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Terapia d'urto

1.1.1987, MicroMega n. 1
Il "pacchetto" era in fondo pensato dai suoi ideatori (fortemente segnati dall'impronta di Moro) come una sorta di concordato tra la minoranza tirolese, rappresentata compattamente dalla Südtiroler Volkspartei (SVP), e lo Stato italiano, che accettava di riconoscere un interlocutore monolitico e istituzionalizzato, ed al quale finiva per giustapporre il "gruppo etnico italiano":

La comunità dei neo-altoatesini di lingua italiana, composita popolazione delle più diverse provenienze, fino a quel momento identificata soprattutto come propagine della presenza statuale italiana, ed ora destinata a diventare, per legge prima che di fatto, "gruppo etnico" (o, più pudicamente, "linguistico") in un ordinamento politico e giuridico incardinato interamente sulla dialettica tra gruppi etnico-linguistici istituzionalizzati e per, l'appunto, corporativizzati.

Non conta il singolo cittadino, ma il cittadino in quanto appartenente a questo o quel gruppo linguistico. Il rappoto inter-etnico, più che avvenire tra la gente che convive nella stessa regione e forse nello stesso condominio, diventava un confronto tra gruppi linguistici come tali, con i loro capi, con il dialogo consentito ed in certa misura obbligato, ma concentrato al vertice, mentre la comunità civile vedeva approfondirsi il solco politico, ideologico e persino materiale tra i gruppi linguistici.

Forse tutto questo non stava scritto nella culla del "pacchetto". Magari se subito dopo la conclusione dell'accordo si fossero, da entrambe le parti, investite le migliori energie per promuovere una cultura della convivenza, per incoraggiare il disarmo anche psicologico dopo la lunga fase di tensione e per incentivare forme di iniziativa e di organizzazione sociale inter-etnica, trasversale rispetto alla logica bloccata di due gruppi contrapposti, le cose sarebbero potute andare diversamente.

Fatto sta che così non è avvenuto, anche per la scarsa preparazione e volontà dei gruppi dominanti dell'una e dell'altra parte (entrambi democratico-cattolici, ufficialmente, ma in realtà fortemente condizionati dalle precedenti esperienze naziste e fasciste delle rispettive comunità). Così si sono sprecati gli anni in cui gli avvenimenti avrebbero potuto prendere una piega diversa: gli anni Settanta, essenzialmente, quando il riequilibrio tra il gruppo tirolese, uscito dall'emarginazione e tornato a svolgere il suo ruolo di "maggioranza locale", ed il gruppo italiano, non ancora abituato a giocare la partita a Bolzano invece che a Trento o a Roma, si stava gradualmente realizzando, e quando da parte degli altoatesini di lingua italiana era piuttosto diffusa l'accettazione della nuova situazione, vissuta anche come occasione di un radicamento in proprio, non in nome e per conto dello Stato. Cresceva la disponibilità ad imparare il tedesco, a familiarizzarsi con i luoghi ed i costumi, ad intrecciare rapporti e cooperazione anche "senza rete", senza cioè continuare a viversi come avamposto di italianità o di presenza statuale.

2.
Quell'opportunità è stata fondamentalmente rovinata, ed invece di costruire o comunque non reprimere una base sociale di massa per la nuova autonomia basata sulla compresenza di più gruppi etnico-linguistici e sulla valorizzazione dell'appartenenza ad un'unica comunità locale, seppure distinta in diversi gruppi linguistici, si è cominciato a far funzionare un vero e proprio laboratorio della separazione etnica. Soprattutto l'accordo fra DC e SVP, subalternamente appoggiato dai socialisti - e in modo più defilato - dai comunisti, ha portato all'elaborazione e al perfezionamento di un'organizzazione sociale e politica in due comunità parallele e praticamente prive di interazione reciproca, salvo nelle occasioni e nelle forme comandate.

