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Khalida Messaoudi: La fierezza ritrovata

1.11.1989, Una Città n.81 Novembre 1989
La nuova speranza prodotta in Algeria da alcune prese di posizione coraggiose del nuovo presidente algerino Bouteflika. Il referendum sulla concordia, che segna la sconfitta del terrorismo islamico, non basta a dare giustizia, e soprattutto senso, al lutto dei parenti delle vittime. La grande questione del Codice della famiglia. Intervista a Khalida Messaoudi.

Khalida Messaoudi, deputata algerina, è dirigente dell’Rcd, Raggruppamento per la cultura e la democrazia, e di Rachda, organizzazione femminile per la difesa delle donne contro i soprusi del Codice della famiglia algerino.

Vorremmo approfondire le ragioni per cui il presidente Bouteflika ha indetto questo referendum sulla concordia civile...
Credo sia importante chiarire che il referendum non riguarda la legge in se stessa, nel senso che la legge sulla concordia civile è già stata adottata dall’Assemblea Nazionale e dal Senato ed è in vigore dal mese di luglio. Infatti la domanda posta dal referendum diceva: "Siete d’accordo con il tentativo del presidente tendente a portare la concordia civile e la pace in Algeria?", quindi parlava di un tentativo, non diceva: "Siete d’accordo o contrari alla legge sulla concordia civile?". Penso che Bouteflika abbia voluto comunque il referendum su una legge già approvata dal Parlamento a grande maggioranza per diversi obiettivi. Il primo era quello di fare dimenticare, in un modo democratico, la macchia che sporcò la elezioni del 15 aprile, (quando tutti gli altri partiti si ritirarono dalla competizione per brogli e irregolarità. Ndr). Andare davanti al popolo chiedendo: "Siete favorevoli o contrari al tentativo del presidente?" ha il chiaro significato di una seconda elezione. Con il risultato del referendum, 84% dei partecipanti e 95-98% circa dei sì, evidentemente Bouteflika è stato assolutamente riconfermato e questa volta in modo chiaro. Anche nei confronti degli interlocutori stranieri aveva bisogno di questo secondo voto, per rafforzare la propria posizione. Infatti dopo il referendum è andato a New York, ed è parso molto più sicuro di sé, forte del plebiscito del referendum.
Il secondo obiettivo è altrettanto importante: cercare di rendersi autonomo da tutte quelle forze che tentavano di incastrarlo, di imporgli la loro volontà, a cominciare dalla coalizione che l’ha sostenuto alle presidenziali, cioè Rnd, Hamas, Fln e En-Nahda, che detiene la maggioranza in Parlamento.
Si poteva pensare che questo Presidente, avendo a livello della classe politica una larghissima maggioranza, non avesse alcun bisogno di andare a un referendum e, invece, lui, prima ancora che la legge sulla concordia civile arrivasse in Parlamento, aveva detto pubblicamente che qualunque voto avesse espresso il Parlamento lui sarebbe andato davanti al popolo.
Era un’affermazione molto importante, che stava a significare: "Voi non siete la maggioranza a cui aspiro. Ora ho bisogno di voi, ma un domani, una volta che sarò insediato, voglio anche fare a meno di voi". Perché questo atteggiamento? Penso proprio per rendersi autonomo da questa gente, nel caso avesse bisogno di fare una revisione della Costituzione, nel caso volesse formare un governo. Insomma, è come avesse detto: "Non potete imprigionarmi, dettarmi ciò che devo fare, poiché in ogni modo il popolo mi ha dato una schiacciante maggioranza diretta". E quando si confronta il risultato del referendum di settembre ai risultati delle presidenziali, l’esito è veramente umiliante per la coalizione di partiti che lo sostenne. Ora può fare a meno di loro.
Infine, il terzo obiettivo di Bouteflika è ancora, analogamente, un bisogno di autonomia, questa volta dall’esercito. Un risultato elettorale così eclatante gli permetterà infatti di essere autonomo dal generale Edmhari, che è colui che l’ha fatto tornare come candidato. Insomma l’operazione computa gli conferisce la forza sufficiente per non dovere niente a nessuno, per poter dire a tutti: "Il mio potere viene dal popolo che ha votato a favore del il mio tentativo".
