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Adriano Sofri dialoga con Alexander Langer: Le liste verdi prima del calcio di rigore

4.5.1985, "Fine Secolo", 4 maggio 1985, Viaggiatore leggero 1996

Lo potrei presentare come il capo dei verdi, se non fosse che i verdi sono senza capo né coda. Si chiama Alexander Langer, ha 38 anni, è consigliere regionale a Bolzano.

Fa la spola per l'Europa da anni, prima come giornalista e militante della nuova sinistra, poi come corriere e studioso militante dei nuovi movimenti civili ed ecologici. Buon passista, a piedi e a nuoto, nel 1962 ("prima di Mao nello Yang Tze Kiang") attraversò il lago di Garda col fratello Martin: l'impresa fu segnalata dal quotidiano "l'Adige". Anche in politica ha mostrato una singolare tenuta di strada, non priva del resto di scatti. E' lui che ha fatto assaporare a Reinhold Messner le vertigini dell'impegno politico. Ha un viso di coniglio intelligente e affettuoso. E nato a Sterzing (Vipiteno) da genitori di lingua tedesca. Si parlava tedesco in casa sua.

Passare le linee

In casa si parlava tedesco, ma i miei mi hanno mandato, come i miei fratelli, in un asilo italiano. Poi scuole tedesche, il liceo dai francescani a Bolzano, e l'universita prima a Firenze, dove mi sono laureato in giurisprudenza, ma soprattutto ho conosciuto don Milani, poi a Bonn e a Trento, dove mi sono laureato in sociologia.

Persona di buoni studi, Alex. Il bilinguismo è poi il punto di partenza di una sua vocazione a "passare le linee", a scavalcare le frontiere, che comincia con il ciclostilato liceale "Parola aperta", continua negli anni '6o con una rivistina intitolata "Die Brücke, Il ponte", e arriva al periodico attuale vicino alla "Lista alternativa per l'altro Sudtirolo", che si chiama " Tandem": per pedalare bisogna essere almeno in due. Ai convegni della Lista alternativa, restavo sbigottito quando, all'esatta metà di una relazione, Alex cominciava, dopo un laconico avvertimento (uomo avvisato...) a parlare tedesco; e poi, al momento di tirare le conclusioni, esordiva in tedesco e finiva equanimemente in italiano. Rispetto per l'altro trasferito in abitudine e in cerimoniale, come si deve quando non ci si accontenta della buona volontà. Durante la campagna elettorale del 1983, Langer rivolse il suo appello al voto alla televisione locale per un terzo in tedesco, un terzo in italiano, e un terzo in ladino. Se ne e affascinati, come per gli auguri papali a Pasqua.

Ho imparato presto e naturalmente che conoscere più lingue era un gran vantaggio. Si sapeva fin dall'inizio che non tutti al mondo parlano allo stesso modo. Da piccoli giocavamo per strada a riconoscere a vista le persone di lingua italiana o tedesca, e poi le salutavamo per vedere se ci avevamo azzeccato. Era più facile, allora. Per me bambino, che avevo una famiglia borghese, in cui non si avvertivano gravi mancanze materiali, la tensione più percepibile era quella fra italiani e tedeschi. Allora essere tirolesi voleva dire davvero essere e sentirsi minoranza. Io prendevo ogni settimana il treno per Bolzano: era impossibile, anche per un ragazzino, anche per un contadino, ottenere un biglietto ferroviario parlando in tedesco.

Essere anche altrove

Alla visione distesa dei rapporti sociali dell'infanzia, succedette una forte identificazione con la comunità di lingua tedesca: erano gli anni allarmanti degli attentati e delle ingiustizie giudiziarie, tra il '55-56 e il '60-61. Il passaggio successivo fu la ricerca di interlocutori dall'altra parte, e una specie di ansiosa curiosità di vedere come andavano le cose altrove. Attraverso il movimento non violento conobbi dei quaccheri inglesi che viaggiavano a studiare le minoranze. Un caso esemplare era Cipro, nel pieno del movimento per l'indipendenza. Altri termini di paragone li trovavamo scritti sui muri: l'Algeria, il Congo. Cercavo, con altri, una linea