La sistematica logica della spartizione etnica ha istituito una sorta di permanente tiro alla fune tra i gruppi linguistici, i cui appartenenti vengono a beneficiare o a soffrire della forza o della debolezza numerica del proprio gruppo: le assunzioni pubbliche, l'assegnazione di alloggi, il finanziamento di attività culturali o sportive o ricreative, la rappresentanza politica: tutto diventa funzione della consistenza del gruppo linguistico. Non c'è da meravigliarsi quindi che negli anni che avrebbero dovuto e potuto portare alla costruzione di una comunità plurilingue, si è invece approfondita e talvolta radicata ex novo la divisione in tutti gli ambiti sociali: dallo sport alla cultura, dal sindacalismo alla vita associativa ecclesiastica, dalle formazioni politiche (facendo naufragare le sperimentazioni inter-etniche del Psi prima e del Pci poi) alle stesse organizzazioni imprenditoriali.

Tutto questo non può nel clima di emergenza e di autodifesa di una minoranza etnica effettivamente assediata e minacciata, ma secondo quel terribile criterio-guida che è stato esplicitamente formulato in seno alla SVP in questi termini: "Più nettamente ci dividiamo, meglio ci comprenderemo". Un motto che nella più benevola delle accezioni intendeva salvaguardare i tirolesi dall'assimilazione e dalla "pacifica" perdita di identità, ma che in realtà era ed è un vero e proprio programma di sviluppo separato.

3.
Il processo di costruzione delle due società separate per linee etniche è andato avanti soprattutto nella seconda metà degli anni Settanta, attraverso l'emanazione di norme (statali e locali) apposite, ma soprattutto attraverso un complesso di misure culturali, sociali, economiche, amministrative accompagnato dall'affermazione di un'ideologia sempre più netta. Il momento culminante di questa involuzione è stato il censimento etnico del 1981 (in occasione del censimento generale della popolazione), quando tutti i cittadini residenti sono stati obbligati - con esplicito avallo del parlamento italiano, e con voto favorevole che ha visto ricostruirsi, nell'ottobre 1981, l'amplissima maggioranza dell' "arco costituzionale"! - a firmare una dichiarazione individuale e nominativa di appartenenza ad uno dei tre gruppi linguistici ammessi ufficialmente (italiano, tedesco, ladino): una specie di tessera etnica, diventata poi rapidamente il presupposto decisivo per accedere al pubblico impiego, essere ammessi al cosiddetto esame di bilinguismo (a sua volta indispensabile per svolgere mansioni pubbliche), ricevere qualunque tipo di agevolazioni edilizie, beneficiare di borse di studio, candidarsi ad elezioni, e così via. È in corso in definizione di ulteriori norme (statali, beninteso!) che vorrebbero legare alla dichiarazione di appartenenza linguistica anche l'uso ufficiale ed obbligatorio della lingua - italiana o tedesca - nei confronti delle autorità amministrative e giudiziarie e l'iscrizione nelle scuole (tedesche o italiane).

L'accanimento con cui si è voluto realizzare questo vero e proprio catasto etnico, ricorrendo a pesanti sanzioni (perdita di diritti, di impieghi, di agevolazioni, eccetera) per i renitenti, ha dimostrato quale rilevanza decisiva fosse attribuita nel sistema della separazione istituzionalizzata all'atto di incardinamento ufficiale ed univoco di ogni cittadino nella sua "gabbia etnica". Ed infatti la lotta contro le "gabbie etniche", condotta da migliaia di cittadini con lo slogan "no alle nuove opzioni" (richiamando l'infelice opzione imposta nel 1939 ai sudtirolesi per scegliere tra nazismo e fascismo), è stato il punto più alto dello scontro tra una prospettiva inter-etnica e di convivenza, da un lato, e l'accettazione (entusiastica o passiva) dell'ordine etnico imposto dal regime Svp con la benedizione e l'appoggio del governo e del parlamento della Repubblica, dall'altro. Inutile dire che le forze (minoritarie) di quell' "altro Sudtirolo" che immagina e pratica la convivenza oltre i blocchi etnici è stata sconfitta, malgrado abbia fatto vacillare - per la prima volta ed in profondità - la credibilità del "pacchetto", contestandolo da posizioni democratiche e riuscendo ad aggregare interessanti consensi in Italia, in Austria, in Germania.