Per quanto riguarda, invece, la legge sulla concordia...
Tecnicamente non è la legge che pone dei problemi, quanto piuttosto il fatto che non è stata accompagnata, come avrebbe dovuto, da un certo numero di provvedimenti, di discorsi, da un contesto adatto. Mi spiego: tecnicamente e concretamente questa legge riguarda le persone del Fis e coloro che l’hanno appoggiato e interessa tre categorie di persone. La prima è quella di coloro che hanno appoggiato l’azione terrorista del Fis, finanziariamente o dal punto di vista logistico, ma che non hanno partecipato a quelle azioni. Erano in carcere migliaia di persone, quasi 5000, e fra di loro molti erano fratelli, madri, famiglie, amici diretti di terroristi.
Questa categoria di persone è stata già graziata, per una metà, e l’altra metà sarà graziata, penso, in occasione del 1° novembre (da noi in Algeria, la grazia del Presidente arriva in date simboliche, la prima è stata il 5 luglio, anniversario della Festa dell’Indipendenza e la seconda penso sarà per il 1° novembre, anniversario della guerra di Liberazione Nazionale). La seconda categoria di persone comprende coloro che erano al maquis, ma che non si sono macchiati di crimini di sangue o di stupro. A questo riguardo, molti credono che basti la semplice dichiarazione del terrorista di non aver commesso crimini di sangue. In realtà non è così, perché la legge prevede tutta una serie di misure, e delle commissioni miste con la polizia, la gendarmeria, il procuratore della Repubblica, il giudice, l’esercito, e anche avvocati, perché comunque la persona accusata deve potersi difendere.
Ci sono anche dei veri e propri dossier, e i membri della commissione di approvazione esaminano, ascoltano, decidono; è la commissione infatti che decide. E se la persona è veramente colpevole di crimini di sangue allora andrà davanti a un tribunale. A questo proposito la legge dice è che non c’è più pena di morte e non c’è più ergastolo: la pena di morte viene commutata in 20 anni di carcere, l’ergastolo in 10 anni. E non bisogna pensare che siano poche le persone che rientrano in questa categoria. Ci sono anche donne che hanno seguito il marito al maquis e che però non hanno commesso crimini. C’è infine una terza categoria che comprende chiaramente coloro che fanno parte dell’Esercito Islamico della Salvezza. La legge, ovviamente, non li nomina, si riferisce a "persone costituite in gruppi armati che accettano, senza porre condizioni, di deporre le armi, di arrendersi allo Stato, di mettersi sotto l’autorità dello Stato per combattere gli altri terroristi che non si arrendono". Ma se si guarda bene chi possono essere se non l’Ais. Questi ricevono un trattamento molto particolare in effetti: depongono le armi, si pongono sotto l’autorità dello Stato e combattono gli altri terroristi.
In che senso non è tanto la legge che pone dei problemi?
Ho riflettuto su questo e so che tutte le volte che c’è una guerra c’è poi un momento in cui si arriva a una negoziazione. Il mio problema è sempre stato: negoziare alle condizioni di chi? Ero contraria agli accordi di Roma e lo sono ancora perché gli accordi di Roma erano negoziazioni alle condizioni del Fis. Questi accordi invece sono alle condizioni della Repubblica, non del potere. La Repubblica decide che i terroristi depongano le armi, senza alcuna condizione.
Tuttavia, il problema è rappresentato dalle vittime. Non penso che la soluzione sia la vendetta, come non penso che la soluzione sia che lo Stato perdoni: i soli che possono perdonare sono le vittime. Penso che le vittime ora abbiano bisogno non tanto di una casa o dei soldi, tutti gli algerini in stato di necessità hanno bisogno di questo, tutti i poveri ne hanno bisogno. Le vittime hanno bisogno di riconoscimento; hanno bisogno che la società e il popolo li riconoscano in quanto vittime. Si tratta di fare tutto un lavoro di definizione dei crimini commessi, di dare loro un nome e definire i responsabili. Ciò che mi interessa non è certo indicare come responsabile la moglie del terrorista; vado più lontano, e non mi interessa neanche la responsabilità del giovane terrorista. Se voglio veramente la pace, cioè se voglio veramente che questi crimini, questa crudeltà non succedano mai più, allora devo non solo definire i crimini, ma responsabilizzare i responsabili politico-religiosi. E lo Stato non lo sta facendo, è per questa ragione che il problema non è la legge quanto piuttosto ciò che avrebbe dovuto accompagnare la legge. E’ un lavoro enorme quello che ci aspetta e non penso che sarà semplice; sarà molto difficile, ma bisognerà farlo. Altrimenti è facile immaginare che i traumi subiti dalle vittime non si saneranno mai.
