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Quel divario tra ricchi e poberi

1.10.1989, Archivio Langer
Per una lunga fase del recente passato l'obiettivo di contribuire a trasformare i (paesi, economie, popoli,...) "sottosviluppati" in "sviluppati" sembrava la quintessenza di un impegno internazionalista di giustizia e di pace.

Il divario tra ricchi e poveri veniva letto come divario tra sviluppo e sottosviluppo, da colmare attraverso la piú equa distribuzione dei benefici dello sviluppo. "Meglio insegnare a pescare all'affamato che mandargli un carico di pesci", era la popolare sintesi di una filosofia ed una politica "sviluppista" che in realtà non insegnava a pescare (a chi poi? a popoli da sempre pescatori?), ma distruggeva intere flotte di piccoli pescatori con i loro artigianali pescherecci per fare posto alla grande pesca industrializzata. La stessa Chiesa cattolica, in genere più lenta nei suoi movimenti e per questo talvolta anche più resistente alle mode culturali, era arrivata con Paolo VI ("Populorum progressio") a definire "lo sviluppo" come nuovo nome della pace. La partecipazione al mercato dei prodotti e dei servizi industriali - dapprima in forma marginale e subalterna, ma col miraggio di una più piena e più attiva integrazione - diventava il parametro della maturità economica e sociale, ma anche di civiltà, dei popoli, traducibile di volta in volta in grafici che misuravano le kilowattore installate, la densità della diffusione degli elettrodomestici o delle automobili, la quantità di energia consumata e di merci esportate, il "prodotto nazionale lordo".

Se oggi guardiamo agli effetti di quasi mezzo secolo di "sviluppismo", non abbiamo che da scegliere da quale lato cominciare l'esame ed il giudizio. Se osserviamo i popoli e le regioni della terra che ce l'hanno fatta a prendere il treno dello "sviluppo" - da Hong Kong a Taiwan, da Singapore all'Iran, dal Brasile alle Filippine - e se poi confrontiamo il loro "sviluppo" con chi è rimasto indietro ed arranca tuttora nel più desolato "sottosviluppo" (come molti paesi africani, non solo subsahariani, ed asiatici, non solo il Bangla Desh), è difficile dire dove i danni siano maggiori, mentre è abbastanza certo che i benefici siano asai unilateralmente finiti nelle mani dei paesi che hanno retto il timone dello "sviluppo" e nelle mani di ristretti gruppi sociali che se ne sono fatti agenti locali.

Non è un caso, quindi, che nei paesi del sud del mondo da qualche tempo cominci ad emergere con sempre maggior chiarezza una critica all'illusione "sviluppista". E mentre molte élites locali e la quasi totalità dei governi e delle banche ancora inseguono l'obiettivo di entrare nella competizione dello "sviluppo", pagandone i prezzi ed assumendosene i rischi, sperando che la crescita economica poi compensi gli uni e gli altri, si diffondono gruppi che puntano alla sussistenza più che al mercato, all'autosufficienza più che all'ingresso (peraltro del tutto subalterno) in un circuito etero-determinato, alla valorizzazione del proprio patrimonio naturale e culturale per usi propri piuttosto che alla sua trasformazione in merce d'esportazione. In altre parole: cresce la critica al miraggio di uno "sviluppo" che l'esperienza ha dimostrato essere foriero di dipendenze e povertà alla lunga più feroci di quelle derivanti dal "sotto-sviluppo". Movimenti come quello che a Città del Messico, dopo il terremoto del 1986, affermava di temere più la "ricostruzione" che il sisma, o come quello che nello Zimbabwe ed in Tanzania oggi si oppone alle monoculture, o come quello che in India difende gli alberi e con essi la civiltà rurale dei villaggi ed in Indonesia punta al modesto auto-sviluppo dei villaggi senza i grandi progetti finanziati dalla Banca mondiale, o come quello dei "seringueiros" di Chico Mendes e degli "indios" dell'Amazzonia sono altrettanti tasselli di una fondata critica ed alternativa allo "sviluppismo".

