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2.4.2 - La cultura del limite

Prescindendo però dai "ravveduti" e dai "conservatori", cosa può spingere il singolo individuo, preso nella spirale del progresso industrialista e del benessere consumistico, a modificare le proprie prospettive e i propri stili di vita? La paura di una catastrofe non è evidentemente sufficiente, come hanno dimostrato gli scarsi risultati avuti dalle denuncie e dagli allarmi più o meno apocalittici che associazioni scientifiche, culturali e ambientaliste hanno lanciato a partire dai primi anni Sessanta. Questi allarmi hanno provocato una certa sensibilizzazione sia al livello dei governi sia delle popolazioni e per quasi un ventennio - tra le due conferenze mondiali sull'ambiente di Stoccolma (1972) e Rio de Janeiro (1992) - hanno persino lasciato sperare in un "intervallo di lucidità", (45) ma non hanno provocato quel "cambio di rotta" nelle politiche economiche e negli stili di vita che Langer riteneva invece necessario.

Molti ecologisti e ambientalisti a vario titolo adesso adottano volentieri la formula "sviluppo sostenibile", anche perché la nostra esperienza di vita quotidiana ci dice che ciascuno di noi si ritrova molto dentro il processo di crescita. Sono pochi coloro che riescono a sottrarsi in misura sufficiente ad esso. Basta pensare allo "sviluppo" del nostro reddito e delle nostre aspirazioni di consumo. Molti ecologisti cercano una compatibilità tra crescita ed equilibrio ecologico. E in molti casi, penso, tale compatibilità esiste. Credo invece che ci sia un grande squilibrio tra i popoli. Da questo punto di vista, siamo noi che dovremmo fermarci e vedere se altri popoli possono arrivare ad un livello di soddisfacimento dei bisogni essenziali, prima di decidere di prenderci un'altra fetta della torta e peraltro guastarne il resto.
Molti Verdi oggi non hanno il coraggio di dire che in certi ambiti dovremmo fermarci e tornare indietro per quanto riguarda il livello dei consumi. Il mercato per ora continuerà a spingere verso l'espansione, perciò non troverei così oltraggioso il tentativo di influire anche sul mercato, cercando per esempio di modificare la domanda di beni di consumo. (46)

Per Langer vanno bene le innovazioni tecnologiche a tutela e ripristino della natura violata. Vanno bene le politiche ambientali sul territorio, gli interventi legislativi e le campagne di sensibilizzazione, ma alla base della conversione, sempre individuale, deve esserci una tensione etica che può scaturire anche da una nuova percezione del principio dell'autolimitazione: "La cosa più importante da fare è probabilmente il non-fare, cioè passare complessivamente da un modello di espansione verso un altro di contrazione." (47)
Per autolimitazione si intende una scelta individuale e consapevole di limitazione dei propri livelli di consumi, di un loro cambiamento qualitativo e di una generale reimpostazione del proprio stile di vita. Non è secondario notare come Langer rifletta e proponga conversioni di questo tipo nell'Italia degli anni Ottanta, quando cioè il Paese è intriso della cultura del consumo, dello spreco e dell'ostentazione e da stili di vita decisamente superiori alle sue possibilità reali. In passato scelte di questo tipo venivano fatte per motivi religiosi, per esempio allo scopo di condividere la sorte dei poveri o dello stesso Cristo, o per punirsi di una presunta condizione di privilegio, oppure ancora per motivi ideologici, nella convinzione che si dovesse vivere come gli emarginati o come la classe operaia per partecipare della loro lotta di liberazione. Con l'affacciarsi dell'emergenza ecologica, quella della limitazione dei consumi nel Nord industrializzato diventa una necessità di sopravvivenza per l'intera umanità, prima ancora che una scelta etica. Di fronte alla presa d'atto che l'accelerazione della storia e del sistema industriale ha portato l'umanità sulla soglia della potenziale autodistruzione, con un "impatto generazionale" (48) di portata enorme di ogni singolo gesto che facciamo, anche della quotidianità, la soluzione proposta dai settori dell'ambientalismo più intransigente - quelli che Langer chiama i "profeti di catastrofi" (49) - appare tuttavia univoca e di difficile attuazione: ravvedersi, rinunciare, cambiare strada; il tutto sulla base della paura. Ma per Langer la paura, oltre a non aver prodotto fino ad oggi, come già detto, alcun apprezzabile risultato, è cattiva consigliera, perché può provocare reazioni egoistiche fondate sull' "arte di arrangiarsi" o peggio ancora soluzioni del tipo "muoia Sansone con tutti i Filistei". Altri fanno appello solo ad una svolta etica, che dovrebbe spingere gli uomini a sacrificare il proprio benessere consumistico per il bene dell'umanità. Altri ancora, i più "moderati", pensano ad una gestione politica e amministrativa oculata delle risorse e all'uso dello strumento legislativo per indurre la gente a cambiare.
Ma Langer - pur non disconoscendo del tutto alcune di queste soluzioni e credendo fermamente al ruolo culturale e di rottura epocale dell'ecologismo - nel riproporre ancora una volta l'idea della conversione, la pensa diversamente. Per lui è la concezione stessa di benessere che va cambiata:

La domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni ed impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta. A quanto risulta, sinora il desiderio di un'alternativa globale - sociale, ecologica, culturale - non è stato sufficiente, o le visioni prospettate non sufficientemente convincenti. Non si può certo dire che ci sia oggi una maggioranza di persone disposta ad impegnarsi per una concezione di benessere così sensibilmente diversa come sarebbe necessario.
Né singoli provvedimenti, né un migliore "ministero dell'ambiente", né una valutazione di impatto ambientale più accurata né norme più severe sugli imballaggi o sui limiti di velocità - per quanto necessarie e sacrosante siano - potranno davvero causare la correzione di rotta, ma solo una decisa rifondazione culturale e sociale di ciò che in una società o in una comunità si consideri desiderabile.
Sinora si è agito all'insegna del motto olimpico "citius, altius, fortius" (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l'agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana ed onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in "lentius, profundius, suavius" (più lento, più profondo, più dolce), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall'essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso.
Ecco perchè una politica ecologica potrà aversi solo sulla base di nuove (forse antiche) convinzioni culturali e civili, elaborate - com'è ovvio - in larga misura al di fuori della politica, fondate piuttosto su basi religiose, etiche, sociali, estetiche, tradizionali, forse persino etniche (radicate, cioè, nella storia e nell'identità dei popoli). Dalla politica ci si potrà aspettare che attui efficaci spunti per una correzione di rotta ed al tempo stesso sostenga e forse incentivi la volontà di cambiamento: una politica ecologica punitiva che presupponga un diffuso ideale pauperistico non avrà grandi chances nella competizione democratica. [Corsivo nostro, n.d.a.] (50)

Quest'ultima, interessante affermazione, è il frutto di un'elaborazione portata avanti negli anni precedenti nell'ambito della più generale riflessione del mondo ecologista sulla politica. Per Langer, cioè, che pure non smette mai di sottolineare l'importanza di una scelta etica e la necessità di uno spirito compassionevole (nel senso etimologico di com-passione, cioè condivisione di una stessa situazione, anche come strumento fondamentale di conoscenza (51)), non sono sufficienti la paura o l'altruismo. La svolta può essere fondata, per cominciare, su di un ricongiungimento tra motivazioni di tipo altruistico, ma non idealistico come potrebbe essere un generico amore per l'umanità, e altre di ordine più individuale o egoistiche, verificabili anche nell'immediato, simili a quelle che possono spingere chi pensa al futuro dei propri figli. (52) In questo senso Langer ricorda lo slogan di alcuni movimenti ambientalisti degli anni Ottanta che ribalta la logica dominante nel corso dei secoli: "La Terra c'è stata solo prestata dai nostri figli". (53)
Ma, come già accennato, Langer non vuole accontentarsi di una scelta consapevolmente autolimitativa. La sua visione conviviale, il suo interesse per le realtà "periferiche" e le esperienze minoritarie, lo conducono alla convinzione di non dover proporre una diffusa povertà come strumento di salvezza per l'umanità, ma l'utopia concreta di un benessere diverso, di una vita qualitativamente migliore pur con, o meglio proprio grazie a, un livello quantitativamente più basso di consumi. E' l'essenza di una proposta di convivialità che va oltre il contingente. (54)
In un sistema socioeconomico industriale moderno, ormai ogni cosa è stata mercificata e ne è stato perso il valore d'uso, sostituendolo con un prezzo fissato solo dai meccanismi di mercato e non dalle reali esigenze delle persone. Una società fondata sulla convivialità, tipica delle comunità considerate premoderne, potrebbe ripristinare un benessere fondato sul reale valore delle cose e degli scambi sociali. Ragionando in questi termini, Langer lancia nel 1992 un inedito quanto inatteso ponte verso la sinistra tradizionale con un articolo su Berlinguer e sull'austerità. (55) In questo pezzo egli ricorda come la parola d'ordine dell'austerità era, per il sindacato (56) degli anni Settanta, un presupposto per il rilancio economico successivo: meno consumi e più accumulazione dovevano favorire i risparmi e gli investimenti, quindi il rilancio della crescita. Per Berlinguer, invece, il concetto di austerità sembrava avere anche più alte implicazioni morali che, in parte inespresse nel contesto politico dell'epoca, andrebbero recuperate negli anni Novanta. L'austerità oggi, intesa come contrazione del troppo che caratterizza le nostre società e come graduale decrescita economica, deve essere proposta e vissuta non come impoverimento, ma come nuovo arricchimento di vitalità e di autodeterminazione. In questo senso essa dipende da un intreccio di scelte personali e collettive, condizioni culturali e sociali, sinergie ed intese:

Ma qualcuno dovrà pur cominciare, e indicare un privilegio diverso da quello della ricchezza e dei consumi: il privilegio di non dipendere troppo dalla dotazione materiale e finanziaria, il privilegio di preferire nella vita tutte le cose che non si possono comperare o vendere, il privilegio di usare con saggezza e parsimonia l'eredità comune a tutti, senza recinti e privatizzazioni indebite. L'austerità di una vita più frugale meno riempita da merci usa-e-getta, più ricca di doni, di servizi mutui e reciproci, di condivisioni e co-usi a titolo gratuito, di recuperi e riciclaggi, di soddisfazioni senza prezzo. con meno beni e con meno denaro si può vivere bene solo se si può tornare a contare sull'aiuto gratuito degli altri, sull'uso in comune di tante opportunità, sulla fruizione della natura come bene comune, non riducibile a merce.
L'austerità potrà essere vissuta con piacere e come miglioramento della qualità della vita, se ci farà dipendere meno dai soldi, da apparati, da beni e servizi acquistabili sul mercato, ed esigerà che ognuno ridiventi più inter-dipendente: sostenuto dagli altri, dalla qualità delle relazioni sociali ed interpersonali, dalle conoscenze ed abilità, dall'arte di adattarsi ed arrangiarsi, dalle capacità non ottenibili con alcuna carta di credito, né chiavi in mano, pronte ad essere passivamente consumate.
Può essere una grande occasione. (57)
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