È maturata, dunque, nonstante l'ampio fronte politico e sociale schierato in difesa dello "sviluppo separato", una posizione alternativa, che dal 1978 in poi (prima con la Neue Linke/Nuova sinistra e poi con la più ampia Lista alternativa/Anderes Südtirol) ha trovato anche espressione e rappresentanza politica, rimanendo oggi di fatto l'unica aggregazione politica plurilingue. Ma anche in altri ambiti, come nel sindacalismo conferderale o in certi settori della Chiesa locale o in alcuni ambiti della vita culturale e sociale si sono sviluppate esperienze - sempre minacciate dalla logica del richiamo etnico e spesso boicottate ed isolate - di cooperazione e di vera e propria organizzazione interetnica, pur evitando in genere lo scontro esplicito ed aperto con il quadro etnico-politico.

Si può dire che contemporaneamente ed in contrapposizione al perfezionamento del disegno di sviluppo separato, si sono radicate ed estese esperienze di convivenza che vanno decisamente oltre la logica restrittiva in cui si è chiusa l'attuazione del "pacchetto" sudtirolese: esperienze che dimostrano la compatibilità tra la valorizzazione della propria identità etnico-linguistica e la cooperazione tra persone e gruppi di lingua e cultura diversa, senza che questo debba portare all'assimilazione o alla cancellazione di nessuno.

4.
Accanto alla posizione che potremmo definire di "superamento in avanti" del "pacchetto" sudtirolese, si è poi sviluppata, soprattutto a partire dalla fine degli anni Settanta, una contestazione di ben altro segno, maturata all'interno sia del gruppo tirolese che di quello italiano, sfociata nell'attuale impasse. Da parte tedesca, dove questi posizioni sono emerse prima in ordine di tempo, gli "anti-pacchetto" giudicano la soluzione autonomistica rinunciataria ed insufficiente. Ma non si tratta soltanto di quelle minoranze politiche che invocano l'autodecisione come unica soluzione netta e democratica (portavoce ne è l'Heimatbund, la lega patriotica) o che magari ricorrono anche a dimostrazioni violente di intolleranza etnica, bensì di tentazioni che erano e sono fortemente presenti nella stessa Svp.

Soprattutto a cavallo tra gli anni Settanta ed Ottanta, anche con riferimento alla Bavaria di Strauss, nella Svp si è organizzata una vasta corrente di destra sociale e di forzature anti-italiane assai più influenti ed efficace di quanto non possano essere le frange a margine del potere politico. Oggi quella corrente (definitasi Mittelstand, ceto medio) come tale è dissolta, ma le sue posizioni sul "pacchetto" sono diventate patrimonio comune del partito. Esse si possono riassumere così: spremere dal nuovo ordinamento autonomistico tutto quello che si può ricavarvi, e poi non dichiararsene soddisfatti per riaprire la vertenza da più consolidate posizioni di forza. Lo stesso padre del "pacchetto" Sylvius Magnago non sa indicare oggi una plausibile strategia di chiusura della fase vertenziale della questione sudtirolese che dovrebbe - secondo gli accordi - concludersi con una concatenazione tra emanazione di tutte le residue norme mancanti (a carico del governo italiano), dichiarazione di soddisfazione (da parte della Svp), favorevole presa d'atto e rilascio della cosiddetta quietanza liberatoria (da parte dell'Austria, con conseguente estinzione del contenzioso internazionale pendente davanti all'Onu).

Il rafforzarsi di ambizioni massimaliste nella Svp e la speranza che il gioco al rialzo alla fine paghi sono stati indubbiamente incoraggiate all'avallo che il governo italiano ha finora dato alla linea della separazione etnica istituzionalizzata. Allo stesso tempo tutto ciò ha contribuito a far emergere una sempre più netta disaffezione verso il "pacchetto" da parte della comunità altoatesina di lingua italiana.

