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3.5 - Per una cultura della convivenza

La scelta politica e valoriale per la convivenza traspare da tutti gli scritti di Langer sul Sudtirolo, a cominciare da quelli più antichi degli anni Sessanta. Si tratta in genere di una riflessione politica e sociale che scaturisce più dall'impegno sul campo e dal desiderio di contribuire alla diminuzione della tensione etnica nella sua regione, che non da un'analisi scientifica della situazione, ed ha quindi una carica volontaristica ed una valenza politica che non permettono di parlare di una teoria della convivenza, ma piuttosto di una cultura per la convivenza.
Tra i contributi utili anche dal punto di vista dell'analisi formale e dell'elaborazione teorica dei rapporti etnici, il migliore è senz'altro la seconda parte dell'intervento del giugno 1990 ad un corso su "Autonomie dei popoli e autorità sovranazionali". (129) Lo stesso Langer introduce il suo ragionamento avvertendo che si tratta di una chiave di lettura più teorica rispetto a quanto proposto nella prima parte del suo intervento, che noi abbiamo per altro abbondantemente utilizzato per ricostruire la sua biografia. Utilizzeremo quindi il suo schema - impostato ad un'analisi classica e ad un utilizzo degli strumenti tradizionali della sociologia delle relazioni etniche - per la stesura di questo paragrafo conclusivo.

Il conflitto etnico che mi pare pervada fortemente le nostre civiltà (tanto per usare un termine sufficientemente generico) e che mi pare che sia destinato ad aumentare, ammette il linea teorica due vie d'uscita.
La prima. L'assimilazione, cioè l'assorbimento del diverso. Questa soluzione in genere la può proporre il più forte (che non vuol dire necessariamente il più numeroso, ma può voler dire il più forte economicamente, il più forte politicamente, a volte il più forte anche culturalmente)
L'assimilazione come riduzione della diversità, come riduzione della sua incidenza e portata, e quindi come tentativo di eliminare i conflitti derivanti d diversità, cercando di ridurla ad uniformità. Questa pratica è ancora largamente dominante.
L'altra soluzione teoricamente pensabile è l'espulsione del diverso, cioè la garanzia dell'omogeneità ottenuta attraverso le più svariate forme di estromissione del diverso. (130)

Assimilazione ed espulsione sono, naturalmente, le due soluzioni estreme, entrambe improntate all'esclusivismo etnico e fondate sulla convinzione che non possano coesistere sullo stesso territorio diversità significative. Le due varianti moderate, quelle su cui si discute nella maggior parte dei paesi democratici, si chiamano integrazione (variante dell'assimilazione) e separazione (variante dell'espulsione).
Il termine integrazione può avere anche una valenza molto positiva, e di fatto quella dell'integrazione è la parola d'ordine progressista per affrontare i problemi legati all'immigrazione o alla presenza di gruppi minoritari su un territorio, ma può semplicemente significare una sorta di "metabolizzazione" del diverso. (131) Mentre le politiche di assimilazione, quando non assumono la forma della violenza esplicita, vengono condotte tramite la scuola, con una politica migratoria tesa a mettere in pesante minoranza numerica il gruppo da assimilare (come sotto il fascismo) o ancora smembrando la contiguità territoriale degli insediamenti minoritari (è in parte il caso dei Ladini), l'assimilazione "moderata" - l'integrazione - ha il proprio strumento più potente nella massificazione industrialista e consumistica che riesce a cancellare anche forme di diversità altrimenti molto radicate. (132)
Modelli di separazione più o meno radicali ed istituzionalizzati - improntati all'idea che si possa vivere vicini o anche assieme, purché le occasioni di interazione o di interferenza siano ridotte al minimo - sono quelli del Sudtirolo, del Belgio, o ancora degli Stati Uniti, tendenzialmente improntato all'integrazione (melting-pot), ma con ampia possibilità di vivere quasi esclusivamente in una realtà segmentaria diversa ed etno-linguisticamente chiusa ed omogenea. Il più famoso, naturalmente, l'Apartheid sudafricano (letteralmente divisione).
Uno dei problemi più difficili per un futuro di convivenza nasce perchè, secondo Langer, la giusta e legittima tendenza ad affermare la propria identità, specialmente quando a lungo negata, passa troppo spesso per la negazione di quella dell'altro:

