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Lisa Foa: Momenti magici - intervista

1.4.1994, UNA CITTÀ n. 31 / Aprile 1994
Nella resistenza ognuno riuscì a dare il meglio di sé. L’evasione da san Vittore e i turbamenti deIla banda Koch. Il brutto grigiore del dopoguerra quando nella guerra fredda si raffreddarono anche le amicizie e l’Italia tornò conformista. La figura tragica di Togliatti. Il 68 che è ancora un tabù. Intervista a Lisa Foa.

Mi chiedete di parlarvi del mio passato, ma non è molto facile in questo momento. Negli ultimi tempi si sono rotti molti fili, molte connessioni e per certi aspetti può anche essere un bene che sia così, in fondo dobbiamo prepararci a cambiare secolo. Ma io alle volte sento un po’ di nostalgia per i tempi andati, quando era più facile scegliere. Non mi riferisco tanto a quello che si usa definire il "crollo delle ideologie", che d’altra parte si erano venute via via logorando e quando sono crollate avevano già perso da tempo il potere di sedurre, di attrarre. Penso piuttosto a quei momenti che hanno un carattere direi manicheo oggettivo in cui l’alternativa non può essere che tra il Bene e il Male, come fu la Resistenza. Ma adesso si dice che le categorie del fascismo e dell’antifascismo sono superate, anche se poi assistiamo a dei fatti come le ultime elezioni amministrative che, almeno a Roma e a Napoli, hanno riportato in vita proprio quella vecchia contrapposizione. Certamente il mondo è molto cambiato da allora, molto più complicato e affollato. Ma quella fase felice, di autentica liberazione, in cui le persone, la maggioranza delle persone, erano diventate migliori, disinteressate, generose, erano capaci di gesti di altruismo e solidarietà, così semplicemente, senza stare a pensarci su molto, ebbene tutto questo mi sembra debba essere ricordato e salvato al di là delle categorie storiche.Ho avuto un’esperienza carceraria molto limitata durante la Resistenza. Sono stata arrestata dalla banda Koch nell’estate del ’44 a Milano. Mi presero in casa di amici. Ero andata a Lecco a portare del materiale e sono capitata perché la casa era vicina alla stazione e avevo un vuoto di tempo: un rallentamento della prudenza che poteva costare caro. E infatti dopo un po’ è arrivata la polizia, cioè quella strana polizia speciale che era la banda Koch, una di quelle organizzazioni, più criminali che poliziesche in senso proprio, che pullulavano nella Repubblica di Salò. Non aspettatevi da me delle memorie dal carcere, ci sono stata troppo poco, una quindicina di giorni nei sotterranei della villa dove abitava quella banda, in Via Paolo Uccello, poi a San Vittore per altre due settimane e poi in un ospedale piantonata: aspettavo un figlio e feci finta di stare male, e poi dall’ospedale sono scappata. Una reclusione così non ti permette di fare delle riflessioni filosofiche sulla vita, di leggere e meditare. Era una reclusione particolare quella della Resistenza. Ti hanno beccato ma non ti puoi rilassare, devi subito pensare a come sopravvivere. Devi giocare d’astuzia per non farti torturare, aguzzare l’intelligenza per raccontare delle storie plausibili che non presentino troppe falle, cercare di comunicare in qualche modo con l’esterno. Sei così preso dai problemi immediati, minuto per minuto, che non hai tempo di pensare ad altro. Non era un carcere quello, era un incidente di percorso. Il vero carcere è una cosa diversa, i tempi sono lunghi, ti rilassi, la tua vita è organizzata dagli altri. Lì era il contrario, dovevi organizzarti tu stessa la tua vita, la tua sopravvivenza. E nemmeno c’era tempo o voglia di stringere amicizie al di fuori del cerchio delle "politiche". Mi ricordo vagamente delle detenute "comuni", che a quel tempo erano soprattutto accusate di borsa nera o di aborto, povere ragazze allo sbando, disponibili a parlare e spiegare le loro ragioni e con cui in altri momenti avresti potuto fare causa comune. Ma bisognava diffidare...E anche l’evasione in realtà è stata una liberazione, perché io stavo alla maternità di Via Commenda ed è venuto un piccolo commando a prelevare me e una mia amica, piantonata anche lei. La cosapiù bella era la solidarietà di tutti, delle suore, dei medici, delle infermiere. Il primario del reparto, che si