Pensiamo solo a tutti i bambini algerini, anche a quelli che non hanno vissuto direttamente il terrore. C’è anche tutto un lavoro pedagogico da cominciare, che richiederà molto tempo ma che è irrinunciabile. E lo devono fare lo Stato e tutta la società, a tutti i livelli, giuristi, psicologi, sociologi, tutti. Ed è un lavoro che si deve fare pubblicamente. Una donna vittima del terrorismo, a cui hanno sgozzato una figlia esprimeva bene questo terribile stato d’animo: "L’hanno sgozzata pubblicamente, scendeva da un autobus. E ora mi chiedono perdono in privato".
Qual è la posizione delle famiglie delle vittime nei confronti di questa legge?
Le famiglie delle vittime sono molto divise. E io vivo questa divisione in modo doloroso. Credo che non si debbano responsabilizzare le vittime, che sono ancora traumatizzate e che hanno bisogno di riconoscimento in quanto tali. Molte vittime non hanno neanche cominciato a elaborare il loro lutto, sono ancora in pieno trauma, e non sarà facile per loro venirne fuori. Sta quindi alla società prendersi cura di loro attraverso tutte le sue associazioni, non già attraverso quelle delle vittime. Insomma, ci vuole uno Stato che abbia il senso della responsabilità, che non solo voglia la concordia civile ora, ma che si impegni affinché questi orrori non si ripetano mai più. E uno Stato responsabile non può accettare che le vittime di uno stesso orrore siano divise. Sfortunatamente quando si vive in un paese come il nostro si fa -quando dico "si fa" lo dico come politico- con quello che si ha, non con quello che si vorrebbe avere. Ma è difficile, ci sono tante vittime che dicono: "Non dimenticheremo mai, non perdoneremo mai" ed hanno ragione, perché i soli che possono perdonare sono le vittime. Altre dicono: "Abbiamo sofferto troppo, basta". Per questo è sbagliato e ingiusto chiedere alle vittime di occuparsi di queste cose, è lo Stato che deve assumersi le proprie responsabilità, cosa che non è ancora avvenuta. Lo Stato algerino considera che le sue responsabilità nei confronti delle vittime si esauriscano col sostegno materiale. Ma questo atteggiamento è grave e pericoloso, perché se uno stato non fa giustizia, altri la faranno e si cadrà così nella vendetta e in un altro ciclo infernale di violenza. Gli psichiatri algerini hanno fatto un lavoro favoloso, di riflessione, soprattutto coi bambini traumatizzati e spiegano molto bene che i bambini che hanno subito violenza riprodurranno violenza. Se si vuole rompere questo ciclo c’è un lavoro da fare e questo lavoro non può ridursi a consulti dallo psichiatra.
A proposito della legge si è parlato di vittoria postuma dei "dialoghisti" del patto di Roma, quello patrocinato dalla comunità di Sant’Egidio. Tu cosa ne pensi?
Ci sono persone che vivono nella necessità di aver ragione. A me non avrebbe disturbato se l’avessero avuta, ma, sfortunatamente, non l’hanno avuta. In cosa consisteva l’accordo di Roma di Sant’Egidio? Era un accordo fra il Fis politico e militare rappresentato da Anwar Haddam, che era nello stesso tempo membro della direzione del Fis all’estero e membro del Gia all’interno (l’ha riconosciuto lui pubblicamente) e altri partiti, l’Fln dell’epoca, l’Ffs, En-Nahda e i Trotzkisti. Lo scopo era prima di tutto la riabilitazione del Fis e in secondo luogo la proclamazione di principi contraddittori, fra i quali uno però, spiccava chiaro: la supremazia della sharia su tutto il resto, e tutto il resto cos’è? La Repubblica nella sua forma moderna. Questo accordo si è fatto alle condizioni del Fis poiché in nessun momento i firmatari dell’accordo hanno preteso che i gruppi armati deponessero le armi. Peggio, a coloro che dimenticano e vogliono aver ragione ricordo che Anwar Haddam quando ha firmato l’accordo ha detto chiaramente: "Che sia ben inteso che la nostra azione armata continuerà". Insomma, non solo i firmatari non hanno chiesto al Fis di deporre le armi, ma hanno firmato l’accordo e poi hanno continuato a difenderlo, anche se Anwar Haddam aveva detto che loro avrebbero continuato ad uccidere gli algerini.