che mi consentisse di restar solidale con la mia comunità (o anche solo di non esserne rigettato) e insieme di non essere nemico dell'altra. Di non esaurirmi nell'identificazione con una fazione, una situazione di essere anche "altrove". Anche più tardi quando collaboravo con "Lotta Continua", e mi ero trasferito a Roma, ero contento di aver un altro lavoro, di insegnante, e un altro quartiere, lontano da Trastevere, di non essere sempre e solo li, come mi pareva che succedesse ad altri. Anche se magari li invidiavo perché erano "dentro" senza residui, giorno, sera, notte. Parlare più lingue e una condizione pratica e metaforica di questa possibilità di essere qui e altrove. Per dirla con Humboldt, si ètante volte uomini quante lingue (e dialetti) si conoscono; è una spinta a relativizzare, a cogliere le differenze, e, ancora meglio, a cogliere certe finezze, certe sfumature che non soffrono la traduzione. Dove c'è una vocazione plurilingue latente, si deve coltivarla con cura. Tanto più in un'Europa in cui si moltiplicano i rifugiati, gli immigrati...

Ahi, ahi

Abbiamo trovato cosi le radici di questa vocazione a gettare ponti. Vocazione "viennese". Quando nacque la Terza Internazionale, contro la Seconda, furono gli austriaci a tentare di gettare fra le due sponde un ponte di fortuna, quello che si chiamo sarcasticamente l'Internazionale Due e Mezzo. Qualche tempo prima, Musil aveva evocato nel suo "romanzo di un'educazione", il Törless, a proposito di numeri reali e immaginari, la singolare figura di un ponte che ha solo i piloni delle estremità e che, tuttavia, qualcuno attraversa come se fosse intero. Quali sono state le letture della tua educazione?

Le fiabe prima di tutto, il repertorio dei fratelli Grimm. Poi molti libri di avventure. Tieni conto che per i bambini di lingua tedesca, probabilmente per il ritardo e la esiguità del colonialismo tedesco, gli indiani hanno ragione e i bianchi hanno torto. Poi le saghe germaniche, naturalmente, i Nibelunghi. Lì trovavo un forte contrasto con i libri di avventura, in cui vince l'astuzia, mentre nelle saghe domina la fedeltà obbediente, lineare. Poi i classici, a cominciare da Schiller, che ai più giovani si addice meglio di Goethe. I primi italiani che ho letto sono stati Guareschi e Manzoni. Manzoni perché era obbligatorio a scuola, e anche perché mi interessava. Guareschi perché mi sembrava facile e divertente. La mia famiglia era laica, e mio padre era ebreo, anche se non praticante; da ragazzo io diventai una specie di cattolico autodidatta. Il primo libro moderno che lessi fu di Thomas Mann, I Buddenbrook. Fiero della mia buona conoscenza dell'italiano, e della stenografia, che avevo imparato, mi presentai un giorno, a 17 anni, nel periodo in cui ero avido di dottrine che permettessero di migliorare il mondo, al segretario della FGCI di Bolzano. Volevo intervistarlo per un giornaletto ciclostilato che redigevo nella scuola, con un gruppo di amici, in tedesco: si chiamava "Offenes Wort", Parola aperta, e abbreviato diventava OWe, che suona "ahi ahi", e non giovava alla causa. Nessuno ci censurava, ma con le tensioni di allora l'intervista a uno del PCI non andava senza scandalo. Ci andai pronto a qualche rivelazione. Bastava che mi esponesse una qualche teoria elementare capace di "aprirmi gli occhi", che so, che il mondo è diviso in classi, e non solo in tedeschi e italiani... Chissà che strada avrei preso. Invece niente. Non riuscii a capire che cosa facessero e volessero i comunisti, solo che facevano molti "attivi". Fu una delusione memorabile. Allora, l'unico ambito di collaborazione etnica era il mondo cattolico. Fin dal '64 feci parte di un gruppo misto tedesco- italiano. Era il periodo in cui si saltava in aria e ci si odiava.

Il censimento etnico

C'è un diffuso equivoco secondo cui la Lista alternativa per l'altro Sudtirolo (che nel 1983 ha ottenuto nella provincia 13.000 voti, il 4,6%, e nel capoluogo l'8%) e una capostipite delle liste ecologiche.

