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2.7 - "Contro la guerra, cambia la vita"

Il contributo politico e culturale per cui oggi l'opinione pubblica ricorda maggiormente Langer è quello del pacifismo: sia perché il suo suicidio è avvenuto negli ultimi mesi del conflitto jugoslavo, quando ogni soluzione sembrava lontanissima e molti hanno pensato di mettere in relazione le due cose, (118) sia perché molta dell'attività e dell'attenzione dell'europarlamentare Alexander Langer era indirizzata verso realtà di aperta conflittualità armata. Tuttavia riteniamo che il pacifismo del Langer maturo (negli anni Sessanta e Settanta tutti erano "pacifisti"), pur originale nel suo assoluto anti-dogmatismo e nel suo essere non-ideologico, (119) fosse un riflesso delle più generali considerazioni in materia ecologica e di convivenza. Sia sufficiente ricordare uno degli slogan a lui più cari, e cioè "fare pace con la natura e tra gli uomini", oppure alle riflessioni con cui conclude il suo contributo, nel 1988, per un numero di Emergenze dedicato a "Pace e ambiente: un approccio pacifista all'ecologia ed un approccio ecologico al pacifismo":

La causa della pace non è più separabile da quella dell'ecologia, della salvaguardia della natura, così come non è separabile da quella della giustizia e della solidarietà tra i popoli, e tra sud e nord del mondo.
"Contro la guerra, cambia la vita" il nostro modello di vita attuale - dai consumi agli armamenti, dalla competizione produttiva a quella intellettuale - impone un altissimo livello di conflitti e di violenza, dove i più deboli soccombono per primi, ma dove anche i forti ben presto vengono colpiti dagli effetti-boomerang della distruzione. Conviene "disarmare", finché siamo in tempo. (120)

Scegliamo quindi di sviluppare quest'ultimo paragrafo sulle utopie concrete secondo quest'impostazione, senza dargli uno spazio ed un peso che lo renderebbero probabilmente ridondante rispetto a quanto già detto fino ad ora.

Il materiale a nostra disposizione sul tema della guerra e della pace è formato soprattutto da articoli ed interventi riguardo le guerre del Golfo e, soprattutto, della ex-Jugoslavia; da una serie di resoconti sulla attività di europarlamentare di Langer in favore dell'Albania o sui rapporti con la nuova Europa dell'est; e ancora: da alcune considerazioni di carattere generale, sempre di Langer, oltre a naturalmente i vari riferimenti alla potenzialità belliche delle situazioni di tensione etnica.
Nella prima serie di interventi, quelli sulla guerra del Golfo, Langer, pur schierato contro l'intervento armato, cerca di uscire dal coro di coloro che praticano quello che chiama in più occasioni il "pacifismo gridato". Rileva anzi, fin da subito, come quell' "operazione di polizia internazionale" rappresenti un giro di boa importante ed un momento di crisi nell'ambito del pacifismo mondiale. Prima ancora che la guerra dilaghi, con i suoi bombardamenti "intelligenti" e con i ricatti di Saddam, Langer sottolinea un certo disagio tra i pacifisti, che non si accontentano dei soliti slogan, ma che non riescono a collocarsi in modo chiaro in un contesto che, volenti o nolenti, assume le caratteristiche di uno scontro Nord - Sud. Può il movimento pacifista rinunciare ad intervenire?

Apparentemente la crisi del Golfo ci distoglie dallo sforzo di operare quella contrazione di cui si parlava, in realtà però essa diventa una sorta di banco di prova. Molti gruppi hanno ripetutamente cercato di gestire la tensione tra il bisogno di fare cose in grande e poi le ripercussioni che queste provocano in piccolo. La contraddizione di essere contro la guerra nel Golfo e, poi, ad esempio usare la macchina, ci ha attraversato continuamente. E c'è una tentazione di dedicarsi solo alle cose "piccole", visto che le risposte "grandi" sono molto lontane e rischiano di sottometterci al gioco della politica che poi può diventare strumentale e non farsi più controllare.
In altri contesti, invece, si verifica il contrario. Si manifesta contro la guerra, si fa molta politica però non si è mai minimamente preso in considerazione il fatto di ridurre i propri consumi energetici e di lavorare in questa direzione. (121)

