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1.5 - L'estremismo e il servizio militare

Dopo il movimento del '68, l'impegno politico a favore della convivenza non diminuisce, ma comincia ad assumere toni più direttamente di classe, com'è orientamento generalizzato di quegli anni. L'idea che la divisione etnica in Sudtirolo sia una sorta di falsa coscienza che i gruppi dominanti usano per nascondere le ineguaglianze economiche che anche in Sudtirolo cominciano a rendersi evidenti è presente, ma viene però presto rielaborata. Il conflitto e la diversità etnica non vanno ignorati, come altri movimenti di classe e di sinistra ritengono, ma al contrario la valorizzazione positiva delle differenze rappresenta lo strumento per sperimentare pratiche concrete di convivenza che permettano di superare il conflitto, senza ignorare poi i "problemi veri" della società.

Io - come altri della mia generazione - per un lungo tempo, dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta, ho in qualche modo pensato che davvero il conflitto etnico - ma il nostro sudtirolese in particolare - fosse fondamentalmente una maschera per nascondere, mistificare qualcos'altro, e cioè quello che per noi doveva essere il conflitto di classe, il conflitto sociale.
Ci siamo quindi sforzati a lungo di costruire un'ipotesi di convivenza, non dico basandoci sulla negazione del conflitto etnico (a questo noi proprio grazie alla nostra esperienza non siamo mai arrivati, a differenza di gruppi ideologici), ma sforzandoci di scoprire in qualche modo interessi comuni: interessi sociali comuni, interessi ecologici comuni, interessi culturali comuni Insomma, sforzandoci comunque di scoprire le cose comuni e di muoverci di conseguenza secondo una linea basata sul seguente ragionamento: "il popolo sarebbe unito, ma i potenti lo vogliono dividere".
Il nostro schema interpretativo, in poche parole, si poteva riassumere così: "quando avremo finalmente rimosso il problema politico, legato all'alternativa autonomia sì - autonomia no, quando avremo la riforma dell'autonomia e il conflitto etnico sarà così rimosso, finalmente ci si potrà occupare dei veri problemi, intendendo per veri problemi la casa, il lavoro, la salute, l'educazione, l'agricoltura, e via dicendo". In altre parole il conflitto etnico veniva un po' ideologicamente interpretato da noi - eravamo, ovviamente, anche noi figli di quegli anni - come una forma di falsa coscienza generalizzata. (31)

Quando nella primavera del 1969, die Brücke termina le sue pubblicazioni, le strade dei redattori si dividono: alcuni approdano alla socialdemocrazia sudtirolese, altri al partito comunista, altri ancora alla sinistra extraparlamentare. Alexander continua a cercare una propria collocazione: il 17 settembre del 1969, insieme con una decina di persone, prevalentemente di lingua tedesca, organizza il primo sciopero sudtirolese in occasione della giornata di protesta nazionale dei metalmeccanici. Si tratta dei lavoratori della Durst di Brixen (Bressanone). Langer ricorderà sempre con grande piacere quella giornata, anche se i dirigenti delle fabbriche si faranno da quel giorno più avveduti e si organizzeranno per impedire volantinaggi davanti agli stabilimenti:

Per essere creduti mostriamo il Dolomiten che annuncia lo sciopero nazionale. Si formano subito capannelli, quasi nessuno entra. Una segretaria di direzione inveisce e strilla contro di noi. Gli operai del pulmino della valle non varcano il cancello. Quando arriva di gran carriera il direttore del personale, chiamato d'urgenza, investe con la macchina un operaio. E' la goccia che fa traboccare il vaso: "pensate se l'avesse ferito gravemente o ucciso il Gasser ha quattro figli!". Lo sciopero riesce in pieno, facciamo un'assemblea con gli operai nell'osteria vicina, veniamo festeggiati, ci pagano da bere. Parliamo di rivendicazioni ugualitarie, troviamo consenso. Quando poi ci capita di parlare con un operaio che nel suo paese fa il sagrestano, e proponiamo qualche idea ugualitaria anche per l'andamento delle cose di chiesa, lui è decisamente contrario. Ma si complimenta con noi per la riuscita dello sciopero. (32)

Alla fine del 1970, molti esponenti della nascente nuova sinistra di Bolzano, dopo un processo di ricerca collettiva che porta alcuni a compiere scelte diverse, per esempio il Manifesto, decidono di aderire a Lotta Continua. In questo movimento ritrovano l'esaltazione di momenti di spontaneità e di combattività al di fuori dei dogmi prestabiliti dal marxismo ufficiale e dalle organizzazioni che se ne fanno interpreti, oltreché la valorizzazione di protagonisti della politica non provenienti dalle tradizionali "zone rosse". Langer è tra questi giovani e ritiene che in un movimento politico di questo tipo possa trovare spazio e, al contempo, inserirsi in un processo più universale, anche la particolare esperienza locale di cui è stato protagonista.

C'è probabilmente anche qualcosa di regressivo in questa ricerca di "affiliazione", e sicuramente anche una buona dose di ideologia; ma soprattutto la voglia di partecipare direttamente e attivamente a un processo storico che riteniamo promettente, liberatorio, "rivoluzionario", e che - ci rendiamo conto - avrà i suoi epicentri altrove, non nel Sudtirolo, e in certa misura relativizza i problemi ai quali finora ci eravamo prevalentemente dedicati. (33)

Nei primi anni di adesione, Alexander si occupa principalmente di "situazioni arretrate", come è quella di Bolzano; il suo primo paginone sul quindicinale Lotta Continua - caratterizzato da un linguaggio standardizzato ed alienato - si intitola: "Reggio Calabria - Sudtirolo, la lotta contro lo Stato".
Nel giugno del 1972, un mese prima di laurearsi in sociologia, comincia a Saluzzo il servizio militare come artigliere di montagna, dopo aver sperato di evitarlo grazie ai due fratelli chiamati prima e dopo aver vagliato tutte le ipotesi alternative. Si rassegna a partire, anche per portare avanti una delle grandi campagne nazionali di Lotta Continua di quegli anni: quella dei "proletari in divisa".

Quando ci vado, penso alla caserma come a un luogo di lotta di classe e di ricomposizione del proletariato, e in quel senso mi propongo di agire, tra i "proletari in divisa". Parto con alle spalle una recentissima assoluzione per insufficienza di prove per vilipendio alle forze armate, e finisco così in una caserma punitiva dell'artiglieria di montagna, a Saluzzo, con i muli, una disciplina rigida e una speciale e dichiarata sorveglianza a mio carico.
E' il periodo della mia vita in cui sopporto la maggiore fatica fisica e mi trovo tra contadini e operai non per aver scelto di "andare tra il popolo", ma per esserci stato mandato, mio malgrado, su un piede di perfetta parità. Mi dà una grande soddisfazione che pochi giorni dopo il mio congedo (settembre 1973, dopo il golpe di Pinochet) un buon nucleo del nostro contingente si ritrovi davanti alla caserma per una manifestazione. Saluzzo ci guarda con stupore. (34)
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