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La forza dell'Europa non sta nelle armi

28.8.1989, da "Il Manifesto" del 28 agosto 1989
Oggi si riunisce a Bruxelles la commissione politica del Parlamento Europeo, per discutere - finalmente in una sede parlamentare europea - la crisi del Golfo e l'atteggiamento della Comunità dei 12 in proposito.

Alla riunione parteciperanno, a quanto pare, sia Andreotti, presidente di turno del consiglio dei 12 governi, sia Delors, presidente della commissione esecutiva della Comunità.

Domani poi i capigruppo dei 10 gruppi parlamentari decideranno, insieme al presidente Baron Crespo, se far sentire in qualche modo la voce del parlamento, dopo quella dei governi nazionali, del Consiglio di sicurezza dell'ONU, dell'UEO e dei ministri degli esteri dei Dodici.

Non c'è da sperare molto che l'ondata di interventismo americano e, parzialmente, europeo, venga sensibilmente attenuata in sede comunitaria, ma vale comunque la pena di tentare.

Sono molte le ragioni che potrebbero consigliare al parlamento europeo di correggere gli orientamenti finora prevalsi nelle diverse sedi nazionali. Compreso quello del parlamento italiano che, pur nella sua sostanziale adesione all'azione degli USA, ha tuttavia almeno il pregio di ancorarsi all'ombrello ONU e di prendere in considerazione l'insieme del contesto mediorientale (Palestinesi, Israele, Libano).

Innanzitutto la Comunità si trova di fronte ad un bivio fondamentale del suo stesso sviluppo: andare avanti come se nulla fosse, sulla strada dell'integrazione politica dei 12 membri attuali ed allargarsi in futuro, sempre con il criterio del mercato che precede la politica, ai postulanti che già bussano numerosi alla sua porta, o cercare di rifondarsi in tempi brevi secondo una credibile prospettiva paneuropea che offra una sponda, già nel breve periodo, a tutti i popoli europei e possa interloquire con gli USA, con quel che diventerà l'Unione Sovietica, con il Sud del mondo.

Se oggi la Comunità imbocca la via di un interventismo sostanzialmente "atlantico" e fortemente incentrato sullo strumento militare, contribuirà a deprimere il proprio profilo politico piuttosto che a valorizzarlo.

Certamente una vera comunità europea - oggi teoricamente più consistente sia degli USA, sia dell'URSS, sia degli stati arabi nel loro insieme, ma raramente capace di agire davvero da soggetto unitario e comune - potrebbe esercitare una sua forte attrattiva sulla scena internazionale. A patto che si ponga da protagonista di un mondo uscito dai blocchi contrapposti tra occidente e paesi ex-comunisti, e capace di non allinearsi subito di nuovo nella montante contrapposizione tra nord e sud del mondo.

Il fascino che oggi la comunità europea esercita sui popoli, soprattutto dell'Europa centrale ed orientale, non deriva in primo luogo dal completamento del mercato unico che essa sta anteponendo a tutti gli altri possibili obiettivi, ma essenzialmente dalla qualità relativamente alta della sua vita democratica, dallo standard dei suoi diritti umani e civili, e dal fatto stesso di rappresentare un modello abbastanza ben riuscito di "unità nella diversità" tra popoli, lingue, culture e ordinamenti.

Persino la pur modesta sensibilità e politica ambientale, che oggi fa parte del patrimonio comunitario acquisito, costituisce un motivo d'interesse e di apprezzamento all'esterno di essa.

Perchè giocarsi ora un possibile autonomo ruolo nel mondo, diverso dal blocco atlantico, in nome di una scelta militare che rischia di fare dell'ONU un ostaggio invece che un'alta autorità comune ai popoli?

Naturalmente nessuno tra i pacifisti ed antimilitaristi europei, che giustamente rifiutano ogni acquiescenza all'interventismo militare dei loro governi, ha simpatie per l'odierno regime iracheno, totalitario ed aggressivo, o può accettare la liquidazione militare di uno stato sovrano come il Kuwait, per quanto di discutibilissima qualità sociale e democratica.

Ancor meno si può tollerare alcuna acquiescenza verso la massiccia presa di ostaggi, con la trasformazione di ogni straniero - oltre che di ogni cittadino iracheno - in arma da guerra.

Non sono stati certamente i pacifisti e gli antimilitaristi europei a promuovere o sostenere l'armamento militare e politico del regime di Saddam o di Khomeiny o di Fahd. In questo senso la decisione di sanzioni da parte dell'ONU e anche la disponibilità a farle valere con efficaci misure di embargo internazionale, deve essere giudicata positivamente. E sarebbe solo da augurarsi che la violazione dei deliberati dell'ONU venga in tutti i casi altrettanto risolutamente denunciata ed impedite: dai palestinesi al Libano, dall'occupazione turca del nord di Cipro al Sahara occidentale..

Un obiettivo oggi urgente potrebbe essere il declassamento delle misure militari a misure di polizia internazionale: sostituire cioè gli interventi delle forze armate degli stati con interventi di forze davvero multinazionali, nel mandato, nella composizione e nel comando, a garanzia e protezione dell'attuazione di un diritto e di valori internazionalmente convenuti ed accettati.

L'Europa comunitaria, che rappresenta un'esperienza "alta" di costruzione di un ordinamento comune con valori comuni, con regoli comuni e con una coesione sovranazionale che consente il superamento di vecchie sovranità e non-ingerenze nazionali, deve oggi dare un deciso contributo perchè un nuovo ordine sovranazionale cresca e si dia gli strumenti per difendersi efficacemente. Ma a questo scopo sarebbero forse più utili interventi bancari e finanziari che dispiegamenti di truppe.

Nulla di più convincente che progredire verso comuni livelli di democrazia e di diritto (dall'Iraq, all'Arabia saudita, da Grenada, alla Libia, da Panama all'Afghanistan...). Per crearne le condizioni nulla di più pericoloso che passare la parola alle armi.
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