Filo conduttore di tutte le riflessioni di Langer su questo argomento sono una serie di presupposti assunti come fissi, alcuni dei quali, a nostro giudizio, avrebbe tuttavia potuto mettere di tanto in tanto in discussione: (122) l'individuo, i diritti umani e la democrazia come valori assoluti, l'integrazione europea come modello e fattore di sviluppo sociale e convivenza, le autonomie locali e la rifondazione federale degli stati, il rispetto delle diversità (specialmente delle minoranze, siano esse religiose, etniche o culturali), la valorizzazione delle esperienze miste (interreligiose, interetniche), l'interventismo umanitario e democratico ("dal basso" ma, con l'evolversi del conflitto bosniaco, anche "dall'alto" (123)), la forma obbligante del diritto internazionale e lo sviluppo degli strumenti per sanzionarlo e farlo rispettare.
Nel gennaio 1991, Langer è ancora convinto (124) che sia "giusto fare tutto il possibile per fermare aggressioni, ingiustizie e soprusi", ma che non per questo sia "giusta, né risolutiva l'idea di farne derivare con una sorta di funesto automatismo la sanzione bellica". (125) "Per chi non si rassegna a non considerare la guerra come una sconfitta", (126) riscopre per l'ennesima volta il ruolo dell'individuo e il valore della conversione, e riproponendo lo slogan che abbiamo scelto come titolo di questo paragrafo, scrive:

Contro la guerra, cambia la vita: le guerre scoppiano "a valle", quando tutta una infausta concatenazione di soprusi, violenze e fallimenti si è già prodotta e sembra diventata irrimediabile; i popoli, la gente comune, sono poi chiamati a pagare il conto finale senza aver potuto intervenire sulle singole voci che lo hanno via via allungato. Ma dinanzi al fallimento della politica e della negoziazione, che sfocia nella guerra, bisognerà pur rafforzare gli "anti-corpi" a disposizione di ogni singola persona per prevenire le guerre e per non lasciarsene, comunque, catturare, una volta che sono scoppiate. Se tutto uno stile di vita (consumi, produzioni, trasporti, energia, banche) nel quale siamo largamente coinvolti, per potersi perpetuare ha bisogno di condizioni assai ingiuste che regolano le relazioni tra i popoli e con la natura, bisognerà dunque intervenire "a monte" e mettere in questione la nostra partecipazione (anche individuale) ad un "ordine" economico, politico, sociale, ecologico e culturale che rende necessarie le guerre che lo sostengono. Se il consenso alla guerra (sotto forma di nazionalismi, razzismi, pregiudizi, stereotipi, ecc.) può con tanta facilità diventare maggioritario - non certo soltanto tra "fondamentalisti islamici"..! - si dovrà intervenire anche qui "a monte" ed allargare una solida base ideale e culturale di disposizione alla pace ed alla convivenza, disintossicando cuori e cervelli.
Se è considerato scontato che, una volta scoppiata la guerra, non resta che allinearsi ed arruolarsi (materialmente e culturalmente), bisognerà pur che qualcuno lavori per suscitare e consolidare scelte di "obbiezione alla guerra". Sono dunque tante le forme di azione che si possono scegliere per "cambiare la vita di fronte alla guerra", nel senso di negarle ogni consenso e sostegno e nel senso di farle mancare - ognuno - almeno un pezzettino di apparente giustificazione. (127)

L'individuo può però esprimersi appieno solo in un contesto realmente democratico, ecco perché Langer sottolinea ripetutamente il ruolo della democrazia come presupposto fondamentale allo sviluppo della pace. (128) L'estensione e il radicamento dello strumento democratico, nonché degli spazi e dei luoghi della sua espressione, sono infatti l'unica alternativa alla pulizia etnica. Eppure in quell'Europa che potrebbe e dovrebbe esprimere la principale e più importante risposta alla guerra, non solo nel vecchio continente, ma nel mondo intero, c'è confusione e c'è ancora chi confonde la separazione etnica con l'autodeterminazione e con un automatico "di più" di partecipazione e autogestione; (129) ma non è così, infatti:

La ricetta semplicistica di moltiplicare gli stati nazionali ed i confini e di promettere ad ognuno un suo "homeland" sovrano, con tanto di esercito, zecca e francobolli, esigerebbe una tale epurazione etnica, con espulsioni e trasferimenti di enormi masse di persone, che non potrà andare in porto pacificamente. (130)

