suoi confini almeno quella parte di rom che ha familiari in tali nazioni?
La situazione in Serbia è molto difficile. Quanto è iniziato l’intervento militare della Nato, qui la gente si è molto arrabbiata con la comunità internazionale, accusandola di voler distruggere la Serbia. Tuttavia la popolazione, come pure l’opposizione e gli intellettuali non si sono chiesti di chi fosse la responsabilità per questo intervento e per l’embargo messo in atto dai paesi europei. Purtroppo la propaganda ufficiale è stata terribilmente efficace. L’opposizione ora cerca di spingere la gente a seguire le pressioni internazionali volte a far cadere Milosevic. Ma questo è un compito veramente arduo. Milosevic ha tuttora un potere enorme, ha la polizia, l’esercito yugoslavo, altre unità addizionali, in particolare tutte le unità impegnate nella guerra in Kosovo. E soprattutto non ha alcuna intenzione di dare le dimissioni. La strategia dell’opposizione poi nell’organizzare le dimostrazioni non sta ottenendo alcun risultato. La gente semplicemente scende nelle strade da giorni e giorni, senza vedere alcun risultato. Perché Milosevic non è affatto preoccupato alla vista di queste proteste nelle strade. E temo che con l’arrivo del freddo, troverà la giusta strategia per creare uno stato di paura generalizzata affinché la gente resti nelle proprie case, senza partecipare alle manifestazioni. Non riesco a vedere l’inizio di alcun reale cambiamento in Serbia, non riesco ad essere ottimista. Questo resta un grosso problema, e tuttavia penso che la comunità internazionale dovrebbe sostenere non l’opposizione, ma la Serbia in generale a porre fine a questi 10 anni di guerra. Perché la gente comune e l’opposizione non possono aspirare a porsi allo stesso livello dell’autorità e del governo, non abbiamo lo stesso potere. Non abbiamo media sufficientemente potenti e forti, e non siamo soldati o poliziotti per metterci a combattere anche noi. Possiamo solo parlare, ma in questa situazione questo non è assolutamente sufficiente. Insomma, quello che si prospetta è un inverno molto duro. A livello europeo molti governi stanno discutendo se sostenere la popolazione serba con l’elettricità o meno. Personalmente, io credo che l’approvvigionamento d’acqua, oltre che l’elettricità, non debbano essere in discussione, perché anche in guerra dovrebbero essere garantiti l’elettricità, l’acqua e le altre cose essenziali alla vita quotidiana. E’ molto importante essere chiari su questo: non si tratta di sostenere Milosevic e neanche l’opposizione: l’elettricità e l’acqua non dovrebbero essere toccate, devono essere considerate "fuori" dalla guerra.
Comunque, la gente qui è così stanca e nauseata. Sempre più assorbita dalle preoccupazioni della vita quotidiana, non riescono a vedere alcun futuro, non credono nell’opposizione, non credono in alcuna possibilità di rimuovere Milosevic...