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Perdersi per trovarsi: la terra in prestito dai nostri figli

1.9.1989, «Servitium», settembre 1989

Dall’epoca della presa del potere dell’industria e del mercato su di essa dimensionato, molte cose sono cambiate, con una rapidità via via crescente – anzi, con una “velocizzazione” tremenda, se questa espressione mutuata dalla pubblicità per le automobili può essere consentita.

Dalla faticosa lotta degli uomini contro la natura siamo passati ad una situazione in cui la natura quasi non ce la fa più a difendersi dall’uomo. Da una condizione in cui si assegnava valore alle cose a seconda della loro utilità e difficoltà di produrle o reperirle siamo passati a valori totalmente fittizi e convenzionali che ormai sono soltanto “prezzi”, cioè valutazioni artificiosamente assegnate dal mercato, senza quasi nessun rapporto con il loro valore reale: per rendersene conto basterebbe immaginare un attimo i prezzi ed i beni da essi misurati in una situazione di emergenza come una catastrofe, una guerra, un luogo isolato…: risulterebbero subito di cartapesta. La nostra idea di viaggio e di movimento non ha più alcun rapporto con le persone ed i paesaggi che si attraversano, né con paesi e popoli da raggiungere. Nell’approccio alle cose, l’imballaggio (materiale e culturale) prevale di gran lunga sui contenuti. Il tempo di vita che si è allungato molto sotto il profilo quantitativo non appare “liberato” e consegnato alla sovranità di chi lo vive, ma fortemente alienato e sostanzialmente determinato da altri. E si potrebbe continuare a lungo.

Tra le modificazioni più profonde che caratterizzano questo cambiamento progressivamente “velocizzatosi”, vi è una di particolare gravità: vorrei chiamarla l’“impatto generazionale” di tutto ciò che noi oggi facciamo, sia a livello macro-sociale che micro-sociale.

Un tempo il danno più grande che gli uomini potevano infliggere, prolungato nel tempo, era la deportazione dei figli di un popolo, il disboscamento di una montagna, l’incendio (oltre che il saccheggio) di un città, l’avvelenamento dei pozzi. Delitti orrendi, tutti questi, ma relativamente rari – casi estremi di ferocia o di insipienza, per così dire. Ma gran parte dell’umanità viveva incidendo solo modestamente, sul futuro. Era poco quel che un uomo poteva quel che un uomo poteva costruire, accumulare, realizzare e lasciare agli altri dopo di sé. Ed era anche poco il danno che – nella peggiore delle ipotesi – poteva combinare.

Oggi la situazione è assai diversa e continua a cambiare con crescente velocità. I più piccoli atti – anche spensierati – possono diventare la goccia che fa traboccare il vaso. Ogni nuova automobile acquistata ed immessa sulle strade, aumenta notevolmente l’effetto dell’inquinamento. Ogni bomboletta spray minaccia l’ozono. Ogni aumento degli armamenti – o dei rifiuti, o della cementificazione, o della rumorosità o della proliferazione di prodotti chimici di sintesi non più biodegradabili… - porta non solo l’umanità ed il pianeta più vicino alla soglia dell’irreversibilità del degrado, ma provoca anche effetti sinergici che si potenziano a vicenda in un gigantesco intreccio di cause e di concause che portano al disastro.

Si dice, giustamente: “mai una generazione ha avuto tanta responsabilità e tanto potere su quelle azioni quanto la nostra”. E si rincara, giustamente, osservando che “mai una generazione prima della presente ha avuto nelle sue mani la stessa decisione se lasciar continuare la successione di generazioni o se interromperla o metterla comunque assai pericolosamente a repentaglio”.

Che fare, che cosa pensare, come atteggiarsi di fronte a questa situazione nuova e del tutto inedita, nella quale per la prima volta nella storia l’umanità (in porzioni, invero, assai differenziate e ingiuste) consuma più di quanto la natura riesca a rigenerare, e viene quindi intaccato lo stesso albero, e non semplicemente mangiati i suoi frutti?

La risposta dei profeti di catastrofi appare ascetica ed univoca: ravvedersi, rinunciare, cambiare strada, tirare la cinghia: in nome della paura che la visione degli effetti della nostra “civiltà” suscita, si dovrebbe trovare la forza di risparmiare l’esito altrimenti inesorabile verso l’irreversibile. Il guaio è che la paura, anche dinnanzi alla catastrofe ecologica, è cattiva consigliera, nella realtà poi prevale piuttosto l’assuefazione, l’arte di arrangiarsi, quando non addirittura la dissipazione accelerata e ostentata, perché “tanto siamo perduti e non c’è niente da fare se non godersi quel che ancora si può godere”.

Più concreto è il legame e più solida la motivazione di chi pensa ai propri figli ed alle future generazioni più in generale.  Lasciare a loro un mondo degradato ed inquinato, consumato e desertificato, plastificato ed artificializzato spaventa, e rende dubbiosi sul senso stesso del futuro, oltre che del cosiddetto progresso.

Quando il movimento verde riassume questa consapevolezza nella frase “la terra ci è stata solo prestata dai nostri figli” (che era poi il motto riassuntivo del primo grande convegno nazionale dei verdi italiani nel 1985), indica in una efficace sintesi una misura ed una regola che forse può aiutare a temperare le spinte della “velocizzazione” e guidare i comportamenti riferibili al futuro.