L'Unione europea - non ancora conscia del proprio ruolo, del proprio appeal internazionale e divisa da contrastanti interessi - ha commesso e continua a commettere molti errori, ma tutta via secondo Langer (e lo sottolinea nelle più diverse occasioni, che parli della Jugoslavia o della transizione Albanese, dell'Europa post-comunista o dei rapporti tra Israele e palestinesi, della Cecenia o del Terzo Mondo) rappresenta un esempio di come, dopo la Seconda guerra mondiale e pur con mille contraddizioni, si sia potuta sviluppare una positiva e costruttiva forma di "convivenza nella diversità".
La xenofobia e il nazionalismo sono però la sfida ed il rischio principale che si pone all'Europa ed al mondo per un futuro di pace. (131) Di fronte all'omologazione industrial-consumistica e alla crisi, definitiva, di tutte le ideologie salvifiche, l'autoaffermazione collettiva prende facilmente la forma dell'etnicità o dell'integralismo religioso, (132) istituzionalizzando l'egoismo collettivo nella forma politica del nazionalismo. (133) Tanto maggiore diventa quindi la responsabilità dell'Unione Europea. Parlando dei rischi della transizione dell'Europa dell'est e del crollo del "sogno multietnico" jugoslavo, Langer scrive:

Così si dovrà mettere in conto un lungo e rischioso cammino in cui è possibile che velleità e scorciatoie di ogni genere prendano il sopravvento nella testa delle persone e dei popoli: l'autodeterminazione, come affermazione e costruzione di sovranità democratica sul proprio destino, assumerà spesso in un primo tempo la semplicistica forma dell' "autodecisione nazionale" (la volontà di erigere un proprio "Stato-nazione" di cui si era privi e che si sogna come suprema auto-affermazione nella storia), magari senza badare alle conseguenze; la ricerca di un maggior benessere economico si manifesterà come massiccia ricerca di evasione individuale dai vincoli del proprio contesto economico-sociale giudicato irrimediabilmente arretrato; la rivendicazione di riappropriarsi della propria storia ed identità ricondurrà non di rado verso antiche intolleranze etniche o religiose o menerà verso nuovi razzismi e xenofobie e lo spettro di avventure autoritarie resta minaccioso sullo sfondo. (134)

Ma l'Europa "piace" ancora, e sempre più, ed esercita il suo fascino grazie alla qualità relativamente elevata della sua vita democratica, al rispetto dei dritti umani e alla sua capacità di essere diversa nell'unità. (135) Essa rappresenta quindi, oggi, la casa comune nella quale tutti i popoli europei aspirano ad entrare e alla quale molti popoli e paesi in tutto il mondo guardano come alternativa solidale al dominio del mercato e degli interessi che vi si esprimono. In questo senso Langer valuta come suicida la tendenza dei dodici a richiudersi su se stessi, valorizzando solo l'aspetto economico del sodalizio europeo e tradendo così le aspettative che da tutto il mondo si rivolgono all'Unione. Si dovrebbe invece accelerare il processo di integrazione continentale (Langer parla spesso di pan-europeismo democratico), superando gli stati nazionali verso il basso (le autonomie locali) e verso l'alto, proporre l'Europa come tetto comune a tutti quei popoli che altrimenti rischiano di rinchiudersi nel mito dell'autodeterminazione e della sovranità nazionale, negando una volta per tutte che quest'ultima - pur rappresentando una conquista importante che deve però oggi poter essere gradualmente superata - possa continuare ad essere strumentalizzata come "foglia di fico" per la costante violazione dei diritti umani. (136)
In questo senso Langer afferma come non più accettabile il fatto che, dietro il principio della non-ingerenza negli affari interni di un paese, si nasconda l'indifferenza (spesso interessata) per il rispetto dei diritti umani. Viceversa va stabilito il diritto-dovere per le Ong (Organizzazioni non governative), per la società civile e per le organizzazioni sovranazionali di non arrestarsi alle soglie della sovranità nazionale per quanto riguarda diritti umani ed emergenze ambientali, entrambi patrimonio comune all'umanità.