Infatti, non era essenzialmente ecologica all'inizio. L'esigenza iniziale era, per cosi dire, di non stare né con lo Stato italiano né con la Volkspartei, di scampare alla strettoia per cui o si era nemici dell'autonomia, nella versione dell'autonomismo della Volkspartei, o nemici della comunità italiana, nella versione del centralismo statale. Il culmine di questa lunga lotta per tutelare le identità e le diversità, senza farne un obbligo di appartenenza e di irreggimentazione, e stato il censimento etnico del 1981: una vicenda che si è conclusa burocraticamente, e malamente, un mese fa, con la decisione del pentapartito, sostenuta da PCI e Volkspartei, che dà agli obiettori etnici sei mesi di tempo per pentirsi. La decisione e arrivata una settimana prima della presentazione delle liste, per disinnescare la controversia sui candidati non registrati, che la legge sul censimento priva dei diritti politici. Allora furono ben 5000 persone, compreso Messner, a rifiutare di registrarsi. Con la proroga dei termini per pentirsi e previsto che i cosiddetti "misti", se hanno genitori dichiarati in gruppi diversi, possono non essere registrati fino a 14 anni, dai 14 ai 18 possono iscriversi, e con la maggiore età sono obbligati entro sei mesi ad assimilarsi a uno dei tre gruppi. Oltre alla coazione, è un iter senza senso, se si pensa che può capitare, come e successo a Edi Rabini, una delle persone più in vista dell'impegno per la convivenza, di cominciare a coltivare la propria identità bilingue quando si è già adulti.

L'adunata dei refrattari?

Torneremo poi all'uso che voi fate dell'esperienza dei "blocchi" in Alto Adige-Sudtirolo per affrontare il grande mondo. Ora possiamo venire alle liste verdi, che sono il frutto di stagione più ghiotto, e sono parecchi a volerne assaggiare. Puoi rifare sommariamente la storia che ha portato alla presentazione elettorale?

Ci provo, a partire da un elenco schematico delle varie "anime", e degli annessi corpi, che sono confluiti nella presentazione delle liste. C'è un'area che chiameremo della "lacuna di mercato". Dopo la dissoluzione della milizia politica di sinistra, alcuni si sono ritirati, altri hanno continuato appoggiandosi a quello che vedevano come il meno peggio. Qualcuno è diventato assessore alla cultura del PCI, qualcun altro fondatore di una lega di ciclisti democratici. Sono stato spesso interpellato da invidiatori di Trento o Bolzano, "dove si fa ancora qualcosa". L'impegno ecologico ha offerto sempre più a queste persone un nuovo contenuto e non in modo necessariamente strumentale. Altre persone ci sono che si sono destate alla politica nella seconda meta degli anni '70, magari invidiatori di chi aveva avuto il '68: alcuni di provenienza radicale. Cercavano anche loro la loro occasione. Altri senza storia politica precedente, ma da anni impegnati su temi ambientalistici, spesso influenti sulla loro stessa vita privata: agricoltori biologici, vegetariani, capitiniani, obiettori fiscali... Una parte di rilievo l'hanno avuta gli associazionisti, raccolti soprattutto, negli anni '81-85, nell'habitat della Lega Ambiente, bastevolmente apartitico e al tempo stesso dotato di un supporto di strutture organizzative, di competenze, di iniziative. Ma questo e vero anche per associazioni più tradizionali, come la Pro Natura, il WWF, che forse ha attratto il maggior numero di giovani, la LIPU, la Lega Anticaccia, gli Antivivisezionisti (quelli che si chiamano "gli animalisti"). Un'altra componente proviene da mestieri connessi con la problematica ecologica, le professioni "postmateriali", dei servizi sociali, della salute, handicap, scuola, animazioni varie, attività nell'ARCI, naturalmente, o nella ricerca universitaria. La lista di Palermo illustra ad abbondanza questo filone: non c'è un operaio, o comunque uno che cosi scelga di definirsi, e si va invece dall'apicultore alle docenti straniere, dall'informatico ai fisici, dalla giornalista a Vincino, dai cooperatori del legno a quelli del cuoio. L'attenzione alla difesa della natura e al limite dello sviluppo si era diffusa nella seconda meta degli anni '70, soprattutto grazie a gruppi come il Club di Roma, o le associazioni protezionistiche (Italia Nostra, il WWF, il CAI) di data più antica. La prima attenzione pubblica concreta e vasta fu legata a sciagure soprattutto Seveso. Ma occorre dire anche francamente che la questione e entrata davvero nella sinistra più per effetto delle percentuali elettorali riscosse dai verdi in Germania che non per Seveso e gli incendi di boschi e le cementificazioni misurate da Cederna.