Io credo che molti movimenti di liberazione (non voglio dire tutti, ma in parte lo penso) perseguano un'idea di potere, di stato e di organizzazione statuale fortemente caratterizzata di fatto dall'esclusivismo etnico. Un'idea, non estranea neppure alla nostra mente, che è fortemente caratterizzata dalla convinzione che una nazione, un'etnia, un popolo, diventi soggetto della storia se ha la capacità di imporre il proprio esclusivismo etnico, di farsi il proprio stato, il proprio esercito, la propria grammatica, la propria amministrazione. Come se tutto ciò fosse la più alta realizzazione ed esplicitazione di sé. Restano esclusi solo i lapponi che non hanno mai avanzato una simile rivendicazione. (133)

Un elemento relativamente nuovo del dibattito sulla convivenza - del quale abbiamo già parlato nel paragrafo precedente - è quello dei nuovi spostamenti migratori di massa indotti essenzialmente dagli squilibri creati dall'uomo al livello planetario, principalmente di tipo economico-sociale ed ecologico. Questi spostamenti mettono in contatto tra loro persone con lingue e tradizioni profondamente differenti, in una situazione che è evidentemente molto diversa da quelle determinate in passato da insediamenti stanziali, anche relativamente recenti come in Sudtirolo, di popolazioni diverse su uno stesso territorio. Corollario di questo esodo è che le nostre società dovranno sempre più attrezzarsi a far fronte alla nuova realtà di compresenze culturali, etniche e linguistiche plurime, con strumenti che non possono più essere quelli classici della tutela o dell'assimilazione delle minoranze, ma con reali politiche della convivenza. Dopo aver precedentemente affermato la "preziosità" di una propria identità, che possa trovare espressione sia individuale sia di gruppo, (134) Langer propone la propria scelta culturale esplicita, ritenendo ogni altra forma di esclusivismo o di coabitazione separata (convivenza vs. coabitazione) un vero e proprio impoverimento. Un giudizio simile, di impoverimento per ogni realtà interessata, Langer dà anche dei movimenti cosiddetti "di ritorno", quelli cioè che riportano dopo secoli una comunità o delle singole persone nel paese o nella regione d'origine. (135)

Che la soluzione plurietnica, plurilingue, pluriculturale, plurireligiosa offra di più, mi pare facilmente dimostrabile. Dovunque, infatti, la diversità e la pluralità sono più ricche dell'uniformità, semplicemente perchè offrono un tessuto di relazioni, una possibilità di espressione e di rapporti tra le persone molto più articolati, con molte più opzioni. Di sicuro anche molto più problematiche: non mi faccio alcuna illusione, non sono un sostenitore della facile idea del "plurietnico è bello" o cose del genere.
Credo che plurietnico sia bello, anzi, dico: plurietnico è bello, plurilingue è bello, pluriculturale è bello. Sono però anche consapevole che tutto ciò richiede una pedagogia, richiede ordinamenti, ha insomma bisogno di una quantità di cose. Sono convinto, ad esempio, che nel Sudafrica sia bene che almeno per un lungo periodo transitorio vengano conservati anche alcuni diritti di gruppo accanto ai diritti individuali.
Penso che proprio una cultura della diversità faccia parte, questo sì, dello specifico sedimento storico europeo, per cui anche i processi di integrazione europea oppure di risposta ai nuovi flussi migratori non dovranno tendere ad una "fusione", ad una melting-pot. Dovrà e potrà esserci invece una risposta basata sulla pluralità, più complessa e senz'altro anche più complicata, ma che comunque sia in grado di mantenere e coltivare la diversità. Ben sapendo che poi da questo nascono anche nuove diversità. [Corsivi nostri, n.d.a.] (136)