La quale, a sua volta, si vede come sacrificata sull'altare del concordato tra Svp e Stato, abbandonata ad un processo di progressivo indebolimento numerico, economico, politico e sociale (le cifre del censimento, per quanto solo parzialmente attendibili, vedono il gruppo italiano calato di un decimo del decennio 1971-1981, attestato oggi sul 29 per cento, contro un 66 per cento del gruppo tedesco ed un 4 per cento di ladini). Ne derivano numerose frustrazioni e risentimenti. L'assenza di una prospettiva democratica e di coinvolgimento positivo del gruppo italiano nella costruzione di un progetto comune a tutta la popolazione locale ha contribuito a spingere l'elettorato italiano dell'Alto Adige verso posizioni sempre più nettamente ostili al "pacchetto". Clamoroso il voto del 12 maggio 1985, quando al Comune di Bolzano il Msi è diventato partito di maggioranza relativa (quasi il 23 per cento). Per i neofascisti ha votato un "italiano" su tre della città capoluogo.

Il fatto che da qualche anno si registrino anche attentati antitirolesi (presumibilmente "italiani") indica una nuova e pericolosa qualità del conflitto etnico. Se negli anni Sessanta si trattava fondamentalmente di uno scontro tra una minoranza etnica e lo Stato, oggi tende a diventare sempre più marcatamente un conflitto inter-comunitario, con una valenza incredibilmente più pericolosa in quanto può coinvolgere nel profondo i sentimenti dei due gruppi contendenti e generare ostilità ed incompatibilità, anche senza arrivare necessariamente alla violenza.

5.
Non sono solo questi segnali politici che indicano una crisi del "pacchetto". Tra i giovani, ad esempio, si nota una significativa divergenza di attenzioni e sensibilità, a secondo del gruppo linguistico. Gli italiani si concentrano sulle difficoltà (talvolta anche esagerate e gonfiate artificiosamente) di inserimento nella nuova situazione autonomistica. Essi sono alle prese con la necessità di diventare bilingue. Ed essendo "proporzionalmente" ridotto alla spazio riservato alla comunità italiana, essi sono chiamati a pagare il prezzo di una (spesso tardiva) "riparazione" dei torti che il fascismo ed i governi repubblicani hanno inflitto al gruppo tirolese, senza sentirsene - ovviamente - responsabili.

Nella comunità tirolese, viceversa, i giovani tendono a vivere come naturale e dovuta una situazione che oggi li rende beneficiari di questo raggiustamento, e possono occuparsi d'altro (ecologia, modernizzazione, eccetera), tanto da non capire perchè gli italiani se la prendono tanto. L'assenza di rapporti e di momenti d'incontro e di azione comune ha fatto aumentare la forbice tra le due comunità, ed oggi tra i giovani è diventato più difficile tessere quella rete di solidarietà inter-etnica che in anni non lontani era l'aspirazione scontata - ma osteggiata - e maggioritaria tra i giovani soprattutto di lingua italiana.

Per fortuna tutto ciò avviene oggi in una cornice di relativo benessere economico, con indici molto bassi di disoccupazione, altrimenti sarebbe facile immaginare gli effetti dirompenti di una crisi sociale vissuta in chiave di contrasto etnico! C'è dunque da chiedersi se la soluzione concordata nel 1969 per la questione sudtirolese sia fallita, o se vi siano spazi di recupero e di rilancio.

Facendo un sommario bilancio dei risultati si potrebbero annoverare fra i fattori positivi: un effettivo consolidamento del gruppo tirolese che doveva essere oggetto di tutela e promozione; un incremento sensibile della quantità e della qualità dell'autogoverno locale (che in certi campi ha dato anche buona prova di sé, nonostante il basso tasto di democraticità), con conseguenti effetti benefici sull'economia locale; una vasta gamma di opportunità sociali, culturali, economiche alla portata di buona parte dei cittadini di ogni gruppo linguistico della provincia autonoma.