chiamava Alfieri ed era fratello del gerarca fascista, tutte le mattine passando diceva senza nemmeno guardarmi in faccia: "questa qui bisogna mandarla via". Ma subito dopo tornavano i suoi assistenti a rassicurarmi: "stia tranquilla, finché siamo qui nessuno la manderà via". Credo che fossero disposti a nascondermi nei sotterranei piuttosto che rimandarmi a San Vittore. E poi, quando un pomeriggio, alle due, in un momento di tranquillità, sono arrivati i compagni a disarmare i poliziotti e a chiuderli dentro uno sgabuzzino, i medici che incontravamo per le scale mentre fuggivamo in camicia da notte e scalze si congratulavano con noi: "brave, brave che tagliate la corda". Una volta per strada, prima di salire in macchina, abbiamo dato uno sguardo alle finestre per assicurarci che i poliziotti non ci sparassero e c’erano invece le suore e le infermiere che sventolavano i fazzoletti. Insomma, era una festa collettiva. Eppure era tutta gente che poteva aspettarsi qualche rappresaglia o essere accusata di favoreggiamento. Nell’autunno del ’44 i partigiani non erano alle porte di Milano.Vorrei dire un’altra cosa a proposito dell’atmosfera di allora. C’era qualche cosa che assomigliava alla gioiosità. Certo si vivevano drammi e profonde tristezze, c’era tanta gente che ti moriva intorno, ma ci si abitua presto all’eccezionalità, alla precarietà della vita, altrimenti non si potrebbe sopravvivere. Pensate un po’ ai bosniaci, agli abitanti di Sarajevo, assediati e ammazzati per due anni. C’era soprattutto una grande pulsione di vita, era come se si dovesse vivere con intensità moltiplicata, anche per quelli che erano scomparsi. Credo che sia sempre così nei periodi eccezionali. Ma c’erano anche momenti elettrizzanti di estrema felicità, quando riuscivi a realizzare delle cose o toccavi con mano la solidarietà, a volte anche da parte di sconosciuti. Bastava un’occhiata durante un rastrellamento o una perquisizione in treno per capire chi ti poteva dare una mano. Per questo dicevo prima che la gente era diventata migliore, che ciascuno dava il meglio di se stesso. Pensiamo cosa era stata la vita sotto il fascismo, quella condizione umiliante di sottomissione, di acquiescenza, sempre con la testa china. Dopo l’8 settembre in quel vuoto di potere che si era creato e per di più con i tedeschi in casa, le persone avevano cessato di vivere come sudditi e avevano capito che la loro sorte dipendeva da quello che decidevano di fare, dalla loro iniziativa. Era come un recupero generale di libero arbitrio dopo la dittatura.Anche in questo senso, più personale, è stata una guerra di liberazione, di emancipazione, cui hanno partecipato infinitamente molti più italiani dei partigiani e resistenti in senso letterale.Cosa contava di più, gli ideali o il gruppo di amici? C’era tutto mescolato insieme, le cose da fare e i legami con le persone con cui le facevi. Ma forse non è il caso di parlare di ideali, sa un po’ di oleografia da testi scolastici di una volta. Purtroppo la Resistenza è stata imbalsamata, e questa è forse la ragione per cui non la si considera più attuale.Per anni le generazioni che vi hanno partecipato sono state viste dai più giovani come avessero un’aureola attorno alla testa, e anche voi, ragazzi del ’68, avete mitizzato la Resistenza. Ma era una vita molto terrena, materiale, una vita che aveva una sua normalità. La vita clandestina libera da molte noiose incombenze e da un senso elettrizzante di libertà. Eri sempre più o meno per la strada, ti dovevi spostare molto, cambiare spesso casa, una vita da nomadi insomma, ma che dopo un po’ diventa un’abitudine. E poi si doveva pur sempre fare la spesa e lavare i piatti. Anche le persone erano più o meno come erano state sempre, con i loro difetti e le loro virtù, nessuno era un eroe o si sentiva tale. Oppure diciamo che gli eroi sono sempre delle persone molto normali.In quanto agli amici, erano certamente molto importanti. C’era allora, sotto il fascismo e durante la guerra, una capacità di amicizia molto più forte di quanto mi sembra ci sia stata dopo. Credo che succeda sempre sotto una dittatura. L’ho vista anche, ad esempio, nei polacchi dell’opposizione e di Solidarnosc, ed è anche per questo che mi sono sempre sentita molto vicina a loro, mi