Ma se affermiamo un diritto-dovere all'ingerenza, per difendere i diritti umani o la salvaguardia della biosfera, ci dobbiamo riferire o all'ingerenza dei cittadini, delle organizzazioni non governative, oppure a quella degli organismi internazionali, cosa diversa dall'ingerenza di Stati sovrani nella vita di altri stati sovrani. (137)

Si inserisce in questo quadro l'attivismo di Langer presso il Parlamento europeo, e non solo lì, per l'istituzione di un Tribunale internazionale contro i crimini di guerra nella ex Jugoslavia e, più in generale, per un Tribunale internazionale permanete. Tale tribunale dovrebbe superare definitivamente le limitazioni insite nei tribunali di questo tipo finora costituiti: dovrebbe cioè promuovere un rapido perfezionamento di un sistema di diritto internazionale ed avere gli strumenti di statuire, sanzionare, far rispettare ed eseguire quanto legittimamente deciso. La "fame e sete di giustizia internazionale", che sempre più cresce tra i popoli, non può più accontentarsi di tribunali in grado solo di testimonianze puramente morali o, peggio, di partigianeria verso i più forti o i già vincitori.

Ecco perché da molte parti e da lungo tempo si avanzano richieste e proposte perché l'ordinamento internazionale si attrezzi per fare fronte all'accresciuta quantità e qualità delle ferite che vengono inferte alla convivenza tra gli uomini e con la natura: si possono menzionare crimini contro l'umanità come il genocidio o l'apartheid o altre forme violente ed estese di "epurazione etnica" (come ormai sempre più frequentemente viene chiamata), la sistematica e massiccia violazione dei diritti umani, le gravissime e spesso irrimediabili aggressioni all'ecosistema, l'uso sistematico della tortura o dello stupro, il traffico di stupefacenti ed il riciclaggio di denaro sporco, la riduzione in schiavitù di molte persone (nei postriboli, nella vendita di bambini) o l'uso di esseri umani come miniere di organi da trapianto, i crimini di guerra previsti da numerose convenzioni internazionali. Forse bisognerà pensare anche a nuove ed ancor più pericolose forme di violazioni internazionali come gli attacchi deliberati e massicci alla stabilità monetaria, alla salute pubblica internazionale, a elementari e fondamentali diritti sociali, all'integrità psico-fisica e persino biologico-genetica del genere umano e di altre specie viventi. Forse un giorno anche l'aggressione ed il degrado irrimediabili del fondamentale patrimonio estetico sarà riconosciuto come crimine internazionale.
Le violazioni del diritto ormai sempre più spesso hanno effetti e conseguenze trans-nazionali, lo stesso diritto e la sua attuazione devono quindi tendere ad una portata ed autorità sovra-nazionale ed è ormai un obbiettivo universale almeno teoricamente riconosciuto quello di statuire e far rispettare il monopolio internazionale nell'uso legittimo della forza da parte di un'autorità comune. (138)

L'insistenza sul diritto internazionale, ma anche l'uso sempre più frequente degli strumenti ufficiali messigli a disposizione dal Parlamento europeo, sembrano indicare un accrescimento di fiducia di Langer verso l'attività istituzionale, pur nella continuità dell'impegno "sul campo". La maggior parte dei suoi articoli, in quest'ultimo periodo, seguono o precedono precisi interventi parlamentari, relazioni o mozioni, a loro volta collegati ad iniziative portate avanti o sostenute da Langer nella società civile. Mai come in questo periodo e su questo argomento, forse, si esplica l'incredibile capacità di Langer di unire prassi e teoria.
Un espressione compiuta delle posizioni di Langer in materia di sicurezza si trova nell'articolo "Sicurezza e giustizia in Europa", pubblicato su Mani Tese nel luglio de 1993. In questo articolo Langer evoca tutte le tematiche fin qui ricordate, specificando che la vecchia concezione di sicurezza europea, con la caduta del "nemico" comunista, deve essere definitivamente superata in favore di una politica di sicurezza non armata e finalizzata alla prevenzione dei conflitti, all'equilibrio socio-economico, etnico, ecologico e politico. Deve essere quindi sviluppato e valorizzato il ruolo delle Organizzazioni non governative e della diplomazia popolare, nonché di ogni forma di scambio tra popoli e gruppi diversi. Langer comincia ad introdurre anche il discorso, che verrà portato avanti dai Verdi dopo la sua morte, sulla politica di sicurezza nel Mediterraneo, proponendo una Conferenza sulla Sicurezza e la Cooperazione nel Mediterraneo (CSCM) su modello della Conferenza sulla Sicurezza e Cooperazione in Europa (CSCE). (139)
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