Mi pare però che nella sensibilità comune un'evoluzione rilevante fosse già avvenuta indipendentemente dalla conversione politica ai temi ecologici, e che non ne sia stata assimilata. Quando esce "Airone", e siamo già nel 1981, c'è un terreno sorprendentemente misconosciuto.

E' vero: io mi riferivo alla sinistra. Per quell'intero periodo grosso modo, dalla fine degli anni '70 si potrebbero ricostruire diverse "storie parallele" della coscienza ecologica. Per l'opinione della gente basta pensare ai divieti di fare il bagno in mare. Oggi e sostanzialmente vero che la sensibilità ambientale diffusa fra la gente e superiore a quella che e diventata politica. Ma se, contro la luce certo deformante della campagna elettorale, si guarda la precipitosa "verdizzazione" di tutti i partiti, se ne ricava la conclusione opposta. La differenza e notevole perfino rispetto alle europee di un anno fa. Questa ipertrofia verde e largamente dovuta alla presentazione delle liste verdi. Nelle europee non c'erano liste verdi, bensì solo candidati verdi inseriti in liste per essere trombati.

La stessa "nuova sinistra" non era particolarmente favorita nella corsa alla conquista di una consapevolezza ecologica, mi pare.

Infatti. Ricordo che nel I975, allora ero in Germania, a Francoforte, mi consigliarono di andare a Wyhl, vicino a Basilea, a vedere i vignaioli in lotta contro l'installazione di una centrale atomica importante (c'è ancora, e la mobilitazione ha coinvolto in questi anni i tre stati limitrofi, Germania, Svizzera, e Francia). Ci andai, e in un articolo per "Lotta Continua" razionalizzavo a mio modo la situazione descrivendo la rassicurante presenza di giovani militanti che fornivano alla rabbia dei contadini attaccati solo ai loro vigneti le opportune tattiche sovversive. La conclusione che allora ne tiravo era che una parte della sinistra tedesca, troppo debole per affrontare il nemico di oggi, si attrezzava ad affrontare il nemico di domani. Nell'Italia "avanzata" si poteva agire sul breve periodo, nella Germania integrata si ripiegava sul futuro. Un giudizio analogo lo ripetei ancora nel 1978, quando ormai in Germania le manifestazioni antinucleari erano diventate imponenti.

Nel '68, nella riscoperta del proletariato contro l' "uomo " interclassista, c'era poca voglia di perder tempo con la difesa della natura. L'ecologia era una sciocchezza fanfaniana, un nuovo modo per convincere che "siamo tutti sulla stessa barca"; cosi come la demografia e i suoi avvertimenti erano un trucco "per far nascere meno cinesi", come diceva una canzone spiritosa. C'era bensì una frase in un opuscolo di Dutschke, che parlava del riscatto della dignità degli uomini e degli animali.

L'ultima volta che ho visto Dutschke e stato nel I978, a Francoforte. Era già convinto che la sinistra e il movimento verde dovessero incontrarsi. La sua morte ha privato quell'incontro di un'autorità eccezionale, ha costretto i verdi a riscoprire, in politica, l'acqua calda. Dutschke fu il primo interlocutore del neo-arrivato Bahro nella RFT. E Dutschke aveva dovuto reimparare tutto, faticosamente...