ricordavano i tempi andati.Devo dire per inciso che i polacchi mi sembrano più bravi di noi, hanno una capacità di amicizia molto duratura, mentre qui da noi c’è stata subito una sorta di diaspora, la politica ha portato molte divisioni. Anche questo lato dell’amicizia fa parte di quella capacità di essere migliori di cui dicevo prima.A Torino credo che ci fosse una situazione particolare, con legami di amicizia molto forti, veri sodalizi. Ma qui bisogna distinguere. Quelli che erano già da tempo antifascisti, quando nel ’43 si presentarono le circostanze opportune avevano già il destino segnato: non avevano fatto per anni che attendere la guerra, lo scontro finale. Ma per la maggior parte delle persone che presero parte alla Resistenza, questo fu il risultato di una scelta, e il momento della scelta è stato certamente quando si è realizzata la coincidenza tra gli eventi che possono rendere migliori le persone e le persone che decidono di essere migliori. Sono i momenti magici della storia, ci sono sempre stati e torneranno ad esserci.Torino non è emblematica dell’Italia di quel periodo perché è sempre stata un angolo appartato. A Torino il fascismo ha tardato a penetrare o almeno non è penetrato nelle sue forme più invadenti e grottesche. Era comunque pesante, era pesante la propaganda, l’inquadramento dei giovani; i libri di testo erano fascisti anche se non lo erano tutti i professori. I miei compagni di scuola erano conformisti, come lo erano in genere gli italiani. Non che ci fosse un consenso attivo, c’era un piccolo conformismo quotidiano. Non era un clima particolarmente oppressivo, tranne ovviamente per chi era messo in carcere o sottoposto a particolare sorveglianza. Ma la vita era abbastanza normale.C’era ovviamente la censura, ma si trovavano molti libri e molti, poi, venivano portati dalla Francia, che era un po’ il nostro entroterra. Il cinema era una grande risorsa perché si potevano vedere normalmente i film americani e francesi. Era comunque in genere una vita grigia, squallida, deprimente. Il fascismo era molto stupido, banale, volgare. E poi dalla guerra in Etiopia nel ’35 era diventato più aggressivo, razzista. Nel ’38 le leggi antisemite passarono in mezzo all’indifferenza generale.Queste cose bisogna ricordarle adesso che si dice che il fascismo appartiene al passato. Il razzismo, l’indifferenza sono fenomeni largamente diffusi anche oggi e trovano un punto di riferimento politico ben preciso.Negli ultimi tempi in Italia anche da sinistra ci si è messi a considerare il fascismo non dico con simpatia ma almeno con molto minore ripugnanza. Mi pare molto strano che il secolo che ha visto il fascismo trionfante in mezza Europa e una terribile guerra per sconfiggerlo si chiuda da noi con una semi-assoluzione.Nel resto dell’Europa non succede. In Francia del collaborazionismo e del regime di Vichy si continua sempre a parlare e discutere, e quell’esperienza rimane un angoscioso trauma nazionale, come l’affare Dreyfus e l’antisemitismo o come la guerra in Algeria. Adesso si è aperto anche un processo contro un ottuagenario collaborazionista. In Germania, un paese che pure ha vissuto molte rimozioni, il problema del nazismo e dei campi di sterminio ritorna periodicamente in modo lacerante, e lo si vede anche ora alle proiezioni del film di Spielberg. Da noi invece c’è una marcata propensione alla memoria corta, quando non succede di peggio. Tempo fa ad esempio è uscito un libro che parla di Osvaldo Valenti e Luisa Ferida, i due attori che aderirono alla Repubblica di Salò, come di due interessanti personaggi dall’anima complessa e tormentata. Non ci sono state particolari reazioni. Io li ho conosciuti bene perché facevano parte della banda Koch. Mi sono detta: ma guarda un po’, noi che stavamo di sotto, nelle cantine di quella villa di via Paolo Uccello, così fissati sui nostri problemi di sopravvivenza fisica, non ci siamo accorti del dramma di questi due personaggi che arrivavano su macchine fuori serie, prendevano la cocaina, banchettavano nei piani superiori e poi si divertivano a torturare o vedere torturare la gente.Poi sono stati fucilati, ma di questo si poteva anche fare a meno. In fondo erano sconfitti e non erano più in grado di nuocere. Se li avessero lasciati in