Cosa prevede invece la legge sulla concordia civile? Esattamente il contrario. Prima di tutto nessuna riabilitazione del Fis: il Fis non esisterà più. Secondo: nessun terrorista sarà perdonato se non si arrende alle istituzioni dello stato repubblicano: prima deporre le armi e poi passare davanti a una commissione di approvazione in cui c’è un giudice, il procuratore, gli avvocati, e le forze di sicurezza che hanno raccolto il dossier. Questo sancisce la supremazia della costituzione, in base alla quale tutti si sottomettono alla costituzione dello stato algerino. E’ una buona costituzione, non lo è? Spetta a noi discuterne, ma è la legge repubblicana. In realtà a Sant’Egidio, partiti come l’Fln, l’ex partito unico che ha governato il paese da solo per 27 anni, l’Ffs, il Fronte delle forze socialiste, En-Nahda e i trotzkisti cosa tentarono di fare? Tentarono di sfruttare abusivamente la capacità di distruzione del Fis per costringere il potere algerino a considerarli come partners nelle negoziazioni. E partivano da un’analisi giusta, perché il potere algerino è un potere la cui colonna vertebrale è militare e negozia solo con coloro che hanno una forza militare; loro non l’avevano, il Fis sì. E infatti il potere algerino cos’ha fatto? Ha negoziato direttamente coi gruppi armati. Quel calcolo è fallito il giorno in cui il capo del Fis, Madani, ha accettato di negoziare col generale Zeroual senza pretendere che gli altri firmatari fossero presenti; è fallito un’altra volta il giorno in cui il braccio armato del Fis, l’Ais, ha firmato l’accordo coi militari algerini e ha dichiarato la tregua in maniera unilaterale, senza condizioni, nell’ottobre del ’97.
Poi gli osservatori seri non possono dimenticare il momento in cui avvengono gli accordi: l’accordo di Roma è arrivato alla fine del ’94-gennaio ’95. In quel momento l’Algeria era in ginocchio: nella sola wilaya di Algeri nel ’94 venivano assassinate 100 persone al giorno, migliaia di morti. Le forze di sicurezza algerina non potevano gestire questa crisi, e quindi negoziare nel ’94 sarebbe stato obbligatoriamente alle condizioni del più forte, cioè delle forze del terrore. Per me gli accordi di Roma erano accordi di resa dell’Algeria agli islamisti armati. Mentre oggi è tutto diverso: il Fis ha perso nel ’97, la legge sulla concordia civile è una legge di resa dei gruppi armati. E questo grazie ai democratici e al popolo algerino che ha resistito, grazie ai giornalisti algerini, alla forza democratica del paese. Tanti algerini si sono battuti, molti sono morti, ma avevano ragione di resistere, di dire no al terrore islamista e allo stato teocratico, di dire no alla sostituzione del partito unico con la dittatura islamista. Penso che se dobbiamo ricavare una lezione dall’esperienza dolorosissima dell’Algeria è che la libertà si paga molto cara.
Quelli che paragonano gli accordi di Roma alla legge sulla concordia civile, all’accordo con l’Ais, è come se paragonassero gli accordi di Monaco, con cui Daladier e Chamberlain cedettero a Mussolini e Hitler, con la firma della resa militare della Germania. Che stupidità!
Bouteflika sta sorprendendo mezzo mondo per le sue prese di posizione, ma ancor più per i segnali che riesce a mandare con il suo modo di fare. Puoi dirci qualcosa di lui?