Nel proseguo del suo intervento a Bergamo, Langer ritorna su argomenti che abbiamo già ampiamente trattato, e che qui vogliamo segnalare solo per riannodare il discorso sulla convivenza con egli altri temi trattati da Langer, in modo da ricordare, se ancora ce n'è bisogno, il carattere unitario ed interdipendente del ecologismo langeriano: falsità e superamento dello stato-nazione, valorizzazione della dimensione territoriale più che di quella etnica o nazionale, (137) limiti della sovranità nazionale e del principio di non ingerenza, riorganizzazione decentrata degli stati e creazione di autorità sovranazionali, ingerenza democratica dal basso, chiusura degli ormai famosi "cerchi ecologici", economie regionali che permettano una certa autosufficienza alimentare, ripensamento della società in termini conviviali, in modo che possa diventare pluri-culturale e multi-etnica senza eccessivi traumi.

Non credo vi sia un'alternativa ragionevole ad una cultura e ad una politica della convivenza. Ovvero, ogni alternativa può essere solo violenta: le alternative possibili contengono un grado già adesso alto di violenza, che tenderà a crescere man mano che aumenterà l'intensità del conflitto. D'altra parte i conflitti etnici e le questioni che essi comportano non sono semplicemente maschera di qualcos'altro, ma hanno una loro propria e autonoma capacità dirompente di manifestarsi. Credo perciò che la costruzione di una politica della convivenza e quindi della diluizione delle tensioni attraverso un tratto di plurilinguismo e di pluriculturalismo, attraverso ordinamenti plurietnici, sia davvero utile. Non ci troveremo così impreparati poi sotto l'incalzare delle pressioni e dei conflitti. (138)

Nel 1994, Langer cerca di mettere per iscritto una serie di proposte concrete per la convivenza inter-etnica, ritenendo i tempi ormai maturi perchè ci si occupi non più solo della definizione di diritti delle minoranze, ma anche della ricerca di criteri per costruire un ordinamento della convivenza pluri-culturale, pur nella consapevolezza che ogni situazione deve essere considerata a sé stante. Il decalogo che scaturirà da questo sforzo, come precisa lo stesso Langer, non deve essere concepito come "un'insieme di norme e di statuizioni legali, ma soprattutto di valori e di pratiche della mutua tolleranza, conoscenza e frequentazione." (139)
In conclusione di capitolo non possiamo che limitarci a riportare per sommi capi i dieci punti proposti da Langer, con qualche brevissima spiegazione, rimandano alla lettura del testo integrale per un eventuale approfondimento.

1) La comprensione pluri-etnica sarò la norma più che l'eccezione: l'alternativa è tra esclusivismo etnico e convivenza: La convivenza pluri-etnica può essere percepita e vissuta come arricchimento e opportunità in più piuttosto che come condanna.
2) Identità e convivenza: mai l'una senza l'altra: né inclusione né esclusione forzata.
3) Conoscersi, parlarsi, informarsi, interagire: "più abbiamo a che fare gli uni con gli altri, meglio ci intenderemo. Il rovesciamento della celebre frase di Zelger: bisogna imparare a conoscere la lingua, la storia, le tradizioni, gli stereotipi e le paure delle comunità conviventi.
4) Etnico magari sì, ma non a una sola dimensione: territorio, genere, posizione sociale, tempo libero e tanti altri denominatori comuni.
5) Definire e delimitare nel modo meno rigido possibile l'appartenenza, non escludere appartenenze e interferenze plurime. L'identità è un fatto di storia, di tradizioni, di sensibilità individuale; non ha bisogno di essere delimitata.
6) Riconoscere e rendere visibile la dimensione pluri-etnica: i diritti, i segni pubblici, i gesti quotidiani, il diritto a sentirsi a casa.
7) Diritti e garanzie sono essenziali ma non bastano: norme etnocentriche favoriscono comportamenti etnocentrici.
8) Dell'importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera. Occorrono "traditori della compattezza etnica", ma non "transfughi". Appoggiare ed incentivare la formazione di gruppi che si collochino consapevolmente ai confini tra le comunità.
9) Una condizione vitale: bandire ogni violenza. La conflittualità di origine etnica, religiosa o razziale ha un enorme potere di coinvolgimento e di mobilitazione emotiva.
10) Le piante pioniere della cultura della convivenza: gruppi misti inter-etnici. (140)
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