vita avrebbero potuto spiegare loro stessi perché erano andati a finire volontari nella banda Koch e nessuno avrebbe potuto scrivere un libro sui turbamenti delle loro anime.Tornando al dopoguerra. La politica ha subito diviso perché il mondo si è subito diviso, si è rotta la grande alleanza antifascista e si è riproposto il vecchio conflitto fra l’Occidente e l’Unione Sovietica. Mi ricordo che la guerra era finita da pochi mesi e già si parlava della possibilità di una nuova guerra. Il clima era bruttissimo, pesante. Si creava di nuovo una situazione di manicheismo, ma questa volta costruita, artificiale, ideologica. Era come una cappa che piombava sulla testa. Tutto ciò ha avuto ripercussioni molto forti sulle persone perché obbligava a schierarsi. E quello, bisogna dirlo, è stato un periodo per niente magico in cui tutti davano il peggio di sé. La guerra di liberazione era stato un momento attivo, di presa di coscienza, di scelta autonoma, e invece adesso tutti si schieravano sotto delle bandiere ed erano come travolti da forze incontrollabili che spingevano verso una polarizzazione estrema: o si stava con l’atlantismo o si stava con il campo socialista. Quei famosi trattati per la spartizione del mondo di Yalta e Potsdam, su di noi hanno avuto questo effetto: un turbine che ci ha schiacciati tutti.E poi la vita italiana diventava sempre più ripiegata su se stessa, non ci si occupava quasi mai di quanto succedeva nel mondo, mancavano le informazioni più elementari, per esempio, su quello che stava avvenendo nell’altra parte dell’Europa, ormai separata. C’erano solo campagne di propaganda dove tutto appariva o bello o brutto. Succedeva più o meno lo stesso in tutti i paesi occidentali, ma qui in Italia c’era questa prevalenza democristiana, clericale. E’ stato un grande disincanto. Io ingenuamente mi ero immaginata che, caduto il fascismo, I’ltalia sarebbe diventata come la Francia e l’lnghilterra, un paese cioè dove ci sarebbe stata una piena democrazia, con il rispetto delle persone, dei diritti umani e civili. E invece veniva fuori un paese oscurantista, bigotto, con la religione usata come strumento politico, con il vecchio mondo fascista che pian piano ritornava a galla, con la solita retorica italiana.E non è che la sinistra si comportasse molto meglio. Certo, sosteneva le lotte degli operai e dei contadini poveri, impediva la clericalizzazione totale dell’ltalia, difendeva le libertà elementari. Ma in sostanza contrapponeva una religione a un’altra religione, un’ideologia ad un’altra ideologia. E usava le stesse armi della retorica.Ad esempio, il modo di presentarsi dei politici era più o meno simile: in tutti i comizi si urlava sempre, c’erano sempre masse osannanti, insomma si faceva appello agli impulsi più elementari.E nella vita quotidiana le ripercussioni furono ovviamente molto brutte, perché tutti eravamo diventati molto conformisti, settari, dogmatici o in un senso o nell’altro. Era difficile parlare, intendersi, le amicizie si incrinavano, le persone cessavano di frequentarsi. Era una specie di malattia collettiva. Ma questo è durato pochi anni, nel periodo più acuto della guerra fredda, quando negli Stati Uniti c’era il maccartismo. Ma l’atmosfera è rimasta a lungo segnata da quell’ondata di oscurantismo che sollecitava una mentalità del tipo "dio, patria e famiglia" e rafforzava tendenze fascistoidi e certe propensioni qualunquiste tipiche degli italiani. Per la sinistra una svolta salutare è stata quella del ’56, con il XX congresso del partito comunista sovietico, la destalinizzazione e i movimenti popolari in Polonia e in Ungheria. Sia pure con fatica e lentamente si è capito che bisognava riconsiderare anche il proprio modo di essere comunisti o socialisti. Si è cominciato a essere meno credenti e più laici, e questo ha migliorato anche molti rapporti personali. Non ci si è ancora resi ben conto quanto si debba a quei movimenti di opposizione nell’Est e quanto abbiano aiutato a cambiare la nostra mente.Ho lavorato a Rinascita più tardi, nei primi anni Sessanta, quando la situazione era già molto diversa. E’ difficile parlare di Togliatti proprio perché è stato oggetto di tante polemiche. Mi pare però molto ingiusto il modo in cui è diventato una sorta di capro