Ecco perché si può parlare di “impatto generazionale” delle nostre scelte, azioni, omissioni. Deforestare oggi non è la stessa cosa che deforestare nel Medioevo: amputare una gamba a chi già è malato di polmoni, soffre di artrite ed ha avuto qualche infarto non è la stessa cosa che intervenire su una persona sana. Le ripercussioni delle nostre scelte ormai spesso si avvicinano alla soglia di irreversibilità o la oltrepassano addirittura: la contaminazione nucleare, la costruzione artificiale di nuovi esseri viventi che poi a loro volta trasmettono la vita, la galoppante riduzione delle foreste pluviali… Come fare per non restringere in modo inaccettabile le possibilità di scelta e di vita dei posteri, come moderare il nostro ormai prepotente e spesso irreparabile “impatto generazionale”?

Qualcuno è tentato da risposte dittatoriali: l’austerità forzata, la compressione delle generazioni presenti pur di assicurare un possibile futuro ai posteri, l’autoritarismo ecologico dirigista e pianificatore (in materia demografica, dei consumi, delle libertà ammissibili, ecc.).

Ma l’esperienza storica finora ha dimostrato che nessuna risposta autoritaria e dittatoriale è mai riuscita ad incarnare davvero interessi “superiori” o di lungo periodo: anche a prescindere da ogni ragione di attaccamento alla democrazia, si può semplicemente osservare che il sacrificio di libertà  e di democrazia che esse comportano, non viene ripagato in termini di benefici sociali o ecologici, ma anzi aumenta i rischi di appropriazione ed uso incontrollato di poteri, risorse e sovranità sul futuro di tutti.

Ecco perché riguadagna una forte attualità l’insegnamento del “perdersi per trovarsi”: solo una linea di consapevole autolimitazione del proprio “impatto generazionale” potrà segnare dei confini democratici e convincenti alla nostra usurpazione del futuro e della sovranità di chi verrà dopo di noi. Ma la linea di siffatta autolimitazione non potrà affermarsi né senza una forte spiritualità che sviluppi le motivazioni in quella direzione, né attraverso un’ideologia ed una pratica di negazione del presente in nome di un futuro (nostro o dei posteri). Distruggere il presente per salvare il futuro non può essere una proposta né convincente, né vincente.

Forse la questione dell’“impatto generazionale” trova una risposta nel suo elementare atto costitutivo: generare un/a figlio/a non potrà mai essere un atto di semplice rinnegamento di sé e di precedenza assegnata al futuro: avviene se ci sono le necessarie spinte (di amore, di speranza, di realizzazione di sé, di piacere) anche nel presente. Certamente comporta poi numerosi e profondi momenti di rinuncia a se stessi, accettati volentieri non solo dopo la speranza di ritrovarsi più “ricchi” e più gratificati in un “dopo”, ma anche per tutte le soddisfazioni che ritornano già strada facendo. Se non si trovano nel presente (per esempio nel rapporto di amore) sufficienti ragioni per volere un futuro – che poi potrebbe anche deludere, questo si sa – non vi potrà essere alcuna astratta ragione, nessun rapporto del “Club of Rome” o delle Nazioni Unite, che riuscirebbe a convincere larghe moltitudini di gente a rinunciare a qualcosa pur di lasciare un mondo non ridotto all’osso a chi verrà dopo di noi.

Riappare quindi tutto intero il nocciolo del problema di una società che non voglia vivere nel nome del “dopo di noi il diluvio”: (ri)scoprire in positivo i valori dell’autolimitazione del proprio “impatto” (ambientale, sociale, culturale, estetico… generazionale), (ri)convincersi che lasciare tracce dà maggior soddisfazione che produrre voragini e che con la lentezza si può vivere meglio che con la velocità. Non solo, quindi, “in nome dei figli”, ma anche per interesse ed amore proprio.

Ricongiungere le ragioni “altruiste” (in genere nobili, ma non sempre efficaci nel muovere grandi masse di persone) con ragioni più “egoiste” e verificabili anche nel presente è oggi un compito ed una opportunità della sfida ecologista: “perdersi” (rinunciando per esempio alla motorizzazione privata di massa, alla salute ed all’igiene meccanizzata, ai diversi sogni di onnipotenza energetica o bio-tecnologica o militare…) può significare davvero ritrovarsi, già nel presente, oltre che lasciare qualche possibilità in più a chi ci seguirà e vorrà pure lasciare le proprie… (speriamo) tracce, senza restare sepolto dalle nostre voragini.

“Perdersi” e “trovarsi” non può funzionare in due tempi lontani tra loro e la voce delle future generazioni non è delegabile a nessuna rappresentanza “superiore” o esterna al presente. Sarà uno dei più difficili problemi politici da risolvere, quello di come immettere momenti di (auto-)limitazione all’impatto generazionale delle scelte che oggi si compiono nel breve volgere delle legislature e per ragioni a volte legate persino a meschini sondaggi elettorali o miserabili giochi di potere e di profitto.

Per arrivare a questo compito di vera e grande riforma dovrà, per intanto, almeno diffondersi la coscienza che questa sia una urgente necessità ed una nuova ed impellente priorità.

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