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Culture della sinistra e culture dei verdi

2.4.1993, Ferrara - Archivio LAnger
Nessuno ce la farà a convincere le grandi masse popolari (per usare un termine evocativo, carico di ideologia) del fatto che con il rovinoso crollo dei regimi del socialismo reale è fallita solo una particolare incarnazione del socialismo, magari addirittura usurpata e priva del vero diritto di fregiarsi di quel titolo, ma che gli ideali del socialismo sopravvivono ben oltre quella parentesi storica.

La verità è un'altra, ed è sotto i nostri occhi: nell'Europa dell'Est solo chi prende chiaramente le distanze (magari verbosamente) da quelle "aberrazioni" ha ancora diritto di parola, ed in Occidente la sinistra arranca, anche laddove ha preso congedo da molto tempo da quei regimi. La radicalità e l'accanimento di certi conflitti emersi nel post-comunismo fa addirittura sorgere la domanda se davvero tutta la patina socialista fosse soltanto appiccicaticcia. Come mai dopo tanta enfasi collettivista il furore delle privatizzazioni seduce così largamente la gente? Come mai dopo l'internazionalismo decretato per decenni, tanti acerrimi nazionalismi si fanno strada, perchè dopo tanta ostentata parità delle donne si assiste a una veloce eliminazione dell'elemento femminile dalla vita pubblica? E come è potuto accadere che dopo un così lungo e così penetrante controllo sociale su tutti gli aspetti della vita quotidiana, ora sempre di più la mafia (variamente organizzata) si profila come il potere maggiormente accreditato a subentrare al vuoto che si è creato?

Chi oggi, in nome di un riferimento anche solo vago e discreto ai valori del socialismo, tentasse di temperare la radicalità di certe involuzioni nell'Europa orientale, si prenderebbe la sua sonora razione di fischi, se non peggio.

Ci vorranno dunque altri panni, vestiti dei quali i valori della giustizia sociale, della eguale dignità tra le persone, della fraterna solidarietà e della convivenza potranno riapparire a quell'orizzonte.


2.
Il discredito del socialismo reale trascina con sè - inutile negarlo - anche tanta sinistra europea occidentale in casa sua (se non bastassero i suoi propri errori e misfatti a questa bisogna). Ed in particolare sarà a lungo difficile riparlare di una prospettiva generale, di un'utopia sociale, di un'opzione ideale onni-comprensiva che dia senso e respiro ad ogni singola lotta per la giustizia. Per millenni il mondo in cui succedeva ai poveri di avere ragione e ricevere giustizia era stato a priori collocato in una dimensione ultraterrena. Per un secolo tale speranza si era laicizzata ed incarnata nel socialismo, variamente denominato ed inteso, ma comunque indicato come un ordinamento (terreno, possibile) nel quale ognuno, se non proprio secondo i suoi bisogni, almeno secondo i suoi meriti sarebbe stato valorizzato, ed in cui i privilegi e gli squilibri derivanti dall'ineguale distribuzione del possesso di beni materiali sarebbero stati compensati da una giustizia riequilibratrice, forte del consenso dei più.... e del sol dell'avvenir.

Di fronte all'impossibilità di declinare o coniugare oltre dei concetti come socialismo, rivoluzione sociale, lotta di classe..., anche in Occidente si avverte la difficoltà di legare tra loro singole lotte sociali, cercare una risposta comune a differenti, ma collegate ingiustizie, indicare una strada comune a possibili alleanze sociali ed interazioni tra protagonisti di diverse ribellioni. Chi ha fame e sete di giustizia ed ha un suo contributo da dare a rovesciare un ingiusto stato presente delle cose in nome di un più fraterno assetto della società, si trova oggi in una difficoltà non solo nominalistica ("come chiamare la prospettiva che indico?"), ma di sostanza: come non ripetere un fragoroso fallimento storico, che andrebbe evitato con cura anche qualora non ci si trovasse di fronte al rigetto pressochè universale, almeno in Europa.


3.
Negli ultimi anni dei regimi comunisti e nei primi anni di quelli post-comunisti, si è sempre potuta osservare una clamorosa forbice di intenti e di comportamenti tra movimenti e lotte politiche all'Est e all'Ovest. Sui diritti umani e civili, sulla condizione delle minoranze etniche, sulle questioni della pace e del disarmo, sul pluralismo politico e la libertà d'informazione, sull'internazionalismo e così via non si sono registrate larghe sintonie tra Est e Ovest, ed anche in campo sociale (salari, casa, occupazione, consumi, trasporti, salute, diritti dei lavoratori...) la consonanza degli obiettivi è stata più apparente che reale, visto che all'Est ci si dibatte con una transizione (dal "sociale" al "privato", o meglio dal "falsamente sociale" al "diritto di tentare individualmente la propria fortuna") che sembra essere di segno opposta a quella che sottostà a molte rivendicazioni sociali in Occidente (dove si postulano criteri più sociali e meno privati quando ci si scontra sui medesimi temi).