E' vero, è commovente e perturbante questa sua condanna a ricominciare da zero, per effetto dell'attentato: forse anche perché è l'esempio nobilmente tragico di quella riconversione di identità più prosaicamente modesta, e non cara agli dei, di tanti altri militanti di un tempo. Vivi e vegeti, e semplicemente un po' invecchiati, a casa propria o nelle liste verdi. Tuttavia resta il fatto che la coscienza ecologica e una "coscienza pentita": a differenza della innocente coscienza omicida del progressismo (ammesso che innocente sia mai stata) il suo punto d'arrivo e la convinzione di una ferita gravissima e presto irreparabile inferta dagli uomini alla vita della terra. Ridotto altrove a merce di scambio giudiziario o fatto fruttare da piagnoni e professionisti del senso di colpa, il "pentitismo" è invece in questo senso una fondamentale condizione di conoscenza. Fra l'altro, questo può permettere di uscire dall'alternativa fra non essere più qualcosa o esserlo ancora, e fa di quello che si e stati una premessa necessaria e feconda di quello che si può e si vuole essere. Può non essere importante dichiararsi oggi "di sinistra", ma e molto rilevante esserlo stati, e come lo si e stati. Questa differenza non è messa in causa da nessuna diserzione e da nessuna conciliazione. Al termine "pentito" non rinuncerei volentieri: mi pare che denoti un di più di esperienza intima che manca alla civiltà, come si dice essere quella cinese, che sostituiscono alla colpa la vergogna, e la sua manifestazione pubblica. Una morale pentita non può essere "economicista", non può ridursi alla pura correzione dell'"errore": non è vero che smetto di cacciare, o di giocare con la bomba atomica, perché mi rendo conto di star segando il ramo su cui sono seduto. Piuttosto, mi manca l'aria per l'aria inquinata, ho l'anima pesante per un cielo senza voli, non sopporto la vista dell'albero col ramo segato... E anche una morale incline alla ritirata dal mondo: ma questo può essere un riparo positivo alla foga rinnovata del convertito. Aggiungerei anche che la rinuncia a definirsi ancora di preferenza secondo la terminologia di "destra e sinistra", comporta la rinuncia a un connesso feticcio politico, l'alternativa governo-opposizione. Invece che di un significato politico o tecnico, questa alternativa e stata caricata, peraltro comprensibilmente, di un valore morale di fondo: l'opposizione e bene, il governo e male; salvo quando sia il governo delle sinistre. Tant'è vero che il governo delle sinistre è, prima che un programma, uno stato d'animo, ed è lo stato d'animo a entrare in crisi prima che si constati l'inadempienza tecnica del programma. C'è il rischio che il nuovo progressismo elettronico rilanci le magnifiche sorti non solo senza sensi di colpa ma neanche di storia. Alla fiera del futuro di Tsukuba la televisione tridimensionale che fra poco sarà nelle nostre case e stata presentata al pubblico con una proiezione che ripeteva tal quale l'effetto celebre dell'arrivo della locomotiva dei fratelli Lumiere, quando gli spettatori spaventati si buttavano sotto le sedie: questa volta, a dare il senso della terza dimensione e dell'uscita dallo schermo, c'era un albero secolare tagliato che si abbatteva sullo spettatore. Extra tecnologiam nulla salus: ma occorre proiettare all'indietro quella scena.

La pretenziosità ideologica è un rischio del movimento verde; la nozione della tabula rasa e un altro rischio. La frase iniziale del programma dei verdi tedeschi suona: "Noi siamo l'alternativa a tutti i partiti tradizionali". Ci si sente un po' l'animo di chi scende dall'arca dopo il diluvio. C'è molto assolutismo ideologico, molta semplificazione astorica. Perfino la ricerca di un modello economico ne risente fortemente. Ci sono verdi in Europa che assegnano alla biologia rispetto alla politica il posto che un tempo si assegnava alla teologia; o che pensano a una politica deducibile dal secondo principio della termodinamica. In Germania c'è l'espressione "ripristinare il circuito ecologico", "ökologischer Kreislauf", che segnala l'illusione che sia esistita prima la natura e poi la cultura, e che si possa comprare un biglietto di ritorno.

Continuità e rottura

Io uso a proposito della questione dei rapporti fra sinistra e verde un paragone che ti sembrerà strano, ma e efficace, col rapporto fra Vecchio e Nuovo Testamento, come e visto dai cristiani: c'è la continuità, le profezie incompiute, le speranze di liberazione, ma poi e solo nel Nuovo Testamento che si compiono, e attraverso una rottura. Chi, prima di san Paolo, pretendeva che il compimento passasse attraverso la cruna d'ago dell'ebraismo, della sua precettistica e delle sue regole, avrebbe costretto il cristianesimo a restare una magari nobile setta dell'ebraismo.