Bouteflika è un uomo che ha fatto la guerra di Liberazione nazionale. Questo è importante da ricordare, altrimenti non si capiscono molte delle sue reazioni. Era membro dell’esercito di Liberazione Nazionale, in un corpo speciale che si occupava di informazioni; è stato ministro quando era ancora molto giovane con Ben Bella; ha poi partecipato al colpo di stato contro Ben Bella; è stato ministro nel governo successivo di Boumedienne ed è rimasto al potere 15 anni, fino al ’77. E’ un uomo che ha vissuto nel cuore del potere, un uomo forte, in seguito estromesso anche in maniera dura da Chadli, è rimasto fuori per circa 20 anni. Già nel ’94 l’esercito gli aveva proposto di prendere il posto di Zeroual per le elezioni del ’95, poi la cosa non è andata in porto.
Cosa ha cambiato rispetto alla politica nei confronti della società algerina?
Intanto non bisogna dimenticare che l’Algeria è rimasta senza un vero capo di stato per 20 anni: Chadli era un personaggio mediocre, non solo come politico ma anche come persona, senza cultura. E’ brutto parlare così di un presidente del proprio paese, ma è così, era un militare. Dopo di lui c’è stata la parentesi Boudiaf, troppo corta, in seguito ci sono state persone anche peggiori di Chadli, che non erano neanche uomini politici. Per rendersi conto del disprezzo degli algerini per il presidente, e nello stesso tempo della rabbia, per avere alla nostra testa degli esseri così mediocri non c’è niente di meglio delle barzellette degli algerini, barzellette che fanno molto ridere, ma anche molto piangere.
Tutto questo col tempo si è aggravato e in questi ultimi anni non solo i presidenti erano esseri mediocri, ma in più erano incapaci di proteggerci dall’aggressione dell’integralismo; erano incapaci di proteggere l’immagine del paese all’estero. Siamo stati umiliati da tutti i paesi stranieri, umiliati dappertutto, e la gravità di questo la può capire chi conosce il senso dell’onore, della fierezza degli algerini. Nell’ottobre ’88 durante la rivolta dei giovani, mi ricordo che i giovani dicevano: "Non abbiamo bisogno di pepe nero, abbiamo bisogno di un presidente degno di questo nome". (Il pepe nero per noi è un po’ come il pomodoro per voi). Perché? Perché eravamo sotto Chadli, e c’era la vergogna di avere un presidente così, che quando andava all’estero tutti si preoccupavano di quello che avrebbe potuto dire o fare.
Bouteflika conosce perfettamente la cultura algerina, lo si sente quando parla, dalla lingua che usa, dai proverbi -ne usa moltissimi- dai detti popolari. E la gente dice: "E’ algerino come noi, è uno di noi".
Allo stesso tempo, conosce anche altre culture, la francese innanzitutto, e quando va all’estero agli stranieri parla loro da pari a pari, ha padronanza della loro lingua, conosce la loro cultura, la loro situazione economica e difende gli algerini. Quindi la prima reazione è stata: "Ho finalmente un presidente!". Bouteflika ha capito che il primo bisogno del suo popolo era quello di riacquistare la propria fierezza.
Le persone del regime algerino hanno specialità spaventose, atroci, fra queste quella di falsificare la storia, di adattare la storia ai bisogni del momento. Un grande colonnello della guerra di Liberazione nazionale, Ali Kafi, che fu presidente dopo l’assassinio di Boudiaf, ha scritto un libro, uscito in giugno, in cui ha insultato i grandi leader della guerra di liberazione, tra cui il padre della guerra di liberazione, Abane Ramdane, assassinato da gente dell’Fln durante la guerra, Krim Belkacem, un grande eroe della guerra di liberazione, (il primo che andò al maquis nel ’47 prima che l’Fln decidesse la strada del maquis, assassinato da Boumedienne in Germania); ha infine insultato Amirouche. Cos’ha fatto Bouteflika? Ha indetto un grande ricevimento e ha conferito un’onorificenza alle famiglie di Belkacem, di Abane Ramdane, di Amirouche, e in più ha annunciato la decisione di dare i loro nomi ad altrettanti aeroporti dichiarando di fronte a tutti: "In un momento in cui alcuni si credono in diritto di insultare questi immensi personaggi, dò il loro nome a questi aeroporti".