Ma è curioso notare come molti degli ulteriori possibili effetti positivi siano rimasti allo stadio puramente potentiale: la conciliazione tra avanzata tutela linguistica e buona convivenza, l'incentivazione di un bilinguismo di massa e di una comunità plurietnica con forti valenze europee, l'ampliamento delle opportunità democratiche e dei diritti civili, l'assunzione di un ruolo propositivo nel concerto delle autonomie in Italia e delle regioni in Europa, la funzione di ponte tra area linguistica tedesca ed italiana, e tante altre chances della situazione sudtirolese sono comprese da alcune pesanti ipoteche che rischiano di far naufragare l'intera esperienza se non vengono sollecitamente affrontare e rimosse.

Tra queste ricordiamo non solo la forsennata politica di separazione etnica, con scivolamenti verso l'intolleranza e il razzismo, e la latente tentazione della violenza. Ma anche l'iper-regolamentazione di ogni aspetto della convivenza etnica e sociale, o il ricorrente riaffiorare del centralismo statale, o anche una certa doppiezza governativa nei confronti della Svp e della questione altoatesina in generale.

6.
Oggi, di fronte alla evidente crisi poltitica e culturale dell'ordinamento creato dal "pacchetto" sudtirolese bisogna rendersi conto che si può far finta di niente. Le probabilità che le cose si aggiustino da sole e che le tensioni si dissolvano sono scarse. La pura continuazione della linea sin qui seguita da tutte le parti in causa promette di far crescere ulteriormente la divaricazione tra i gruppi linguistici conviventi e la sfiducia nella possibilità di correzioni democratiche, con tutti i fenomeni conseguenti (dall'ulteriore crescita del Msi agli atti violenti da una certa radicalizzazione all'interno ed ai margini della Svp all'impasse nelle relazioni tra Italia ed Austria). L'avanzato processo di erosione della convivenza e delle speranze autonomistiche e democratiche non può essere fermato e rovesciato da piccoli aggiustamenti nelle minutaglie etniche (qualche posto di lavoro e qualche alloggio spostato da gruppo linguistico ad un altro) o da ulteriori perfezionamenti di norme già rivelatesi fonti di tensioni (per esempio riguardo al censimento etnico).

In sostanza la questione decisiva oggi pare essere questa: è pensabile che si avvii un processo di correzione democratica e quindi di rilancio e rivitalizzazione dell'autonomia altoatesina? Ed è pensabile che tale processo di riforma si innesti, riqualificandolo, sull'iter di completamento dell'attuazione del "pacchetto", al termine della quale dovrebbe finalmente chiudersi la fase internazionale e vertenziale della vicenda sudtirolese?

La posizione del governo italiano oggi sembra invece essere un'altra: prima "chiudere il pacchetto", attraverso ulteriori ed estenuanti mediazioni con una Svp sempre meno disposta a far intravvedere un approdo (dichiarazione di soddisfazione) e col rischio di provocare ulteriori e crescenti avversioni fra gli "italiani" e frustrazioni nell'area interetnica in Alto Adige. Solo in un secondo momento, eventualmente, pensare a correzioni o aggiustamenti. La Svp invece sostiene che il suo consenso dato al "pacchetto" è subordinato al mantenimento di tutti i meccanismi nei quali ormai si sostanzia, a suo giudizio, l'autonomia e la tutela della comunità tirolese, e che anche correzioni minori renderebbero vano quel consenso.

L'ipotesi di una chiusura della vertenza e di successivi interventi modificativi, una volta che magari l'Austria avesse concesso la sua "quietanza liberatoria", viene vista dalla Svp come vera e propria truffa prospettata da forze presenti nel campo "italiano". Comunque si è ormai constatato che il meccanismo del varo consensuale di norme autonomistiche si è inceppato nelle secche dell'esasperazione etnica e che oltretutto quelle norme, spesso, non convincono, a causa della loro scarsa qualità democratica.