Il paragone e buono, ma in questo caso sei tu a sopravvalutare la discendenza della Buona Novella ecologista dalla Scrittura della sinistra, sia pur negata e superata: si potrebbe sostenere che la conservazione della natura sia più legittimamente filiata dalla conservazione filosofica, dall'attaccamento alla continuità e dalla diffidenza per la rottura, prediletta viceversa dai rivoluzionisti.

Nell'Europa, almeno dal 1848 in poi, i conservatori che hanno contato hanno mostrato di tenere soltanto alla conservazione del loro potere.

Confini statali, e uccelli migratori

Ora vorrei chiederti come sta ano come te, esperto di identità particolari e di minoranze etniche e politiche, in un movimento la cui vera novità di fondo è l'orizzonte planetario, e l'estraneità, quando non la contraddizione, a ogni identità parziale e intermedia. Voglio dire che anche il socialismo rivoluzionario era internazionalista, ma di un internazionalismo in cui una parte, il proletariato, veniva contrapposta a un'altra parte, la nazione. Anzi, il socialismo muoveva proprio dal rifiuto dell'"uomo" in nome della divisione fra sfruttatore e sfruttato. II socialismo vede nella parte, e nell'associazione collettiva, un valore politico e prima ancora morale: un superamento dell'individuo isolato e dell'umanità astratta e indifferenziata. Il culto e il feticismo della dimensione collettiva sono la sostanza del socialismo (che, in questo, continua e perfeziona la democrazia borghese): il collettivo e il passaggio necessario della scalata al cielo della sinistra. La coscienza può essere oggettivamente universale solo in quanto e soggettivamente parziale la parte poi può variare, la classe operaia, il Terzo mondo, sia pure in modo diverso le donne... Strane oggi combinazioni morali fra egoismo "pagano" della classe operaia e liberazione del genere umano, fra verità di partito e verità tout court, venivano autorizzate dall'assimilazione fra collettivo e morale. Il genere umano apparteneva alla storia naturale, nella storia umana si facevano a pezzi gli uomini in carne e ossa. Alla nostra generazione e toccato di vedersi drammaticamente ravvicinare, prima a Hiroshima, poi con la degradazione ecologica, due termini cosi distanti come la morte dei singoli e l'estinzione della specie. E quest'ultima si e vista sottratta alla sfera remota della storia naturale, della storia che non e fatta dagli uomini, per entrare nell'ordine della storia umana. Tutte le categorie della politica, tutte le costruzioni della storia come storia di lotte fra uomini, sono incapaci di pensare una simile situazione. L'hanno pensata i poeti, Leopardi. In questa situazione l'uomo e restituito da una parte alla solitudine e alla responsabilità assolutamente personale, dall'altra e spinto all'identificazione senza mediazioni e alla possibile solidarietà con l'intero genere umano, con le sue generazioni future (e passate), con la sorte della vita della terra. Città, stati, classi, non lo aiutano ad affrontare questo orizzonte, e viceversa spesso e fortemente lo impacciano, come chiusure, nazionalismi, corporativismi, fanatismi. Niente di meglio ha elaborato il diritto internazionale della sovranità fondata sull'esistenza di stati nazionali, e niente di meglio ha elaborato la politica statale della democrazia liberale: tuttavia che cosa possono gli stati e le loro sovranità e le loro frontiere, sullo sfruttamento dell'alto mare, o del cielo; come possono maneggiare la chiazza di petrolio che muove dalla guerra del Golfo e naviga fino ai nostri mari più distanti; o la ripetuta minaccia di governanti iraniani pronti a chiudere lo stretto di Ormuz, "dovesse pure scoppiare la terza guerra mondiale"; o la sorte degli orsi bianchi vagabondi che fanno decine di chilometri al giorno senza arrestarsi davanti ai confini non segnati fra stati che li proteggono alcuni, li massacrano altri; le piogge acide contrabbandate dal vento oltre le frontiere; l'ossigeno dell'Amazzonia che fa da riserva al mondo intero, ma dipende da un governo un cui ministro, pochi anni fa, disse (e la sua follia non era priva di logica): "Potranno parlare del nostro ossigeno quando ce lo compreranno a un tanto al barile, come il petrolio"?