Un giorno ricevendo dei giornalisti stranieri, ha detto: "Oggi vi parlerò in francese. So che è proibito usare le lingue straniere, so anche che è arbitrario, ma sapete, in questo paese ci sono talmente tante cose arbitrarie molto più gravi, e questo non è poi grave", e ha parlato in francese. Ha ricevuto delle organizzazioni di studenti e ha parlato della necessità di imparare le lingue straniere e che è ridicolo respingere il francese dal momento che lo possediamo. E questo è coraggioso da parte sua perché significa mettersi contro tutti gli islamisti e i pan-arabisti.
E’ andato a Costantina, la città più tradizionale, più conservatrice, e ha riabilitato nel suo discorso la comunità ebraica. E coloro che sanno come l’antisemitismo sia stato coltivato dal potere in Algeria, possono immaginare l’impressione. E’ stata una prova di coraggio, di apertura mentale, e anche un’azione pedagogica, straordinaria. Ha choccato tutti, ma era necessario e giusto. Così come quando, in Marocco, al funerale del re, ha stretto la mano al premier israeliano, Barak. Un gesto straordinario.
Uno dei più grandi cantanti francesi di origine algerina, Enrico Macias, è stato invitato ufficialmente a venire a cantare in Algeria, e non era ritornato in Algeria dall’indipendenza. E lui verrà. L’indomani del referendum fra le persone che si sono complimentate, c’erano due ebrei d’Algeria: un grande giornalista, che è stato direttore di France 2, Jean-Pierre Kabache, ebreo di Orano, e appunto Enrico Macias, ebreo di Costantina, che in una lettera molto commovente per la prima volta hanno scritto: "Grazie per il nostro paese". Lui ha riconosciuto loro il diritto di sentirsi algerini quando mai nessun dirigente algerino aveva fatto questo.
Cos’ha cambiato Bouteflika nei confronti della politica internazionale?
La prima cosa è che ora l’Algeria ha un presidente che gli stranieri riconoscono e che sono costretti a riconoscere. E’ una persona che ha capito, e l’ha detto, che non è più possibile condurre la politica estera degli anni ’70. Il mondo è cambiato, è molto aperto. Bouteflika crede nel Mediterraneo e si sforzerà molto per promuovere la dimensione mediterranea dell’Algeria e l’idea di una solidarietà mediterranea. Crede nell’Africa, ed è riuscito a organizzare un summit africano straordinario ad Algeri. Erano anni che nessun capo di stato aveva messo piede da noi. Crede infine nel Maghreb e vuol lavorare alla costruzione del Maghreb come entità. Trovo che la sua politica estera sia molto intelligente. Resta comunque fortemente segnato dalla sua storia, ma non credo che la sua apertura sia finta, credo che riuscirà a fare dei passi avanti.
Per le donne?
Non ne parla molto, ma ha fatto qualcosa di importante: per la prima volta dall’indipendenza, ha nominato una donna wali e due donne commissari di polizia. Psicologicamente è un terremoto soprattutto per gli islamisti, in particolare per la nomina di una donna wali. La parola wali significa letteralmente in arabo "il depositario di tutto il potere, dell’autorità", quindi il depositario dell’autorità di tutto un dipartimento è una donna, giovane, bella, competente.
Si è impegnato per una revisione del codice della famiglia. Lui non è laico, dice che farà tutto quello che non contraddice il Corano. Il Corano però non può parlare per se stesso, si dovrà quindi farne una lettura, e la lettura è sempre in funzione di una condizione politico-filosofica. Spero che incaricherà qualcuno di liberale e giusto nel senso dell’uguaglianza. Per altro, per presiedere a una conferenza sul diritto delle donne e sul codice della famiglia che si terrà in ottobre ad Algeri con tutte le donne deputate e senatrici, ha già incaricato il presidente di un consiglio islamico che è una persona perbene, molto aperto. Come associazione femminile, noi di Rachda, faremo di tutto per poter negoziare concretamente, per portare avanti l’idea che il minimo al di sotto del quale non si può scendere, il minimo che si deve riconoscere alle donne algerine, è la piattaforma delle associazioni delle donne democratiche, la petizione delle 22 proposte. Non chiederemo una soluzione laica, sarebbe come scontrarsi contro un muro, ma come associazione che lavora molto con le donne in difficoltà, vittime del codice della famiglia, ci interessa in primo luogo di far uscire le donne dalle situazioni drammatiche causate dal codice della famiglia.



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