Non è un caso se questi movimenti del sud incontrano oggi, nel nord del pianeta, soprattutto gli ecologisti come loro interlocutori ed alleati, che a loro volta propugnano una critica allo "sviluppo" dall'interno della sua stessa roccaforte. Ne deriva, in maniera via via più lucida, un nuovo "terzomondismo" che si colora di verde. Si caratterizza soprattutto per la sua visione sempre meno economico-centrica e sempre più "sviluppo"-critica: non si tratta più di "aiutare" il sud del pianeta a collocare le sue merci sul mercato mondiale a prezzi meno ingiusti o a diventare più competitivo grazie ad una più efficiente industrializzazione o a condizioni meno sfavorevoli sul mercato finanziario o del debito, né si tratta di accelerare i tempi ed aumentare gli sforzi per estendere i benefici della civilizzazione energetica, produttiva ed informatica ai paesi "sotto-sviluppati" (ora eufemisticamente ribattezzati in P.V.S., paesi in via di sviluppo, con un'espressione almeno altrettanto ipocrita quanto quella di "paesi emergenti": nell'un caso bisognerebbe dire per onestà che sono "paesi in via di inviluppo", nel secondo che si tratta di paesi che stanno per essere "sommersi").

Così i movimenti di solidarietà all'interno dei paesi industrializzati - almeno in linea generale - non dovranno probabilmente più battersi per aumentare sotto un profilo quantitativo le risorse (gli "aiuti") destinate al "terzo mondo", ma individuare nuovi obiettivi, più esigenti sotto il profilo qualitativo.

Collocherei tra questi nuovi obiettivi senz'altro i seguenti:

- limitare i danni dell'impatto della nostra civiltà e dei nostri mercati verso i paesi impoveriti;

- esigere, di conseguenza, una accurata valutazione - ovviamente compiuta in primo luogo con la cooperazione di chi vi è direttamente interessato in loco - dell'impatto ambientale, sociale, culturale e generazionale di tutti gli interventi promotori di "sviluppo": verificare, cioè, quanto tali interventi siano compatibili con gli equilibri ambientali e sociali delle regioni interessate e quanto tengano conto dell'identità delle popolazioni coinvolte e delle conseguenze anche per le generazioni future;

- contribuire ad irrobustire le difese critiche contro l'invasione "sviluppista", e quindi rafforzare tutte le forme di partnership tra i critici dello sviluppo nel nord e nel sud del pianeta;

- iniziare a praticare una "cooperazione allo sviluppo" in direzione anche opposta a quella oggi vigente: accettare (e stimolare) che le popolazioni del sud del mondo intervengano criticamente per correggere il nostro "modello di sviluppo", facendo valere loro le ragioni sia di giustizia, sia di integrità della biosfera verso i grandi inquinatori, i grandi dissipatori energetici, i grandi promotori di degradi irreversibili che sono i paesi industrializzati.

Se gli ecologisti riconoscono - a volte magari più in un'ottica teorica che di vita vissuta - nel "modello di sviluppo" dominante nei paesi sottoposti alla logica della crescita economica e del dominio sovrano del mercato una causa fondante dell'attuale emergenza ecologica planetaria, non possono certo augurarsi una "cooperazione allo sviluppo" che porti questo modello ad estendersi dove ancora non ha preso piede! Nello stesso tempo, ovviamente, non potrebbero accettare la tranquilla perpetuazione di ingiustizie planetarie, per cui un quinto dell'umanità si arroga il diritto di usurpare e degradare i quattro quinti delle risorse comuni a tutti i viventi.

Ecco perchè l'idea di una "cooperazione per domare il demone dello sviluppo" comincia a farsi strada, e perchè in questa prospettiva il contributo creativo dei popoli del sud del pianeta diventerà essenziale per ricondurre la civiltà dei nostri paesi "sviluppati" ad una misura compatibile con la giustizia sociale planetaria, con la pace tra i popoli e con un equilibrio rigenerabile della biosfera.

Convegno ACRA, Torino, ottobre 1989
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