A questo punto qualcuno deve tagliare la testa al toro. Il Msi, spalleggiato tuttavia da un notevole consenso di firme in calce ad una petizione e di voti italiani-altoatesini, propone di revocare numerose norme del "pacchetto" e fornisce così al partito di Magnago l'occasione per denunciare il pericolo neofascista e mobilitare la sua base. I partiti del cosiddetto "arco costituzionale" (nel caso specifico: l'"arco del pacchetto") finora sanno opporre solo una contorta difesa d'ufficio dell'ordinamento esistente, salvo qualche marginale ritocco (ma interessanti ripensamenti sembrano in atto nel Pci). Intanto si moltiplicano le voci che all'interno del Svp preannunciano che non ci sarà mai una parola "fine" in fondo alla vertenza. E la non piccola fascia di cittadini ben disposti alla convivenza fuori dai blocchi etnici finisce per scoraggiarsi e sentirsi isolata di fronte al pervivace sostegno che l'Italia finora ha offerto alla linea dello "sviluppo separato".

Non varrebbe allora forse la pena che il governo italiano si assumesse - con il conforto del parlamento e dell'opinione pubblica democratica - le sue responsabilità e procedesse ad emanare unilateralmente le norme mancanti per l'attuazione autonomistica, iniziando comtemporaneamente l'opera di ripulitura democratica degli ingranaggi sin qui costruiti?

Poco tempo fa, il 19 febbraio 1986, la Camera dei deputati ha ratificato, con insolite maggioranza trasversali, due documenti (uno presentato da comunisti, radicali e Sinistra indipendente, vicino alle posizioni espresse in questo articolo; l'altro firmato dal pentapartito) che suonano incoraggiamento al governo, affinché attui pienamente sia l'autonomia che la riforma democratica. Pertanto si potrebbe procedere all'elaborazione di norme che procedano in tale direzione: piena parità delle lingue, ma anche piena libertà nel loro uso (e non, invece, un vincolo di obbligatorietà a seconda del gruppo linguistico di appartenenza); riconduzione della rivelazione dei gruppi linguistici nel censimento alla normalità statistica (non registrazione nominativa di chi è "italiano" o "tedesco" o "ladino", ma quanti esistono complessivamente dell'una o dell'altra lingua); smantellamento delle troppe "gabbie etniche" che disciplinano l'accesso all'impiego, alla casa, e ad altri benefici sociali per linee etniche; valorizzazione di una cultura del bilinguismo diffusa che riformi e progressivamente renda superfluo il "patentino di bilinguismo" con relativo esame; pieno riconoscimento dell'autonomia locale, senza il costante mercanteggiamento su ogni singolo atto di autogoverno condizionato e taglieggiato dallo Stato centrale; responsabilità locale nel reperire un gettito tributario sufficiente a coprirne le spese, e così via.

Di fronte ad una buona qualità democratica di tali norme (nella linea "meno separazione/più autonomia, meno proporzionali/più bilinguismo, meno corporativismo etnico/più diritti civili") per la Svp sarebbe piuttosto difficile sostenere che l'autonomia sudtirolese ed i diritti della minoranza sono in pericolo. Finalmente potrebbe avviarsi anche una dialettica più libera in seno alla comunità tirolese, minando la compattezza artificiale della Svp.

Visto insomma che il meccanismo concordatario ha portato al logoramento ed alla paralisi, non sarebbe forse giunta l'ora di costringere ciascuno ad assumersi le proprie responsabilità con atti e scelte unilaterali e coerenti? Così nessuno potrebbe più nascondersi dietro richiami sempre più forzati al "pacchetto". I presupposti giuridici per questa correzione di rotta esistono nello stesso Statuto speciale. Esistono anche i presupposti sociali e culturale per avviare un'opera di riforma - seppure con un consenso ancora minoritario (ma era così anche all'origine della linea del "pacchetto"). Ora bisogna che si creino, finalmente, e prima che sia troppo tardi, anche le condizioni politiche. Difendere l'autonomia sudtirolese significa riformarla. Altrimenti tra non troppo tempo si dovrà constatare che essa non è più difendibile e che a furia di aver voluto conservare l'acqua sporca insieme al bambino alla fine si perderanno entrambi.


Terapia d'urto per il Sudtirolo
MicroMega n. 1, 1987
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