Naturalmente il problema è troppo grande, e si può solo descriverlo con maggiore approssimazione. E quel

concetto che nel diritto internazionale si chiama "patrimonio, retaggio dell'umanità". Sommariamente, due tendenze estreme si esprimono nei confronti di questa situazione: quella a un "governo del mondo" centralizzato, a una nuova aggressività "buona", una polizia planetaria capace almeno di tenere a bada i più minacciosi capiscarichi; e quella a una deescalation verso dimensioni più ravvicinate e controllabili. "Ripristinare la bioregione", non rinunciare alla complessità, trovare una dimensione abbastanza complessa da non ridursi a un pezzo di Menenio Agrippa, e al tempo stesso controllabile, e di capacità di danni limitata. I veneziani hanno disboscato la Val Venosta per farne navi ma non hanno potuto distruggere molto più della Val Venosta. Dobbiamo ammettere nei confronti di tutti i socialismi che nessun esperimento collettivistico ha fatto buona prova di sè, se non in esperienze volontarie, o strettamente limitate nel tempo dai conventi ai kibbuz. Io sento, e ciascuno di noi probabilmente sente, che non ce la farei a vivere in una di quelle utopie che a volte noi stessi propaghiamo: i nostri stessi scacchi sono forse uno scampato pericolo. Possiamo chiamare "realismo" lo spazio fra un discorso limite e una situazione data. Il caso principale e il rapporto fra pacifismo e trattativa politico-diplomatica. Anche qui proverei a ricavare dalla circoscritta esperienza dei "blocchi etnici" poche e modeste regolette. La prima, che c'è bisogno dal basso, dai ranghi, di molti traditori del proprio blocco che non passino dall'altra parte, non diventino semplicemente dei transfughi. Questi "disertori" devono poter contare su loro omologhi nell'altro blocco perché il loro credito cresca, e perché la loro maturazione sia reciproca. A un certo punto diventa possibile associarsi, arrivare a un grado molto alto di integrazione e di efficacia congiunta ma alla condizione di aver conservato un'appartenenza. Per fare una pace bisogna che qualcuno, senza dover essere un eroe, dimostri che è possibile, e che in qualche modo ne sperimenti in anticipo le condizioni, passi attraverso il ponte che si e sforzato di gettare fra le due parti. E si può anche azzardare una certa asimmetria.

Per quella sinistra cui anche noi abbiamo appartenuto, la riflessione sul rapporto con la natura e sul pacifismo era connessa alla riflessione sulla violenza politica. Di fronte alla scalata del terrorismo, alla fine degli anni '70, molti ex militanti rivoluzionari sono rimasti cosi sconcertati da passare, per cosi dire, dai fatti alle parole. Inabilitati dal loro vocabolario a ripudiare del tutto fatti ripugnanti, li hanno rincorsi verbalmente: non si trattava infatti di rinnegare i fatti, ma il vocabolario. E' anche per questo, credo, che l'ecologismo proveniente da sinistra può avere ora da noi una estraneità profonda alle incursioni dei lupi travestiti da agnelli che quacuno ha paventato, e che vengono sospettate nei movimenti pacifisti dell'Europa del nord.

Il problema è spostato più in là

Non ho un altissimo apprezzamento del pacifismo inglese. La guerra delle Falkland-Malvine ne è stata una misura eloquente. In quei giorni c'era una grande manifestazione antinucleare e nessuna iniziativa sulla guerra. In generale, sul pacifismo, è vero che è in parte viziato da un'ipoteca di schieramento degli anni '50, di unilateralità. Ma è vero anche che c'è uno stretto parallelismo fra la logica espansionista distruttrice dell'ambiente e la spinta agli armamenti. La posizione che pretende alla ragionevolezza e tutta interna a una spirale; come nella dinamica economica, concorrenza e competizione spingono all'espansione, e tutto funziona finché il rilancio sposta in là la resa dei conti. E' vero per tutto, questo "spostare più in la", dallo scarico dei rifiuti alla guerra, alla desertificazione, alla monocultura. In ciascuno di questi casi, se non si vuole arrivare alla distruzione occorre una forte spinta opposta all'autolimitazione. Certo, dovrebbe essere bilanciata. Nessuno può da solo smettere la produzione, per se stesso e per lo squilibrio che ne verrebbe al sistema intero: ma non c'è altra strada che cominciare. Con gli armamenti, come con l'astinenza dalla droga pesante: una terapia scalare, cominci a fare dei passi indietro, sulle armi, sulla velocità delle automobili, e li fai anche se non c'è ancora nessuno dall'altra parte che li fa. Se c'è, meglio.