4.
Fa eccezione, davvero, tutta la tematica ambientale e della qualità della vita. Certamente le premesse, gli ordinamenti, le economie e l'entità dei danni sono differenti, nel disastro ambientale dell'Est e dell'Ovest. E diverse saranno, quindi, le esigenze specifiche di risanamento e gli strumenti per farvi fronte. (A questo proposito va notato, ed è forse il più inaspettato dei bruttissimi voti nella pagella storica del socialismo, che pur in assenza di profitto privato, nei regimi comunisti l'ambiente è stato ancor più gravemente inquinato che non nel mondo capitalista: avevano quindi ragione i Sacharov ed i Medvedejew, che l'avevano capito sin dalla metà degli anni '80!)

Ma la crisi ambientale è la prima e la più grande sfida comune che capita agli europei dell'Est e dell'Ovest (e non solo a loro) in modo "paritario": costituisce per entrambi il nuovo "problema del secolo", coglie egualmente impreparate le loro élites politiche, non arriva attraverso filtri ideologici precedentemente forgiati e quindi magari "bruciati" dalla caduta dei muri, chiede alla gente dell'Est e dell'Ovest di modificare comportamenti, stili di vita, valori, aspettative, abitudini - e politiche ed economie. Certo: ancora sta prevalendo, all'Est come all'Ovest, il falso stereotipo che il benessere ecologico sia una sorte di lusso decorativo al quale possono pensare i ricchi quando hanno coperto tanti altri bisogni più urgenti. Ma proprio nell'Europa dell'Est, dove intere zone, intere città, interi corsi d'acqua o laghi o mari, intere foreste (in Boemia e Moravia, in Ucraina, in Romania, nella stessa Germania orientale, in Polonia, in Bulgaria...) sono a un tale punto di degrado da minacciare seriamente la salute della gente e l'abitabilità di un territorio (tanto da spingere ad evacuazioni di massa e trasferimenti di interi paesi), il disinquinamento ed il risanamento ecologico non sono più un "deinde philosophari", che arriverà dopo, anzi, molto dopo un "primum vivere". Sono, anzi, il vero "primum vivere", così come in Occidente il traffico o la potabilità dell'acqua o l'emergenza rifiuti stanno diventando, in certe zone, delle vere priorità cui nessuno si potrá più sottrarre.


5.
La singolare opportunità che la sfida ambientale evoca in entrambe le metà dell'Europa non più divisa da cortine di ferro e micidiali muri, è proprio questa: gli stessi europei che parlano linguaggi differenti e guardano da visuali diverse ai problemi sociali o politici o etnici o economici, di fronte all'emergenza ambiente si trovano in condizioni piuttosto simili, e con alle spalle strumenti altrettanto obsoleti. Non ci può essere l'ingenua fiducia che il mercato risolva da sè la contraddizione ambientale e si accontenti spontaneamente di uno sviluppo compatibile con i limiti ecologici; tanto meno si può credere nella pianificazione statale, che - l'Est lo dimostra abbondantemente - ha saccheggiato e negletto l'ambiente come e più del mercato.

Se c'è quindi una disciplina nella quale Est e Ovest si trovano sullo stesso banco di scuola, seppure con diversa strumentazione tecnica ed economica, è proprio la questione della conversione e del risanamento ecologico.


6.
Ciò non si riflette immediatamente sulla presenza politica dei Verdi o degli ecologisti, che tra l'altro, principalmente per responsabilità dei Verdi tedeschi del periodo 1988-90, all'Est sono stati spesso semplicisticamente percepiti come una parte della sinistra, magari particolarmente cieca di fronte all'evidenza, e di conseguenza puniti dagli elettori. Ma anche all'Ovest l'ingresso di una opzione verde nella gamma delle scelte politiche di fondo, non è ancora chissà quanto radicata. Ridurre questa opzione verde ad una parte, più o meno organica, della sinistra, avrebbe - a mio giudizio - per conseguenza la ulteriore riduzione a marginalità degli ecologisti.

Una adeguata elaborazione originale ed autonoma, libera da schieramenti ideologici precostituiti (anche se magari di volta in volta partecipe delle scelte ed alleanze elettorali e politiche necessarie per far valere i propri obiettivi), darà invece ai Verdi la possibilità di proporre alle società europee occidentali ed orientali - senza dover pagare pesanti ed ingiustificati dazi alla dogana delle ideologie - alcuni valori e priorità cui anche la migliore sinistra era fortemente legata: una collocazione solidale con i più deboli, una giustizia sociale riequilibratrice delle differenze di classe a monte, un'opzione di sobrietà compatibile con la giustizia internazionale, un profondo rispetto per la natura e le generazioni successive.

Certamente una forza verde che invece fosse solo ambientalista, quasi una sorta di sindacato dell'ambiente, difficilmente avrebbe l'autorità morale e politica per convincere ed aggregare persone e gruppi caratterizzate da quella "fame e sete di giustizia" che in passato aveva spinto molti a sinistra e che, anche di fronte alla crisi della sinistra, resta un impulso politico e morale prezioso ed imprescindibile.

CULTURE DELLA SINISTRA E CULTURE DEI VERDI
La sfida della rivoluzione ambientale
Ferrara 2-4 aprile 1993

"Ambiente e conflitti sociali in Europa, tra Est e Ovest"

sintesi del (mancato) intervento di Alexander Langer, parlamentare europeo dei Verdi




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