espiatorio di tutte le nefandezze del comunismo. Era certamente un personaggio che aveva vissuto, partecipato e collaborato alla terribile fase dello stalinismo negli anni Trenta con responsabilità di primo piano.Quando l’ho conosciuto io, verso la fine della sua vita, mi pareva molto segnato da quelle esperienze, e anzi, forse a Botteghe Oscure era il solo che ne avesse tratto qualche insegnamento. Gli altri dirigenti comunisti erana tutti, come dire, più spensierati e trionfalistici. Togliatti, invece, sembrava abbastanza consapevole di quante tragedie si fosse lasciato alle spalle.Mi ricordo che in quegli anni la Pravda dava spesso notizia di riabilitati tra gli scomparsi nelle grandi epurazioni, persone che lui aveva conosciuto e ne parlava con evidente tristezza, oppure rimorso, chissà... In ogni caso il giornale che lui dirigeva pubblicava più informazioni sulle incrinature del mondo comunista dell’altra stampa di partito, e anche al tempo del conflitto tra Urss e Cina era relativamente aperto alle discussioni. Se ne parlava spesso in redazione. Il suo moderatismo, tanto criticato dal movimento del ’68, credo gli fosse suggerito proprio da quelle esperienze. Aveva fatto e visto molte guerre civili e la sua ossessione doveva essere di non farne un’altra. Si poteva intuire dai suoi accenni alla guerra di Spagna, che per lui era certo stata una pagina molto nera. Quella preoccupazione non era notoriamente condivisa da tutti i dirigenti del Pci, e credo che un giorno gli verrà riconosciuto il merito storico di avere evitato una guerra civile in Italia, e non si continuerà a parlare soltanto della sua "doppiezza", che era una caratteristica dell’epoca largamente diffusa. In quell’ltalia del dopoguerra ben pochi erano democratici fino in fondo e con convinzione.Anche il ‘68 è stato certamente un altro momento magico, liberatorio, un momento di svolta per la modernizzazione dell’Italia. Forse non era nelle intenzioni dei sessantottini modernizzare l’Italia, ma in realtà è quello che è avvenuto. Quella ribellione antiautoritaria ha dato una scossa salutare a un paese che si stava incartapecorendo, e ha permesso nei decenni successivi tutte quelle riforme civili che hanno cambiato la nostra società. Non credo che senza quel momento liberatorio, di rottura, i cambiamenti sarebbero venuti per normale evoluzione storica, sotto la spinta dello sviluppo delle forze produttive, come si diceva una volta. I partiti dominanti erano troppo conservatori, retrogradi, e la sinistra era troppo incerta e paurosa di toccare i tabù di una società cattolica. La sinistra per muoversi aveva bisogno di essere scavalcata, di perdere il monopolio dei movimenti sociali. C’è molta irriconoscenza in genere per il ’68, continua a rappresentare una sorta di spauracchio del nostro mondo politico e culturale. Bisogna certo riconoscere che la fase liberatoria è durata poco, e il movimento è rifluito, ripiegando sulle vecchie categorie ideologiche e politiche, anche se con una forte dose di fondamentalismo, per il ritorno cioè alla "purezza delle origini". Ma il riflusso è, ahimè, un passaggio obbligato che nessuno ha trovato ancora il modo di evitare nei grandi come nei piccoli rivolgimenti. Del resto tutto quello che è avvenuto a partire da allora è materia ancora troppo incandescente che non si osa in genere affrontare. Troppi cadaveri negli armadi, in senso letterale. Mi ha colpito molto ad esempio che i servizi segreti, con tutto quello che hanno combinato, siano oggi sotto accusa soltanto perché hanno rubato un po’ di miliardi, in fondo un peccatuccio veniale... Ma per tornare al ’68, bisognerà ripensarci su. Le celebrazioni del ventennale sono state a mio parere un po’ troppo gioiose e festaiole, e infatti hanno lasciato poca traccia. Le ex "guardie rosse" in Cina hanno avuto certo una sorte più tragica ma hanno anche fatto delle riflessioni più profonde. Credo che il giudizio sul ’68 sia un indice molto significativo. Fino a quando si continuerà a maledire o esorcizzare quell’esperienza, vorrà dire che non siamo pronti ai cambiamenti. Non alle riforme istituzionali e politiche, che si possono sempre fare, ma ai veri cambiamenti nel modo di pensare e di comportarsi.
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