La sproporzione fra quello che si dovrebbe fare e quello che si può fare è cattiva consigliera; perché dovrei proprio io, in questo punto del bosco in cui nessuno mi vede, evitare di buttar via il mio sacchetto di plastica? Se si dovesse raffigurare esemplarmente l'uomo del nostro tempo, un'immagine emblematica come il discobolo di Mirone, bisognerebbe scegliere il gesto dell'uomo che getta, che butta via. Qualcosa. Qualunque cosa.

I comportamenti del singolo sono postulati come le condizioni di qualunque rivendicazione più ampia: la plastica buttata, il consumo dell'auto, le abitudini alimentari. Una delle qualità migliori delle battaglie radicali e dei movimenti civici in altri paesi sta proprio nella proposizione di "una cosa da fare". A me piace molto anche l'idea di Schmidt, di sospendere per un giorno alla settimana le emissioni televisive.

Come l'allegria imprevista delle domeniche petrolifere a piedi…

Ma sono tutte considerazioni che non possono rimuovere il problema del pacifismo. Il pacifismo antinucleare può spesso somigliare a un intergruppi, a un interpartiti, ma ha anche seriamente a che fare con la scoperta del limite. Dove sono andati oltre la contesa per la rappresentanza politica, I comitati pacifisti hanno anche portato a scelte di idealità, di spiritualità, se si può dire, diversa. A particolari cose, prima e oltre che rivendicarne altre.

L'esperienza che ricordavi delle Falkland-Malvine fa pensare se il pacifismol non sostituisca con l'ansia e l'attivismo contro "la guerra" la capacità di occuparsi concretamente e efficacemente "delle guerre". Forse dovrebbe succedere il contrario, e non perché "le guerre" attuali siano un allenamento nei confronti "della guerra" potenziale, ma perché sono la guerra.

Anzi, questo suggerisce un'altra regoletta: che conviene augurare a tutti di avere un banco di prova fatto di nemici concreti, e che possa approdare allo scioglimento concreto dell'inimicizia. Ai gruppi pacifisti farebbe bene confrontarsi con conflitti più limitati ma con più effettive possibilità di intervento. Il Libano, Cipro, l'Irlanda, Gibilterra... e sono già situazioni fin troppo grandi.

Questa storia della guerra e delle guerre mi fa venire in mente san Francesco, ricomparso come un leader carismatico sugli striscioni dei verdi tedeschi: san Francesco e i suoi erano specializzati nelle "paci": non tanto nel predicar la pace, quanto nel metter pace, con mezzi di fantasia e di fortuna, nelle contese concrete.

C'è un esempio che ho visto per la prima volta nell'estate 1983 a Berlino; i manifestanti lanciavano palloncini oltre il muro, con attaccato un "Trattato personale di pace": "Io sottoscritto... intendo concludere con..." ecc.. Scrivere nome e indirizzo e rispedire di qua. Nella "catena umana" fondata sul principio di attraversare il confine del blocco, un aspetto essenziale e che a nessuno resta una mano libera per tener su bandiere, per tirare pietre, o che so io.

Questa si che è una regressione nel cammino dell'evoluzione: la stazione eretta libero le mani dell'uomo dalla locomozione, consentì loro di portare il cibo alla bocca, di impugnare selci appuntite, di suonare il violino e di premere pulsanti di missili, fino a che gli uomini tornarono a starsene buoni con le mani in mano… e vissero felici e contenti.

E' il momento di concludere, ora. Tornando alle liste verdi.

Nelle liste verdi la sproporzione e forte, e sentita, fra la grandezza di un'intuizione e la sua incarnazione in liste e candidati. "Nei prossimi 15 anni si decide la sorte delle future generazioni" lo si può dire per diventare consigliere comunale, ma è anche vero, per la prima volta. Battersi perché la temperatura del mare non aumenti di 1 o 2 gradi fino a conseguenze irreversibili con quali forze? C'è un abisso. Ma, beninteso, non un abisso maggiore di quello fra i sogni della I Internazionale, e le persone che si riunivano in una stanzetta per fondarla.

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